Cultura in trincea: la Grande Guerra fra tele e colori

Nel centenario della Prima Guerra Mondiale, ricostruiamo l'impatto che ha avuto nel mondo della cultura italiana e mondiale. Da oggi, per quattro domeniche consecutive, un'analisi della Grande Guerra attraverso la pittura, la poesia, il cinema e la letteratura. Le deformazioni di Grosz e Dix, il realismo di Jack, e l'amarezza di Soffici, fissano sulla tela quattro anni che cambiarono l'Europa.

02 agosto 2015 10:38
Cultura in trincea: la Grande Guerra fra tele e colori
Richard Jack - La battaglia del Canale di Vimy

ROMA - La Grande Guerra, di cui ricorre quest’anno il centenario, segnò la fine dell’Ottocento e l’inizio del Secolo Breve, vide l’utilizzo di nuove potenti armi e una drammatica escalation degli effetti bellici, venendo a interessare larghe fette della popolazione civile. Inserendosi in un momento particolarmente teso della politica europea, la Grande Guerra fu caratterizzata da una violenza mai vista prima nello svolgimento delle operazioni, da un furore socio-politico che segnerà l’Europa nei decenni futuri.

Ma a imprimere il conflitto nell’opinione pubblica, furono anche altri aspetti: mentre i conflitti dell’Ottocento, fra cui le battaglie napoleoniche e quelle del nostro Risorgimento erano state tramandate da oleografie e dipinti - spesso a carattere agiografico -, la Grande Guerra fu il primo conflitto a carattere mediatico, che i giornali seguirono con assiduità, e documentarono con approfonditi reportage fotografici. Non per questo l’arte ne rimase esclusa, anzi furono proprio gli artisti a esprimere l’inesprimibile, ovvero il dolore, la tensione, il terrore, che caratterizzavano la vita di trincea e le operazioni d’attacco.

Una guerra completamente diversa dalle altre, che vede un massiccio impiego di mitragliatrici, dei primi carri armati, dell’aviazione, dei gas tossici; una guerra che ebbe devastanti effetti psicologici sui militari e sui civili, e che sarà decisiva per le sorti della futura Europa, quella dei totalitarismi prima, e della Guerra Fredda poi.

Si tratta di un clima sociale e politico in cui la componente emotiva ha molta valenza, stanti anche le nuove ideologie socialisteggianti, che inquadravano il semplice fante quale vittima del capitalismo bellicista. Al di là di questioni politiche più o meno accettabili, bisogna notare che il nazionalismo prevalse, e le popolazioni dei Paesi coinvolti nel conflitto non facevano mancare il loro sostegno all’Esercito, anche con la viva partecipazione al dramma di chi combatteva in trincea.

Tralasciando gli episodi di propaganda “artistica”, si può comunque notare lo sforzo dell’arte per interpretare in modo autentico il clima del conflitto, sia sul piano documentaristico, sia su quello più strettamente emotivo e psicologico.

Fra gli artisti che meglio resero il realismo del fronte, Richard Jack, nato nel Regno Unito nel 1866, e trasferitosi in Canada dove nel 1916 fu nominato “artista di guerra ufficiale”, con il compito di documentare lo sforzo bellico dei contingenti canadesi sul Fronte Occidentale. Dalle sue tele di grande, eseguite con certosina attenzione ai minimi particolari, l’osservatore spazia su tutta l’estensione del campo di battaglia, cogliendo le fasi dell’attacco e della difesa, e quasi immaginando le grida di chi guida l’assalto, le detonazioni delle granate, le urla dei feriti, di quel tragico universo che è il fronte.

Invece, volendo analizzare la Prima Guerra Mondiale dal punto di vista degli effetti psicologici, gli esempi migliori li fornisce la scuola tedesca, in un periodo in cui il forte Impero Prussiano attraversa la sua ultima crisi, quella che lo porterà al disfacimento. All’interno di un profondo malessere sociale, la guerra è vissuta come una sorta di estremo sforzo per la sopravvivenza di un’intera civiltà, e il suo orrore penetra sin nelle retrovie e nel resto della Germania.

