Intervista ad una levatrice anarchica

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
17 ottobre 2006 15:49
Intervista ad una levatrice anarchica

Teresa Bianchini, nata a Borgo San Lorenzo nel lontano1925, in quella Toscana che si estende con dolci colline nei dintorni di Firenze, di professione ostetrica, ha deciso di confessarsi. Ha deciso, spoglia da ogni pudore, di narrare, oramai impossibilitata per questioni di salute a concedersi ancora una volta alla vita, la sua esistenza, il suo passato interamente dedicato, all’insegna della passione, che da sempre la contraddistingue, al prossimo. Teresa sembra reduce da un doloroso e nello stesso tempo felice vissuto, naufraga di un lontano viaggio fatto d’incontri e di coincidenze, d’affetti mai dimenticati, d’amicizie perenni e da un amore sofferto.

Non sempre il passato inizia dalla nascita, in molti casi il prologo dell’esistenza coincide con un evento che indelebile ci segna l’anima. Molto spesso, infatti, meditandoci sopra, comprendiamo che una persona inizia a vivere in relazione alla ragione, in convivenza con l’altro, forse agli albori dell’adolescenza. Questo Teresa l'ha capito e ne'è convita, al punto di confessare che la sua vita non ha principio nel’25 ma vent’anni dopo, quando prende da Firenze il treno per Napoli, diretta per un paese della Lucania, per esercitare la professione d'ostetrica.

Un viaggio sofferto, ma felice. Una partenza che non prevede un ritorno eminente ma lontano: distante quasi quarant’anni. E’ solo nel 1985 che Teresa decide di tornare al proprio paese per soggiornarci quasi vent’anni, gli ultimi della sua intensa vita. “Un’esistenza – come lei stessa tiene a rilevare – lunga e faticosa, ma soprattutto libera. Un vissuto lontano dalle solite ipocrisie, dalle ordinarie miserie d’animo”. Una vita vissuta dissacrando ogni credo, ogni forma di pregiudizio, come lei sostiene ridendo e confessando: “ ho sempre cercato di riempire i miei giorni d’amici e conoscenti, e sai perché? Per avere un funerale molto popolato”! Una frase questa che bene sintetizza la sua personalità, il suo essere, e – forse- l’animo di questa intervista, che a ben guardare ha i toni di una confessione, di un crudo smascheramento dopo anni d'intense vicissitudini.



Teresa, ho avuto la sensazione che quel treno da te preso nel giugno del’45 fosse realmente importante. In pratica, ho il fondato sospetto che il viaggio da te intrapreso non fosse solo un’occasione professionale bensì un modo per misurarti con te stessa, con le tue passioni, i tuoi vent’anni. Mi spiego meglio, il viaggio per Napoli da ciò che emerge sembra più una fuga che altro, non credi?
“Si, certo. Quando sono partita da Firenze ero consapevole di arrivare in un paese diverso dal mio, ero certa che di là del Lazio mi si presentasse una realtà difficile.

Che discorsi, la certezza che ad Anzi vi fosse un posto vacante per un’ostetrica lo sapevo, era palese, sennò non sarei partita. Sul piano privato, quella partenza significava avventura, esplorazione, desiderio d'indipendenza, ma anche d'abbandono. Per quest'opportunità abbandonai i miei a Borgo, mi congedai dagli amici, da coloro cui piacevo e che mi facevano il filo, dai miei fratelli. Ero consapevole di ciò che mi aspettasse, ma ero decisa: pretendevo da me stessa qualcosa di diverso, di trasgressivo.

Nel’45, la guerra era appena finita e il desiderio di riscatto era forte, figuriamoci per un'antifascista come me. I miei non se la cavavano molto bene, i’mi babbo era contadino e la guerra per lui fu un disastro, a cominciare dalla miseria, dalla libertà perduta, dall’orgoglio ferito, dai campi che erano tutti minati. Il Mugello poi ne usciva cambiato, quasi fosse un cimitero, una terra fatta di partigiani, di caduti e di mezzadri incapaci di sfamare le proprie famiglie”.

