Fra movida e barricate, la Belle Époque della Barcellona modernista

La nascita dell’arte modernista catalana nella fervente Barcellona di fine Ottocento, fra rivoluzione industriale, tensioni sociali, e sfrenata joie de vivre, nelle tele e nelle architetture dei suoi protagonisti. Tutte le informazioni al sito www.palazzodiamanti.it.

18 aprile 2015 14:55
Fra movida e barricate, la Belle Époque della Barcellona modernista
Pablo Picasso - Donna a teatro o Le Divan Japonais 1901

FERRARA - A riscaldare Barcellona negli anni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, non fu soltanto il sole mediterraneo della Costa Brava, ma vi contribuirono anche i profondi rivolgimenti urbanistici e sociali che, con la rivoluzione industriale, dettero avvio al moderno sviluppo della città e alla sua peculiare Belle Époque. Sulla scia dell’Esposizione Universale del 1888, Barcellona si scoprì contagiata da quella febbre positivista che stava scuotendo l’Europa, e travolta da una crescita economica che sancì definitivamente la sua vocazione mercantile e industriale. Un quadro che richiamò in città migliaia di contadini dalla campagna circostante, e determinò la rapida edificazione di nuovi quartieri.

Situazioni affollate, che divennero ben presto una sorta di quartier generale delle rivendicazioni operaie - di stampo anarchico-socialista -, il volto oscuro di una città che vedeva al contempo anche l’affermazione di una ricca borghesia. Ma l’eleganza, il lusso, la vita notturna, erano manifestazioni esteriori di un’angoscia spirituale ben più profonda, e che trovava nei moti operai la manifestazione più evidente. Come stava accadendo nel resto del Vecchio Continente, anche in Spagna a morire, in quell’ultimo scorcio di Ottocento, non fu soltanto Dio, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche; nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità.

Le città, Barcellona compresa, persero l’armonia medievale, sfigurate da sterminati quartieri di palazzi ammassati uno accanto all’altro, orrendamente uguali e grigi, e generarono in chi li abitava un profondo senso di alienazione. Eppure, paradossalmente, ironicamente o sadicamente, l’arte europea che va dal 1880 al 1930 esprime una maturità e un’estetica di tragica bellezza, di cui il mondo non aveva conosciuto l’eguale, quanto a capacità di compenetrare lo stato d’animo corrente della società.

Il Modernismo spagnolo seppe essere attento e lirico cantore dello scenario dell’epoca, ed ebbe a Barcellona la sua fucina più attiva. La raffinata mostra La rosa di fuoco. La Barcellona di Picasso e Gaudì, diretta da Maria Luisa Pacelli e curata da Tomàs Llorens e Boye Llorens, suggerisce già con il titolo quella condizione di caliente, problematica, e anche tragica bellezza, che permeava le Ramblas come il Barrio Gotico, e fa luce su quel contesto socio-politico in cui il movimento nacque, che sin qui aveva avuta poca attenzione da parte della critica artistica.

La definizione “rosa di fuoco”, fu attribuita alla città di Barcellona da un militante anarchico, Antonio Loredo, che con sorprendente intuito poetico sintetizzò il fascino che essa evocava, ma anche le tensioni che vi scaturivano, come attentati dinamitardi,e scontri fra operai e forze dell’ordine,

Di questo clima incandescente, gli artisti ne sono insieme protagonisti e interpreti, vivendo in prima persona la realtà che dipingono sulla tela. E la mostra ferrarese ripercorre la parabola del Modernismo spagnolo, contestualizzandolo storicamente, e toccando gli ambiti nei quali ha trovata espressione, ovvero la vita notturna, l’iconografia borghese, i panorami cittadini, l’estetica wagneriana, l’universo delle prostitute e degli umili, e l’architettura. A dare forma tangibile alla nuova Barcellona, furono infatti gli edifici dei vari Gaudì, Domènech i Montaner, Puig i Cadafalch, che scavano nelle radici medievali dell’architettura spagnola, rielaborandole rispettivamente di naturalismo floreale, strutture neogotiche, o fantasie orientaleggianti.

Accanto alla Barcellona dell’espansione periferica, ne nasce un’altra legata a un eclettismo estetico che è specchio del fermento che stava vivendo la città. La mostra ferrarese ne dà un ampio spaccato, con fotografie e riproduzioni di modellini in scala, che documentano il nuovo volto della città.