Artisti-soldati quali George Grosz (1893-1959) e Otto Dix (1891-1969), entrambi arruolati nell’esercito tedesco, vissero in prima persona quella drammatica esperienza, che seppero immortalare sulla tela a futura memoria dei posteri. Grosz, arruolatosi volontario nel 1914, viene congedato nel maggio dell’anno successivo, per gravi disturbi nervosi. Tuttavia, la pur breve permanenza al fronte si imprime profondamente nel suo animo, e diviene motivo di riflessione su una Germania ormai allo stremo, dove allignano la completa caduta di valori, la vittoria della materialità sull’essenza spirituale e l’asfittica degenerazione sessuale. Fondatore nel 1920 del gruppo dadaista, del dadaismo apprezzava il linguaggio satirico e dissacrante, che usava per attaccare l'ideologia borghese, e in parte anche il militarismo.

Pertanto, le sue figure umane sono caratterizzate da volti contratti, ghigni di rabbioso dolore, perché milioni di comuni cittadini, muoiono in silenzio sui campi di battaglia, o languono negli ospedali, mentre nelle retrovie speculatori e industriali fanno affari d’oro.

Anche Otto Dix prese parte al conflitto in qualità di sottufficiale volontario, e combatté sia sul Fronte Occidentale, in Francia, sia sul Fronte Orientale, in Russia; aderente al movimento dadaista, le sue pitture di guerra sono caratterizzate da un senso del grottesco che supera e acuisce il realismo narrativo, pieno di significati simbolici, per i quali si può parlare di una nuova interpretazione del medievale Trionfo della Morte. Come modelli usò spesso immagini reali di soldati sfigurati, raffigurando corpi squartati e decomposti in trincee e in campi di battaglia, servendosi di un approccio crudo e tragicamente impietoso. Nonostante le apparenze, queste immagini non volevano essere atti d’accusa all’Esercito in sé stesso o alla politica estera tedesca; erano bensì coscienti valutazioni di una situazione di crisi e malessere sociale, che si rifletteva anche nella violenza della stessa guerra.

In Italia la situazione era assai diversa; l’ottusità politica dell’epoca aveva creata una profonda frattura fra l’Esercito e il Paese, tale da mostrare la guerra come qualcosa di remoto, quando non addirittura sconveniente. Il disagio del militare in licenza davanti all’indifferenza dei propri connazionali fu una di quelle situazioni che poi alimenterà l’ideologia fascista; a contribuirvi in maniera sostanziale, però, fu il vergognoso trattamento riservato ai tanti reduci invalidi o ammalati, che trovarono forti difficoltà nel reinserimento nella vita civile.

Ben esemplifica la questione il dipinto di Ardengo Soffici Millenovecentodiciannove (Il reduce), di grande intensità e dai forti contenuti sociali. Attraverso la figura del reduce lacero e dal passo malfermo, Soffici dà voce ai tanti soldati italiani sopravvissuti nelle trincee della guerra e al loro disagio per il difficile reinserimento nella vita civile. La figura dolente del reduce, in cui il lirismo si vena di accento drammatico, è un simbolo della ricerca di valori essenziali che caratterizzarono il “ritorno all’ordine” del Soffici della maturità, che puntava a riscoprire gli stilemi dei primitivi e del primo Quattrocento toscano, influenzando non poco anche la cosiddetta “Scuola di Prato”.

Solo in situazioni limitate la guerra interessò la popolazione civile; le vittime del conflitto furono quasi tutte al fronte, tra i militari. Ma in Italia, anche i reduci divennero paradossalmente vittime, poiché dovettero scontrarsi con l’indifferenza di un Paese digiuno di cultura militare e amor di Patria.

Niccolò Lucarelli

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