Ora venendo al viaggio, potresti raccontarmi i quindici giorni di treno, l’arrivo a Napoli, l’attesa per la corriera?
“Ma che vuoi che ti racconti, fu a ragion del vero un disastro.

Le vie ferrate erano in gran parte divelte, al punto che eravamo costretti a scendere e a proseguire a pedi. Nel primo tratto riuscii ad arrivare ad Arezzo, poi scesi e camminai sino ad Orte dove ripresi il treno per scendere di nuovo a Magliano Sabina. La tratta migliore era sicuramente quella di Caserta- Napoli. Il viaggio in treno, un sali e scendi continuo, durò una decina di giorni poi presi il pulman per gli Alburni, altro calvario. Dalle parti di San Gregorio Magno trovammo un camion divelto che, a causa di un incidente, era caduto nella scarpata e così, aspettando i soccorsi e l’aiuto del buon Dio, ci rimanemmo per due giorni, soggiornando in un albergo di campagna a Buonabitacolo.

Ripartimmo di domenica mattina, ricordo come fosse ora, e finalmente, un po’ a piedi un po’ in corriera, arrivai a destinazione, e fu devastante”.

In che senso?
“Nel senso della parola. Mai prima di allora avevo visto una cosa del genere. Il paese era nascosto da pareti rocciose, da massi calcarei, e tutto intorno, ovunque spaziavi con la vista, vi erano tratturi, stradine sterrate che dal borgo scendevano a valle. Quando mi inoltrai verso il centro, dove avrei trovato qualcuno, che ne so un bar, per chiedere informazione sull’alloggio, la vita sembrò piombarmi addosso.

Le case erano una sopra le altre fatte di pietra e di polvere, dove sulle soglie delle porte bambini sporchi e malvestiti si trastullavano con giochi dementi, talvolta feroci, e sembrano parlare una lingua a me ignota, che neppure a Napoli era così incomprensibile, remota che millenni di storia non avevano minimamente scalfita. Poi tutto sembrava essere in miniatura: le strade, i palazzi signorili, le persone stesse. Una cosa poi che ricordo con patos ed emozione, che indelebile conservo nella mia mente, sono gli sfollati di Cassino.

Quella gente era giunta ad Anzi dopo la celebre tragedia che l’aveva resi orfani di una vita normale. Erano arrivati senza nulla, senza una casa, con i soli abiti che indossavano, in cerca di un rifugio e di qualcuno che potesse sfamarli. Povera gente! Che tragedia hanno vissuto, e quanto hanno patito, costretti per la fame a mangiarsi i pidocchi che avevano tra i capelli! Detto questo, credo che l’arrivo fu più traumatico della partenza. Certo, partendo da Borgo non ti nascondo che avevo le lacrime agli occhi, ma appena arrivata altro che lacrime! La fortuna mi aiutò e caso volle che prima di sera riuscii a trovare la donna che cercavo, colei dell’alloggio.

Si trattava di una donna magra, originaria d'Avigliano, che affittava a stagione le case per arrotondare i guadagni della campagna. La trovai in piazza, dietro la statua del patrono e, dopo essermi presentata, mi portò a vedere la casa. L’appartamento che mi era stato destinato, in comune accordo col municipio e il barone, si trovava nel rione più remoto del paese, soprannominato Torre. Era una casa semplice, con una porta fatta di tavole che la divideva dalla strada, e poco spaziosa. Per farla breve, si trattava di una misera cucina – che dovevo condividerla con un asino, il somaro della proprietaria – e la stanza da letto.