Parallelamente a quello architettonico, anche il Modernismo non fu un movimento omogeneo, ma ebbe al suo interno artisti che si espressero su basi stilistiche differenti, che vanno dal Naturalismo, al Simbolismo, ai Nabis, all'Espressionismo. Soltanto Ramon Casas e Santiago Rusiñol i Prats - considerati, per ragioni anagrafiche, gli iniziatori del movimento -, ebbero comuni radici impressioniste, la cui influenza risentirono dopo il soggiorno a Parigi negli anni Ottanta dell’Ottocento, e dove, da buoni spagnoli esperti di movida, dividevano un appartamento proprio sopra al Moulin de la Galette, scenario già caro a Renoir e Toulouse-Lautrec.

Ma il sentire spagnolo è diverso, permeato di un ascetismo che sconfina nella tristezza, e di una particolare sensibilità verso gli aspetti più intimi di quei luoghi che immaginiamo sfolgoranti di luci. Ed ecco che il Ballo al Moulin de la Galette dipinto da Casas (1890), sorprende per l’atmosfera raccolta della sala semivuota, colta nella luce di metà pomeriggio, un orario più consono per il popolo che lavora, al contrario della notte. Una luce azzurra quasi mistica invade la sala, le figure, appena abbozzate con tocco impressionista, sembrano eteree, e colpisce la figura del militare in primo piano, che sembra uscire dalla tela.

A Parigi, che all’epoca era considerata la capitale mondiale dell’arte, si formarono anche gli altri esponenti del Modernismo spagnolo, fra cui Hermenegildo Anglada Camarasa, Isidre Nonell, e un giovane che fu suo discepolo putativo, e che poi dovrà superare anche lo stesso maestro: Pablo Picasso. Per tutti, gli anni trascorsi in Francia furono fondamentali per l’elaborazione del loro stile modernista, spinti dall’urgenza di raccontare la realtà spagnola. Camarasa, affascinato dal mondo delle lorettes, attinse imparzialmente all’Impressionismo e all’Espressionismo per realizzare figure femminili dalla grande forza evocativa, (Champs Elysées, 1904), dagli ampi abiti, uno bianco e uno nero, che contrastano sia fra loro, sia con il fondale scuro dei viali notturni.

Nonell e Picasso rimasero folgorati dalla lezione di Toulouse-Lautrec, e lo si comprende osservando, la Cantante di cabaret (1897) del primo, e Donna a teatro (o Le Divan Japonais, 1901) del secondo. Nonell dipinge, in sfolgoranti toni arancioni, una donna dal volto appena abbozzato, precocemente invecchiato e dal ghigno grottesco, simbolo di un’umanità consumata nel vizio, in preda a una sorta di febbrile autodistruzione. Anche Picasso omaggia Lautrec, dipingendo il famoso locale di rue des Martyrs - per il quale il francese aveva realizzato un celebre manifesto -, ma approfondisce la carica angosciosa del dipinto, rifacendosi all’espressionismo di Munch; pur vestita di sgargianti colori, la donna osserva pigramente il palcoscenico, dove un grottesco Pierrot si esibisce in compagnia di una ballerina. Non è casuale la scelta di Pierrot, maschera ambigua e disturbante del teatro franco-italiano.

Allontanandosi progressivamente dal naturalismo, il Modernismo assume una maturità estetica che apporta profondità concettuale ai soggetti ritratti, indagando la dimensione psicologica dell'angoscia e della sofferenza, attraverso un disegno che si fa espressione anziché semplice riproduzione.

Rientrati in patria alla spicciolata, come nella migliore tradizione letteraria e artistica europea, i Modernisti si ritrovavano al caffè, e precisamente in quell’Els quatre gats ubicato nel carrer Montsió al piano terra della Casa Martí, un edificio modernista opera di Josep Puig i Cadafalch. Vi si respirava un’atmosfera caliente, dove agli spettacoli di flamenco cui partecipavano procaci ballerine, si alternavano a dibattiti e mostre d’arte. Notti frenetiche, sulla scorta di quanto a Parigi accadeva, ad esempio, al Chat Noir. Fu qui che Picasso espose per la prima volta, nel febbraio e nel luglio del 1900, c’era anche l’autoritratto giovanile, a carboncino e gessetto, del quale spicca lo sguardo intenso e profondo.

