La prima giornata di dibattito al terzo Meeting di San Rossore
Presentato il Manifesto sul futuro del cibo

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
16 luglio 2003 07:16
La prima giornata di dibattito al terzo Meeting di San Rossore<BR>Presentato il Manifesto sul futuro del cibo

SAN ROSSORE (PI)- Esiste un’alternativa al modello di agricoltura industriale, che in tutti questi anni ha prodotto devastazioni ambientali e sociali, senza garantire né qualità né cibo per tutti. Un’alternativa capace di coniugare diritti degli agricoltori e dei consumatori, sviluppo rurale e sicurezza alimentare. Le linee di questo progetto sono state presentate ieri al Meeting di San Rossore con il Manifesto sul futuro del cibo elaborato dalla Commissione internazionale per il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura.

La Commissione, istituita lo scorso febbraio a Firenze per volontà della Regione Toscana, è presieduta dalla scienziata e filosofa Vandana Shiva ed è formata da alcuni dei più importanti studiosi di questioni dell’agricoltura e dell’alimentazione. Il Manifesto – in realtà ancora una bozza suscettibile di ulteriori approfondimenti – è rivolto a tutte le amministrazioni pubbliche del mondo (dai Comuni, alle Regioni, agli Stati) e sarà portato a Cancun in Messico, al vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che dal 10 al 14 settembre è chiamata ad affrontare alcune questioni decisive.
Il Manifesto presentato questa mattina parte dalla constatazione del fallimento del modello agricolo delle grandi multinazionali, che non ha assicurato né cibo al Sud del mondo né sicurezza alimentare al Nord del mondo, traducendosi piuttosto in gravi danni per il patrimonio ambientale e culturale e per la biodiversità.

Per questo gli studiosi della Commissione esprimono la loro opposizione “alla industrializzazione e alla globalizzazione della produzione alimentare” e manifestano il loro impegno per “sostenere il passaggio a tutte le alternative di produzioni sostenibili, appropriate alle specificità locali e su piccola in scala”. Tutto questo in sintonia con alcuni principi di fondo: che, ad esempio, il cibo non è solo un prodotto commerciale e che è un diritto di tutti; che l’agricoltura decentrata è efficiente e produttiva; che alcune tecnologie diminuiscono la sicurezza alimentare; che è necessario perseguire gli obiettivi della sovranità alimentare, della permanenza dei piccoli proprietari contadini (anche riconoscendo prezzi equi alle loro produzioni), della protezione della biodiversità e delle identità culturali.

E ancora, che è necessario adottare un principio di precauzione nei confronti di tecnologie potenzialmente pericolose e che vanno contrastati brevetti o monopoli sugli esseri viventi. Tra gli altri aspetti toccati dal Manifesto, quello degli Ogm, la cui imposizione rischia di minare la “libertà di scelta” e produrre un inquinamento genetico irreversibile accelerando la dipendenza alimentare dalle multinazionali e violando il diritto degli agricoltori a proteggere i propri campi. Al contrario, la richiesta di pieno riconoscimento del “diritto di conoscere e di scegliere”: “tutti gli individui, tutte le comunità e tutte le realtà nazionali – si legge infatti sul testo – hanno il diritto fondamentale di disporre di ogni principale informazione sugli alimenti che consumano, i processi che li hanno prodotti e la loro origine”.
Il presidente del forum mondiale sulla globalizzazione, Jerry Mander, intervenendo al Meeting di San Rossore nel corso della tavola rotonda sul cibo, si è detto fiducioso sulla crescita del movimento che intende ridare forza e fiducia agli agricoltori.

A sostegno della sua tesi Mander ha citato l’elezione ad alte cariche di governo di ex leader di movimenti di resistenza come Lula in Brasile, Gutierrez in Ecuador, Chavez in Venzuela e in parte anche il nuovo presidente argentino. Dopo aver illustrato le pressioni condotte dal dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti sui ministri dei Paesi più poveri, invitati a Sacramento per indurli ad accettare le monocolture e gli organismi geneticamente modificati, ha rilevato come fortunatamente nessuno di loro sia caduto nella trappola.

Mander ha illustrato quindi il Manifesto sul futuro del cibo, ricordando come tutti abbiano diritto ad una agricoltura e a cibo sostenibili.
”L’innovazione tecnologica – ha affermato il presidente del forum mondiale sulla globalizzazione – deve essere considerata colpevole finché non si riuscirà a provare il contrario, e non viceversa, rovesciando l’impostazione che finora si è data al problema. Noi siamo per tornare a dar voce alle Regioni e alle comunità, abolendo le decisoni centralizzate su modello di quelle adottate dal Wto”.
Jerry Mander ha concluso il suo intervento invitando i partecipanti a prendere visione del manifesto che con i suoi 21 principi per l’agricoltura e il cibo sostenibili, individua anche alternative pratiche alle agricolture indutriali e detta le nuove regole da adottare per favorire le comunità locali e non le multinazionali.