Certo, la casa era arredata, ma si fa presto a dire come; in cucina c’era solo un tavolo e una madia, poi il resto, a cominciare dalle piccole cose, era dispensato dal caminetto, col quale dovevo cucinare. Mentre la camera era altrettanto parca: un armadio e un letto. Appena mi congedai mi misi a dormire, che di ero proprio stanca. Dormii per due giorni e due notti e avrei ancora dormito se qualcuno non avesse bussato alla porta, maledizione il lavoro mi stava cercando: una donna anziana vestita di nero mi parlava in una lingua incomprensibile, ma capii subito di cosa si trattasse.

Presi l’occorrente, un asciugamano, il sapone, una tinozza e di corsa mi recai giù verso la piazza ad inaugurare il mio esordio. Un coro di voci, che subito dopo compresi essere delle preghiere, lambivano la casa del nascituro e il vento spirando le portava lontano, spegnendole nei baratri, fuori del paese. Ricordo che era di sera e che le strade illuminate da flebili lampioni macchiavano il borgo di una luce pallida, che solo il cielo rosa riusciva a diradare nel silenzio del crepuscolo. Rincasando, poco dopo,
sull’erta della piazza incontrai una donna che mi colpì, parlava da sola e aveva un volto scavato e sporco di fuliggine.

Una donna, come posso dire, strana, che sembrava essere assorta quasi camminasse per forza d'inerzia. Poi la stessa sensazione la ritrovai giorni dopo, quando la rividi e chiedendo chi fosse mi fu risposto che si trattava di Sisina, diminutivo di Rosa secondo il vernacolo locale, soprannominata la pazza, nota per trafugare le ossa al cimitero delle tombe antiche, scalcinate dal tempo e dall’incuria, per portarsele a casa. Sisina passava le sue giornate al cimitero, nonostante avesse avuto una barcata di figlioli, anzitutto di notte e appena scendeva la sera trafugava ogni ben di Dio dalle fosse e spegneva i fochi fatui con la mano.

Poi, si raccontava in paese, le portava a casa, quasi fosse un rito, e le custodiva nella madia, in mezzo a tanti santini e accedeva dei ceri. Povera Sisina, morì nell’inverno del’66, ricoperta da una coltre di neve! Il cadavere fu scoperto da un contadino in primavera. Il corpo fu ritrovato riverso, a pancia sotto, ma in ottimo stato che, secondo il medico, doveva essersi mantenuto a causa della neve che le faceva da sepoltura. La dinamica della morte non fu mai scoperta, e il tutto fu fatto passare come incidente”.

Quindi possiamo sostenere che Sisina fosse la diversa del paese, colei che esulava da un comportamento “normale”, o non era la sola?
“Ma che dire! In una realtà piccola come quella di Anzi è facile vedere il cosiddetto “diverso”.

Certo, di personaggi che esulavano dal normale comportamento dei comuni cittadini ve ne erano, come ad esempio Giuseppe Zito, detto Seppe o’longo. Un contadino dal corpo deforme, che ogni giorno andava a piedi dal paese alla campagna e che a sera andava a mendicare per le case santini e medaglie. Ora, se vogliamo leggere questo episodio dal punto di vista antropologico e sociale, possiamo sostenere che già allora un certo tipo di omologazione era presente. Certo si trattava di un'omologazione spicciola, lasciataci in eredità dal fascio: un comportamento umile condiviso dai più.

I paesani sembravano essere tutti uguali, vestiti allo stesso modo: le donne di nero o di blu, e gli uomini in abito di velluto, chiaro nei giorni feriali, scuro in quelli festivi. Personaggi come Sisina e Giuseppe certamente esulavano dal comportamento comune, ma ripeto, ciò che di allora possiamo definire omologazione, era un modo comune di comportarsi, un costume più che una regola, in relazione ad una civiltà contadina”.

Teresa, quel che stai affermando è vero, e lo dimostra il fatto che allora era facile ribellarsi al sistema.