Barcellona, però, non era Parigi; il clima politico era molto più autoritario, e già Ramon Casas lo aveva documentato nel duro La garrota (1894), che riprende un’esecuzione capitale in una piazza cittadina, con il suo scenografico apparato funebre di religiosi incappucciati (simili a membri dell’Inquisizione), che accompagnano il condannato, mentre un’immensa folla, ai lati, osserva curiosa e pietosa insieme. A rendere più triste la scena, un plumbeo cielo invernale, e gli alberi spogli. Una scena dai toni spiccatamente realistici, dove predominano i toni del nero, del grigio e dell’ocra. Anni non facili, a Barcellona, e ciò spiega l’aura sorprendentemente spettrale del bozzetto di un manifesto per il carnevale, che Picasso aveva realizzato nel 1899: uno sfondo scuro e indefinito, su cui si agita un Pierrot che stavolta anticipa Munch, e annunciatore di una catastrofe, anziché di una festa, in compagnia di un’inquietante dama bendata.

Una Barcellona che comunque aveva il suo lato mondano, e lo si scopre nei ritratti dei vari personaggi che frequentavano l’Els quatre gats, opera di Casas e Picasso. Del primo, si apprezza l’atmosfera aristocratica dei suoi personaggi, che sembrano appena usciti da un salotto di Proust, mentre Picasso colpisce per l’immediatezza, a tratti aspra, del carboncino, con cui conferisce asciuttezza ai figurini ritratti, sé stesso compreso.

Nel loro farsi interpreti della società dell’epoca, i pittori modernisti osservavano le differenti classi sociali. Da un lato, la ricca borghesia alla ricerca di una propria iconografia per legittimare anche esteticamente il suo status sociale, e dall’altra il solito limbo degli emarginati che si forma in seguito ai “miracoli economici” troppo repentini.

Abiti sfarzosi, comodi divani, elegante mobilia, spiccano nelle tele di Ramon Casas e Santiago Rusiñol i Prats, cantori di una borghesia raffinata e indolente, sempre comodamente seduta, e con sul volto un’espressione di compiaciuta sicurezza, appena velata di sottile ascetismo. Casas in particolare, risente della lezione del preraffaellita Whistler, evidente nelle preponderanti sfumature di bianco della Scena domestica all’aria aperta (1892), dove una coppia siede nel patio a un tavolino da tè. Ma c’è distanza fra i due; lui sonnecchia sulla sedia, lei, in un ampio abito rosa, zucchera il tè con indifferenza.

Calde atmosfere del Romanticismo tedesco, riecheggiano nel Romanzo d’amore (1894) di Rusiñol i Prats, raffinata tela dove, in un elegante salotto impreziosito da un caminetto in marmo bianco dal ricco fregio, una dama di nero vestita tiene in mano un libro; rivolge lo sguardo a chi osserva, e in quegli occhi si legge una malinconica meditazione degna del Goethe maturo. Un equilibrio che invece è sfuggito alla Morfinomane, (1894), ancora di Rusiñol; una donna giace in un letto disfatto, il corpo pallido, al limite dell’emaciato, e stringe convulsamente il lenzuolo con la mano scarna. Sul volto, un’espressione di estasi artificiale, indotta dall’assunzione di morfina, appunto.

Se da un lato torna alla mente il Baudelaire dei Paradisi artificiali, dall’altro si pensa all’urgenza di sfuggire all’angoscia quotidiana che deriva dal vivere in una società nella quale si comincia a non riconoscersi più, travolti da un’inquietudine a tratti inspiegabile, a tratti invece ravvisabile nelle agitazioni sociali che scuotevano la città.

Tuttavia, a offrire un quadro più vivace della Barcellona dell’epoca, sono le classi sociali più umili, che abbandonano gli atteggiamenti compassati in nome di una colorata spontaneità. Una Belle Époque che si rispetti, non può prescindere dalle femmes fatales, simbolo sì di trasgressione, ma accompagnate anche da un’aura vagamente romantica e misteriosa. Ne fu appassionato cantore Hermenegildo Anglada Camarasa, che molte ne conobbe di persona nelle sue flâneries notturne.

Fleur de Paris (1902) e Il pavone bianco (1904), sono i ritratti, sottilmente inquietanti, di due cortigiane dell’epoca; la prima, che parrebbe una mulatta o una gitana, cattura per il rosso delle labbra che spiccano sul volto scuro, e per lo sguardo febbrile. Sul suo ampio abito scuro spicca il marabù azzurro, mentre alle sue spalle s’intravedono il bancone del locale in cui si trova, e una coppia di avventori. Il pavone bianco, invece, è una scena d’esterno, dove la cortigiana, avvolta in un ampio abito che ricorda quelli catalani tradizionali, è seduta nel dehors di un caffè, e stringe nella mano un mazzo di fiori, omaggio di un affezionato cliente.

La dama in bianco contrasta con violenza contro lo sfondo scuro del quadro, nei toni del blu e del verde scuro. Entrambe le pitture sono caratterizzate da una pennellata ampia e pastosa, a metà fra l’Espressionismo e quello che sarà lo stile dei Fauves. A testimoniare quanto variegate e innovative furono le ispirazioni dei Modernisti spagnoli.

