Livorno: lapide con le parole di Primo Levi affissa al Palazzo Municipale

Il sindaco Cosimi: “Un monito contro il Negazionismo”. Sopravvissuta al campo di Berger Belsen ha incontrato gli studenti di Cascina. A febbraio una mostra, e un convegno promosso con il Museo della deportazione di Prato

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
28 gennaio 2014 22:24
Livorno: lapide con le parole di Primo Levi affissa al Palazzo Municipale

Una lapide con la poesia di Primo Levi “Shemà”, a ricordare alla città il dramma della deportazione degli Ebrei nei campi di sterminio, è da oggi affissa ad una parete esterna del Palazzo Municipale di Livorno, proprio a fianco della porta di ingresso dalla quale passano quotidianamente i dipendenti comunali e tanti cittadini. “Una scelta non casuale per la Giornata della Memoria – ha dichiarato il Sindaco Alessandro Cosimi nel corso della cerimonia di inaugurazione della lapide – perché il Comune è la casa dei cittadini e il Comune esprime con questa poesia un punto di vista molto preciso sulla deportazione e uccisione di tante persone, ebrei, omosessuali, rom, disabili.

E cioè una condanna netta a uno Stato che, con le leggi razziali, e quello che ne è conseguito, ha voluto negare l’esistenza stessa di alcuni cittadini, ha voluto cancellarli, annientarli, distruggerli. Questa lapide – ha precisato il Sindaco Cosimi - è inoltre un monito a scolpire nei nostri cuori la coscienza dei crimini commessi, condannando il negazionismo, e a costruire una città di pace partendo dalla sofferenza di chi ha vissuto la tragedia della Shoah”. La cerimonia di inaugurazione della lapide, donata al Comune dal Lions Club Livorno Porto Mediceo, è stata preceduta da un incontro nella Sala Consiliare con gli interventi, oltre che del sindaco Alessandro Cosimi,del presidente del Consiglio Comunale Enrico Bianchi, del presidente del Lions Club Livorno Porto Mediceo Roberto Diddi e per la Comunità Ebraica Livornese di Daniele Bedarida, che ha letto un messaggio del Presidente del Consiglio Nazionale dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane (UCEI).

Ha introdotto l’assessore alle culture Mario Tredici che ha ricordato fra l’altro la figura di Frida Misul, ebrea livornese che ha vissuto il dramma della deportazione. Nel corso della cerimonia il coro degli alunni e degli adulti delle scuole Borsi- Pazzini diretti da Sara Saccomani si è esibito in un'anteprima dello spettacolo musicale "Quadratini in brodo", liberamente ispirato al diario di Frida Misul (Lo spettacolo si svolgerà integralmente il 6 Febbraio presso la Goldonetta). E’ stata distribuita la pubblicazione “Voi che vivete sicuri….” sulle persecuzioni degli ebrei a Livorno e sul rapporto tra Primo Levi e la nostra città.

La pubblicazione è edita dal Comune di Livorno. Nell’ambito degli appuntamenti intorno alla Giornata della Memoria mercoledì 29 gennaio alle ore 16.30 al Centro Donna del Comune di Livorno (largo Strozzi 3) sarà presentato il libro di Stefania Lucamante “Quella difficile identità. Ebraismo e rappresentazioni letterarie della Shoah” (Iacobelli Editore). A parlarne sarà la giornalista e saggista Anna Maria Crispino fondatrice della rivista“Leggendaria”. Nel libro che verrà presentato, l’autrice Stefania Lucamante mette a tema la riflessione, la narrazione e la trasmissione della memoria della Shoah, da parte di alcune donne scrittrici.

Partendo dai primi memoriali delle deportate italiane che videro la luce già all’indomani della Liberazione, passando alle testimonianze e ai romanzi pubblicati a distanza di decenni, fino all’opera di scrittrici della generazione che è stata definita dei “Figli e figlie dell’Olocausto”, l’autrice indaga i meccanismi di trasmissione della memoria di donne che, in modi diversi, furono coinvolte in quell’evento epocale e decisero di scriverne. Durante l’incontro, promosso dal Comune di Livorno, Centro Donna e Associazione Evelina De Magistris in collaborazione con la Comunità Ebraica di Livorno ANPI e ANPPIA, sarà proiettato il video “ I ragazzi di Villa Emma” realizzato da Eleonora Giordano. L’esperienza della deportazione raccontata ai ragazzi delle scuole superiori.