Vi era, infatti, più consapevolezza della collettività, della storia, della ricerca sociale, della lotta di classe e, quindi, dei diritti civili: aspetti che dimostrano come ad Anzi nel’46 ci fu una sommossa per la tassa sul grano, una protesta che vide alleati latifondisti e massari contro l’ingiustizia del barone. Ti spiace raccontarmi come si svolse a dinamica del fatto?
“Non mi spiace per niente. Il discorso è semplice, vale a dire che non ci furono retroscena particolari; il barone un bel giorno decise di suo arbitrio di tassare il contado della cittadina sul grano: una tassa priva di senso e che, se vista da un aspetto politico, voleva essere una prepotenza per estendere la propria egemonia sui cittadini.

Questo i contadini lo sapevano e allora, senza premesse d'alcun tipo, decisero di protestare. Si unirono decine di uomini, compresi i figli maschi, e si recarono davanti al comune – che non centrava niente – chiedendo del sindaco il quale, non avendo coraggio, non scese e dopo giorni di lotta e di palate e accettate decisero di incendiare il municipio. L’evento costò la galera ad alcuni, mentre ad altri la vita; come ad un impiegato dell’anagrafe che morì nel rogo.

Teresa, non pensi che questo mesto episodio in fondo non sia servito a risolvere il problema.

Se, infatti, proviamo a ragionarci è facile capire come tutte le forme di rivoluzione siano poi state dimenticate nel tempo. Vale a dire, ogni sommossa, dalle più feroci a quelle elitarie, è solo servita per mettere disordine, ma che in sostanza l’ordine delle cose non sia mutato. Basta ritornare al discorso dell’omologazione per riuscire a vedere il “non risultato”. Ho sbaglio?
“ No, purtroppo non sbagli. La protesta del’46, come tante altre che avvennero nell’Italia post-fascista, non fu così radicale da mutare l’intero sistema, né fu capace di rivoluzionare l’aspetto culturale della vicenda.

Accantonati i problemi politici, da sempre al centro dell’attenzione, sono rimasti quelli culturali. Al punto che non basta una protesta per mutare un sistema comportamentale e sociale di migliaia d’anni. Nel corso della storia tutte le forme di contestazione cercavano di impegnarsi nello svolgere un discorso politico, e così facendo i comportamenti comuni, la civiltà e quant’altro, sono stati travolti da una quiescenza profonda, il cui risultato ha cercato e cerca di cancellare il passato sostituendolo con un presente senza futuro.

Se prendiamo in riferimento gli anni ottanta la cosa diventa palese. In questo periodo tra le nuove generazioni, soprattutto nell’Italia settentrionale, l’uso dell’eroina era frequente, tanto che ero costretta, mio malgrado, a vedere i ragazzi che avevo fatto nascere crescere nel tunnel della tossicodipendenza. Ricordo che ad Anzi ci furono delle morti causate dall’eroina. Tristi episodi, riportati dalla cronaca locale, come quello dei due fidanzati che decisero di morire nell’atto del coito facendosi un’overdose d’eroina.

Certo, come ti dicevo prima questo è il frutto di un nichilismo totale, l'effetto di un cambiamento fallito, riuscito solo a metà: la corsa ad un capitalismo che ha influenzato le classi deboli più di quelle alto borghesi. L’uomo dagli anni settata è diventato un’isola in mezzo a tante isole, un naufrago che cerca di non affondare a picco con la propria vita. Oggi quel che è certo è solo l’essere in sé, cioè vivere in relazione con l’altro senza partecipazione di sorta: si è, infatti, smarrito il senso della collettività.

Ciò detto, il capitalismo e l’omologazione hanno ormai travolto ogni realtà, mutandola profondamente. Ora facendo una sorta di comparazione tra il senso della morte che avvertiva Sisina
e la morte come la videro i ragazzi rammentati prima, è ovvio che il concetto cambia. Per Sisina, considerando la sua idiozia, la morte era qualcosa di normale: rappresentava l’epilogo della nostra vita, come la nascita è il prologo. La morte per costei altro non era che un qualcosa di normale che non contrasta con la vita, anzi la rende ancora più affascinante e misteriosa.