Appena più tradizionale, Ramon Pichot, nella sua Germaine (1900), risente della lezione di Toulouse-Lautrec, nel ritrarre una prostituta semisdraiata sul letto, il corsetto rosso che risalta sull’abito bianco, e un’erotica giarrettiera che s’intravede appena al margine sinistro del pastello.

Sull’ultimo gradino della scala sociale, zingari, poveri, disoccupati, anziani e malati, i diseredati che ogni epoca sembra esigere come vittime sacrificali. Artisti come Picasso, Nonell, e Julio Gonzalez, vi soffermarono il loro sguardo. Nonell, nel Reduce da Cuba (1898), ritrae un ex militare che osserva malinconicamente il mare, probabilmente riandando con la mente alla battaglia appena perduta. La sconfitta militare a Cuba, patita conto gli Stati Uniti, e costata molte vittime, dette adito al malcontento popolare, essendo il popolo colui che più aveva pagato in termini di vite umane, il prezzo della guerra.

Inoltre, la rinuncia agli ultimi possedimenti coloniali, provocò nel paese una crisi economica che colpì in misura maggiore la classe popolare. Ancora più evocativo, con uno stile che ricorda Cézanne, l’acquerello Poveri addormentati (1897), dove due senzatetto dormono su una panchina. Picasso si sofferma sulle figure di madri con un bambino in braccio, sorta di maternità laiche simboli di innocenza e di speranza insieme. È in questo periodo che il genio di Málaga da avvio al cosiddetto periodo blu, ritraendo i diseredati della baraccopoli di Barceloneta. Povertà (1902), è insieme emblema di uno stile artistico, e di un dramma sociale; una famiglia vestita di stracci, vaga senza meta lungo la spiaggia dove sorge la baraccopoli, incerta sul proprio destino, senza più averi sulla Terra; il periodo blu è forse l’ultimo in cui Picasso infonde l’anima alle proprie opere, attento alla dimensione umana, e ancora lontano dalle sperimentazioni formali.

Un vagare zingaresco che si apparenta alle gitane di Nonell, dipinte in delicati acquerelli nei quali spicca però la monumentalità scultorea (mutuata da Rodin), delle figure femminili; monumentalità accentuata nelle tele, queste molto vicine, per cromatismo, al Picasso del nuovo periodo blu. Non era una città facile, quella Barcellona, caratterizzata da emarginazione, povertà, sfruttamento dei lavoratori, aspetti che erano sembrati passare in secondo piano, sullo sfondo dei nuovi quartieri della borghesia, delle luci dei locali notturni, delle feste da ballo.

Un malessere che però tornava a riemergere fra un attentato e l’altro, contro il clero e le istituzioni, ritenuti responsabili della dura condizione della classe operaia, che aveva pagato il prezzo più alto nelle crisi agricola prima e industriale poi, ai primi del Novecento. Un’esasperazione che sfociò nelle violenze della cosiddetta Semana Trágica, che insanguinò diverse città spagnole, fra cui Barcellona, dal 26 luglio al 2 agosto 1909. A dare fuoco alle polveri, il richiamo, da parte del primo ministro Antonio Maura, di truppe di riserva per la ripresa dell’attività coloniale in Marocco.

Ancora provata dalla sconfitta a Cuba, e spossata dalle difficoltà economiche, la classe operaia reagì per tramite della Solidariedad Obrera, da anarchici e socialisti, che organizzò uno sciopero generale per il 26 luglio 1909 cui parteciparono antimilitaristi, anticolonialisti e anticlericali; la situazione sfuggì di mano, e i dimostranti si abbandonarono a numerosi atti di violenza, che la mostra documenta con numerose fotografie di edifici, fabbriche e conventi devastati. Il governo autorizzò l’intervento dell’esercito, e alla fine degli scontri, ci furono 150 morti fra i dimostranti.

La Belle Époque spagnola era finita nel sangue, come fra pochi anni finirà anche quella del resto d’Europa, con la Prima Guerra Mondiale. E la Spagna, si avviava sulla strada delle tensioni politiche, che poi sfoceranno nella guerra civile prima e nella dittatura franchista subito dopo.

L’elegia di quegli anni folli sfociati nella disperazione, porta la firma di Picasso, che nella splendida Ragazza in camicia (1904), delinea una malinconica figura femminile dallo sguardo perso nel vuoto - icona del periodo blu -, e simbolo della fragilità umana.

Niccolò Lucarelli

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