Stamattina, nella sala consiliare del municipio di Cascina, Kitty Braun, italiana di Fiume, oggi fiorentina, ha raccontato agli studenti di quattro classi del Liceo artistico “Russoli” e dell’Istituto d’istruzione “Pesenti” la sua storia di bambina di nove anni deportata nel campo di sterminio di Bergen Belsen. «La mia era una famiglia ebrea che abitava a Fiume – ha raccontato Braun – ho frequentato una scuola riservata agli ebrei e ho subito le conseguenze delle leggi razziali.

Quando diedero fuoco alla sinagoga di Fiume, mio padre decise di abbandonare la città. Di notte, per non farci vedere, prendemmo un treno che ci portò a Trieste, dove trovammo alloggio in un albergo. Non potevamo giocare né ridere, non potevamo portare le scarpe perché non si doveva sapere che eravamo lì. Poi un nuovo viaggio in treno, fino a Mestre, dove ogni notte c’erano i bombardamenti e ci alzavamo per andare nella campagna, per sfuggire alla bombe, fino a quando non trovammo un’altra sistemazione presso una famiglia contadina fuori città».

«L’11 novembre del 1944, alle 6 del mattino, arrivarono le SS con un fiumano che ci fece riconoscere. Fummo portati in carcere, poi alla risiera di San Sabba. Da lì, in un treno bestiame, al campo di Ravensbruck e poi al lager di Bergen Belsen, nel nord della Germania. Ricordo il percorso a piedi che facemmo dall’entrata del campo alla baracca. Gli altri prigionieri, smagriti, con gli occhi fuori dalle orbite, ci chiedevano, al di là del filo spinato, nelle loro lingue, notizie dei loro cari.

La baracca era fatta di legno, dovevamo fare i nostri bisogni in una fossa, eravamo denutriti, malati di tifo. Mio cugino Silvio, un bambino, morì in quella baracca, dopo una notte di pianti e sofferenze. Quando alla fine spirò, la madre, svuotata per le pene che il figlio dovette sopportare, si sciolse in un pietoso “finalmente”. Avvolto in un lenzuolo, Silvio fu buttato con gli altri cadaveri accatastati». «Quando i tedeschi abbandonarono il campo restammo per giorni rinchiusi nella baracca senza mangiare, senza bere, ricoperti dei nostri escrementi.

Quando arrivarono gli inglesi a liberarci, vidi i loro occhi inorriditi, per quello che vedevano, per il terribile odore che sentivano. Solo in quel momento mi sono resa conto della terribile condizione in cui vivevamo. Mi misero su un tavolone e con l’acqua fredda di una sistola e un bruschino mi disincrostarono dallo sporco che avevo addosso. Mi adagiarono in un letto. Ricordo ancora quel momento e il profumo delle lenzuola pulite. Purtroppo, mio fratello Roberto morì poco dopo la liberazione dal lager, per la tubercolosi presa nel campo».

Ugo Caffaz, antropologo, ha sottolineato le dimensioni della Shoah. «Nella seconda guerra mondiale sono morte 65 milioni di persone, di cui 13 milioni nei campi di sterminio nazisti. La metà erano ebrei e 1,5 milioni bambini. La cultura, la conoscenza, la presa di conoscenza che tutto questo è stato, è l’unico modo di combattere l’affermazione di noi stessi attraverso l’eliminazione dell’altro». «Il nostro contributo al Giorno della memoria vuol essere quello di parlare delle persone che hanno vissuto quegli eventi tragici –ha detto Alessio Antonelli- per estrarre dalla grande storia che sta sui libri, le storie delle persone che possono raccontarci la loro esperienza diretta di quei giorni». A Prato la Provincia per promuove la conoscenza della storia e sensibilizzare le giovani generazioni ha in programma, per febbraio, un convegno e una mostra fotografica che sarà allestita al piano terra di palazzo Buonamici.

Tema della riflessione la discriminazione nei confronti dei disabili, argomento che fu purtroppo protagonista, insieme ad altri orrori, della stagione nazi-fascista. L'allestimento, visitabile a partire dal 15 febbraio, è realizzato a cura di Anffas e si rivolge in particolare ai ragazzi delle scuole. Insieme alla mostra è in programma anche un convegno (18 febbraio) promosso in collaborazione con il Museo della Deportazione di Prato.

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