Cioè, quello che voglio dire e che per Sisina la morte è pura normalità, mentre per i ragazzi ha rappresentato una forma di redenzione, un modo per vincere la propria vita, oramai quiescente, cercando di sfidarne la fine. Una redenzione all’arrovescio. A mio parere i ragazzi non volevano incontrare Dio, figura alquanto astratta, ma una libertà per loro nuova, una sorta di liberazione che li togliesse dall’impiccio dell’eroina e dell’omologazione”.

Essendo giunti a questo punto, inevitabile tra l’altro, e esaminando sempre gli anni ottanta, mi potresti raccontare come furono vissuti al paese? Mi spiego meglio, durante questa stagione del XX secolo Anzi, come il resto d’Italia, subì dei forti mutamenti, le sue caratteristiche di paese agro- montano furono radicalmente cambiate, oppure vi fu una sorta di resistenza all’omologazione che stava allargandosi a macchia d’olio?
“Sì e no.

Se vogliamo essere franchi, inevitabilmente qualcosa mutò. Una serie di cause, di coincidenze, modificarono la sua tipicità iniziale. A partire dagli anni sessanta le campagne si spopolarono e così le stazioni “rurali”si spensero, sino ad essere lottizzate e trasformate in residenziali. Anzi, come il resto d’Italia, non era più un luogo paradisiaco, cantato dai più illustri poeti, ma un paese dove massicci si leggevano i segni della trasformazione. Furono, infatti, restaurate le case senza l’attenzione dovuta, cioè adattandole al moderno cancellandone l’antico.

Furono così abbandonate le chiese di campagna per scopi economici. Prendiamo ad esempio la pieve di Santa Maria, la chiesa che da secoli sovrasta il paese, teatro, proprio in quel tempo, di trafugazioni e restauri indecenti. Furono, infatti, rubati alcuni oli risalenti al cinquecento – ritrovati poi a Portici in un mercatino d’antiquariato -, imbiancate le mura interne col tentativo di celarne i dipinti, affreschi di Giovanni Todisco, ispirati ai Vangeli apocrifi. Insomma si verificò una trasformazione notevole e tanto rapida da celarne il passato”.

Seguendo il tuo ragionamento, mi sembra di cogliere che occorra di nuovo un secondo brigantaggio, o comunque una seconda rivoluzione, per riuscire a stabilire un’armonia planetaria, un rispetto per l’uomo e per la sua storia.

Correggimi se sbaglio.
“No, non sbagli! Ci vorrebbe una rivoluzione per salvare almeno il salvabile, ma non una rivolta ideolocizzata, bensì una lettura nuova della realtà, una forma di autoanalisi su dove andiamo. Ogni vicissitudine, ogni battaglia che l’uomo ricordi, sono sorte per cause nobili, non per il piacere di scombinarne il gioco degli scacchi. Il brigantaggio nacque perché in queste terre vi era un forte bisogno di mutamento, così come la sommossa del’46, come il’68 nel resto d’Italia”.

Teresa, non credi però che spesso l’omologazione o l’appiattimento siano il frutto di una rivoluzione antecedente, di un mutamento solo in parte riuscito? In altre parole, non credi che una volta che si scompone il gioco sia naturale ricomporlo?
“Certo.

Ma ciò serve alla società, è utile ad un contesto per un’analisi storica, per riscoprirsi alimentando un futuro migliore. Il disordine, sia esso di natura politica, sia di natura storica, serve proprio per riordinare qualcosa, per rivalutarlo, riscoprirlo. Il’68 – che per ragioni di residenza non ho vissuto – non è vero che non sia servito, né è vero che sia fallito. E’ stata una rivoluzione per cancellare l’orrore del regresso, servito per inaugurare un’età storica inedita.

Certo molti protagonisti che allora stavano a contestare oggi non si atteggiano più allo stesso modo: ma questo non significa un fallimento, anzi una vittoria. Significa godere dell’ordine che loro stessi sono riusciti a conquistare. Grazie a loro l’Italia è una nazione diversa, matura”.

Teresa, esulando dal discorso sinora intrapreso, mi chiedo come mai tu negli anni ottanta abitassi ancora al paese, non c’erano le maternità? E cosa facevi in quel tempo?
“Ma, che devo dirti, abitavo ancora ad Anzi perché ero affezionata al luogo.

Oramai vivevo così alla giornata. Firenze non l’avevo dimenticata, ma non la vedevo più come quando l’avevo lasciata. Dopo la guerra parte dei lungarni, a causa dei bombardamenti, furono modificati, le strade non sembravano più le stesse di quando ero bambina. Non era più la Firenze degli ermetici, del Bigongiari e di Luzi. Mi sembrava una città che vivesse di ricordi. A Borgo sono invece tornata nell’85, vivendo da sola: lo sai non mi sono mai sposata. Ho sempre amato molto il mio lavoro, l’indipendenza, e sposarmi sarebbe equivalso a non avere libertà”.



La cosa che mi risulta strana, però, e che parli di Anzi come fosse il tuo paese. Cioè ne discuti con la stessa passione e il patos che di norma si mostra discutendo della propria terra. Sembra addirittura che a tratti lo fai riviere tramite una narrazione ricca di suggestioni, e questo induce a riflettere. Devi essere molto legata a questo paese, di un legame quasi filiale, come per la madre una figlia e viceversa. E’vero?
“Ma che vuoi, in quel paese e come ci fossi cresciuta.

Partii da Borgo che avevo vent'anni e sono rientrata anziana. Ad Anzi ci sono cresciuta, sono diventata donna, ho vissuto gli anni migliori, come potrei non amarlo. Se Borgo è il mio paese d’origine, Anzi è quello d’adozione; il luogo dove ho vissuto gran parte dell’esistenza, dove ho imparato a conoscere il mondo, la realtà umana, dove ho conosciuto volti e nomi che poi sono entrati a fare parte della mia vita”.

Si, non è difficile definirti una donna coraggio, una ragazza che è partita figlia ed è tornata adulta, come a pochi capita nella vita, e quest’intervista conferma in pieno quel che ti sto dicendo.

Credimi, non sono complimenti! Tutto sommato non riesco ancora a capire come mai una donna intelligente come te abbia voluto intraprendere questo tipo di carriera, invece di aspirare ad altro.
“Mi spiace contraddirti, ma per come sono fatta, per ciò che ero, intendo da quale ceto sociale provenissi, questa professione mi ha rappresentato molto. Mi ha dato la possibilità di uscire dal “logo comune”, creare in me un’indipendenza assoluta, anticonformista. Allora, come oggi credimi, non era da tutti affrontare certe decisioni coraggiose.

Per una ragazza come me figlia di contadini, che passava il suo tempo tra la scuola e l’aia, non era facile immaginarsi lontana dal proprio paese, dalla famiglia. Ma una cosa è certa, a darmi coraggio, a sviluppare in me, in quella fanciulla che ero, il lume della ragione è stato Don Milani, il mio maestro. Quel prete ha rappresentato molto per me. A volte penso che se non l’avessi incontrato tutto questo non sarebbe accaduto. Avevo un gran rispetto di Don Milani, una stima che si è arricchita nel tempo.

Lo ricordo ancora quando ci faceva scuola, smunto sotto la tunica, timido e nello stesso tempo autorevole, dietro una misera cattedra, recuperata chissà dove, cercando la giusta intonazione per farsi sentire. Di lui e con lui ho condiviso tante battaglie. Con umiltà ho da sempre cercato di attuare il suo pensiero, la sua visione delle cose, e ne vado fiera. E’ stato lui a farmi comprendere il valore della vita, l’importanza di un parto. Aiutare a nascere è spesso sinonimo di vittoria, una sensazione grande ed emozionante.

Sapere che quel fanciullo che alberga nel ventre di una donna in un dato momento entra a fare parte della vita, e come possedere un passaporto senza limite di destinazioni. Tu levatrice sei consapevole che in quel frangente, insieme alla madre, sei artefice della sua venuta; conosci le gioie che lo aspettano, i dolori che lo proveranno, le coincidenze che prenderà… Insomma diventi di costui una seconda madre”.

Essendo caduti in questa peculiarità, ti spiace se ti faccio una domanda un po’ scomoda: se tu fossi veramente consapevole che la vita di un bambino da adulto fosse costellata da mesti episodi, da drammatici avvenimenti, lo faresti nascere lo stesso o rifiuteresti la sua vita?
“Ma, mi fai delle domande complicate… partendo dal presupposto che Dio non esiste, in quanto entità astratta, non visibile, una mera invenzione umana, quindi non artefice di vita, è certo che l’uomo deve essere consapevole di se stesso; anzitutto nella misura in cui è cosciente d’essere uomo.

In altre parole, una madre è consapevole della vita, di cosa vuol dire vivere e quindi sa quel che sta a fare. Una cosa è certa però; se sapessi che colui che aiuto a venire al mondo fosse vittima di un destino assurdo non lo farei nascere: a volte rifiutare una nascita è un atto d’amore”.

In poche parole, in determinati contesti preferisci respingere la vita piuttosto che darla.
“Esatto! La vita è già di per sé inumana, figurati se uno nasce con una predisposizione del genere come vivrebbe.

Rifiutare, che è sinonimo di rinunzia, che significa andare oltre, vuol dire anche amore: e la vita è un atto d’amore. Quindi non sempre respingere la vita è un assassinio, come spesso accade, ma consapevolezza, amore. Respingere la vita allo scopo di evitarne la sofferenza è un’azione nobile”.

In base a tali premesse, ti chiedo: tu non hai mai aiutato ad abortire?
“ Certo che si! Ad esempio una volta feci abortire una contadina di appena diciassette anni perché stremata dalla tisi.

Tutto sommato credo ci siano due tipi di sofferenza, per le quali praticare l’aborto o meno. Ad esempio la sofferenza fisica oggi si può benissimo superare con l’ausilio dei farmaci; mentre il dolore psicologico, esistenziale è qualcosa di diverso… “.

Gli anni in cui in Italia fu istituito l’aborto come li hai vissuti, vivendo in una realtà piccola e ancora preindustriale?
“Le notizie sull’approvazione della legge arrivavano in differita, nel senso che si vedeva per televisione le lotte delle donne, le manifestazioni, e tutto il resto.

Certo è che in un contesto piccolo come quello di Anzi, la notizia non fu presa bene. In un paese del genere era ancora fortemente radicata una cultura cattolica. In secondo luogo, in una realtà ancora contadina, nonostante fossimo stati negli anni settanta, l’aborto era un lusso per benestanti, non per i contadini che avevano bisogno di braccia in famiglia per potersi sfamare. A favore dell’aborto erano gli operai e i ceti ambienti, ma non le fasce deboli. In certe realtà, dove ancora si respirava un senso di collettività, l’individualismo e i suoi derivati erano visti come qualcosa di alieno, di diabolico.

Per il resto, io ero d’accordo per l’aborto, considerandolo una gran rivincita sul piano etico e sociale per la donna”.

Reduci da un’intervista del genere, che a dir poco è stato un viaggio più che una chiacchierata, mi potresti concedere un’ultima domanda? Cosa ne pensi delle cellule staminali, delle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali, della globalizzazione in genere?
“Per quanto secerne le cellule staminali, esulando da un discorso religioso, o peggio teologico, penso che si debbano usare.

Se sono così utili, come sostengono, per riuscire a sconfiggere certe patologie perché non usarle. L’uomo essendo a contatto con i propri simili sin dalla nascita, non può da loro estraniarsi. Partendo poi nel dire che l’altro serve alla nostra vita in quanto con lui siamo in continua simbiosi, non vedo perché l’altro – che in quello stadio è in fase di germinazione, quindi è un futuro uomo – non debba essere sacrificato per un suo simile. Vedi, è un discorso di solidarietà e fratellanza, prima che un ipotetico diritto civile.

L’ovulo non essendo ancora vita può essere impiegato benissimo per la ricerca, giacché non viene uccisa una persona ma un ipotetico essere in fase di germinazione. Le coppie di fatto è un altro paio di maniche. Ad esempio, se pensiamo che la famiglia nel corso degli anni è fortemente mutata e che, con tutta probabilità, la famiglia del futuro sarà sempre più ibrida, non comprendo perché questa non debba essere considerata tale, all’altezza del proprio compito. Contraria sono invece per i matrimoni gay, per un semplice fatto.

Da secoli l’omosessualità è considerata un atto contro natura, una trasgressione, e come tale deve rimanere. Non per questo non debbano essere riconosciuti, ma secondo me se una coppia gay è considerata sul piano politico perde il suo grado di trasgressione, il suo fascino. L’atto sessuale di per sé può essere una forma di trasgressione, di rivincita sul piano sociale, perché allora inquadrarlo, dargli delle norme? Facendo questo non avrebbe più quel sapore che in molti casi ha.In altre parole, credo che per secoli fare all’amore abbia significato una via d’uscita nei confronti delle prepotenze, sia stato un modo per riscattarsi nei confronti dei prepotenti, proprio per la sua natura discreta ed esplicita.

Oggi, anche se per molti versi le cose sono mutate, il sesso resta qualcosa d’intimo, di privato, che non deve essere definito ufficialmente, ma rispettato. Per quei contadini il sesso era un modo di opporsi e fare figli rappresentava loro l’unica espressione di forza, d’identità. Darei loro, a queste famiglie atipiche, intendo, dei bambini in adozione, sicura della loro capacità. Insomma, secondo me la globalizzazione la raggiungeremo solo quando saremmo sicuri di ciò che facciamo, del prossimo, di noi stessi”.

Posso fartela io invece una domanda?
“Vuoi essere tu per caso l’intervistatrice?”
No, ma sono curiosa di capire se quel che ti ho detto lo trascrivi senza la minima esitazione.
“Certo, e ti dirò che riesco a mentire solo quando il lettore mi crede sincero! Per ciò guardo di mettercela tutta”.
Ma, per chiudere questa confessione vorrei dirti un’ultima cosa, non te la prendere, però.


“Certo, dimmi”.
Ora sono vecchia, e ignoro quanto potrò ancora vivere, ma una cosa ho sempre cercato di fare:
amare il prossimo per avere più luce, per vedere meglio colui che si nasconde di là del cielo!E poi non voglio morire, concedermi a colui così facilmente. Soprattutto non ho voglia di leticarci, e l’unico modo per farlo è non morire: sì perché se dovessi farlo, e alla fine lo farò, sono convinta che sarei costretta ad incontrarlo, e se l'incontro ci letico. E' meglio quindi evitare, almeno per adesso.

Infondo, ad essere sincera, non riesco a concedergli questa rivincita, ma purtroppo mi sa che questa battaglia la vinca lui”.

Avvertii in queste parole un senso di solitudine molto forte, forse un SOS che non riesco a decifrare. Peccato, peccato veramente. Teresa Bianchini è morta nel 2002, la sua salma riposa oggi al cimitero di Borgo San Lorenzo, ma di lei rimane un ricordo indelebile, una stima e un cordoglio immemore, che resterà nel tempo. Un ricordo solidale che la fa rivivere in tutta la sua interezza, con la stessa passione che da sempre la contraddistinta come atto d’amore verso la società e verso la vita.

Iuri Lombardi

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