”Partirò dal cambiamento climatico, perché è il problema più grande che l’umanità ha dovuto affrontare. E su questo non stiamo facendo assolutamente niente”. Edward Goldsmith, fondatore e editore della rivista “The Ecologist”, comincia così il suo intervento a San Rossore, che prosegue poi con un lungo elenco di disastri ecologici che l’uomo sta provocando con i suoi interventi sulla natura. “L’ultimo rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite – ricorda – dice che di qui a cento anni le temperature della terra aumenteranno fino a 5,8 gradi.

Pensiamo che tutto quello che è successo finora è stato causato da un aumento di 0,7 gradi. Ci sarà un incremento enorme, che continuerà e crescerà finché il pianeta non diventerà inabitabile dall’uomo”. Una catastrofe annunciata, della quale Goldsmith analizza le cause. A partire dall’abbattimento delle foreste. “La distruzione delle foreste tropicali sta aumentando – informa – In queste foreste si trova più di metà della quantità di carbonio contenuta nell’atmosfera”.

Per continuare con l’agricoltura industriale, “che distrugge il suolo e trasforma la terra in polvere”. “Nei prossimi due decenni – avverte – l’agricoltura industriale renderà la terra un deserto. Creeremo condizioni che il pianeta non ha visto da 45 milioni di anni a questa parte”.
Punta il dito, Goldsmith, contro la colpevole inerzia dei governi, che “non hanno fatto niente e non faranno niente, fintantoché l’industria petrolifera deterrà il potere. Negli Stati Uniti del resto – sottolinea – l’industria petrolifera è il governo”.
E continua con la lista dei disastri che stiamo provocando con le nostre mani.

“Stiamo riducendo la salinità degli oceani, perché i ghiacciai si stanno sciogliendo. Le coltivazioni di grano in Australia sono state distrutte dal caldo e dalla siccità; in Ucraina c’è stato un periodo di freddo in primavera, ma l’inverno è stato mite, quindi c’è stata un’invasione di locuste che hanno mangiato tutto il raccolto. Abbiamo bisogno di coltivazioni diverse, perché le monoculture sono un suicidio. Abbiamo bisogno di comunità rurali, non dobbiamo spingere tutti a vivere nelle grandi metropoli.

Diventeremo sempre più surriscaldati, quindi arriveranno malattie tropicali, per le piante, ma anche per noi”.
Goldsmith fa un’osservazione che sembra ovvia, ma che nella sua ovvietà viene assolutamente ignorata dall’umanità: “Se non ci nutriamo non esisteremo più. E niente può influenzare la nostra capacità di nutrirsi come il cambiamento climatico”. Il suo invito è perentorio: “Dobbiamo rendere questo problema una priorità nei nostri pensieri e nelle nostre azioni”.
E’ stato uno degli interventi che ha ricevuto più applausi e consensi.

Riccardo Petrella, docente presso l’Università belga di Louvain e segretario dei comitati nazionali per il contratto mondiale dell’acqua, ha parlato del bene più prezioso dell’umanità acqua, della sua idea di gestione, della disparità di utilizzo e disponibilità a livello mondiale. “L’acqua è un bene comune ma è anche motivo che scatena guerra – ha esordito – La nostra società sta depredando questo bene, lo utilizziamo tre o quattro volte di più rispetto alla sua capacità di rigenerarsi.

Adesso stiamo intaccando le falde profonde. Non si può continuare così perché in tal modo non dichiariamo guerra solo alla natura ma a noi stessi”. Una disparità mondiale incredibile nell’utilizzo e nella disponibilità di acqua potabile. “Attualmente – ha dichiarato Petrella – ci sono oltre 3 miliardi di persone che non hanno libero accesso all’acqua potabile. Pensiamo a tutte le conseguenze che ne drivano dal punto di vista sanitario: ogni giorno muoiono 30 mila persone. Non possiamo solo aspettare i benefici che verranno dalle grandi opere tecnologiche perché queste non risolveranno il problema ma lo accentueranno”.

Infine un accenno ai “possibili” rimedi per consentire una più equa distribuzione. “L’acqua è un bene comune e come tale va gestito. Occorre ad esempio creare una legislazione che distingua l’uso per fini privati da quello per fini industriali. Inoltre, il risparmio: utilizziamo l’acqua in maniera inefficiente, se solo fossimo capaci di gestirla in maniera migliore, noi paesi cosiddetti industrializzati, risparmieremmo miliardi di euro. Infine bisogna, come già detto, riaffidarne la gestione al pubblico e ripudiare l’idea di introdurre una cultura capitalistica come sta avvenendo in molte realtà italiane”.
Michael Zammit Cutajar, ex segretario della convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha speso invece il suo breve intervento sulla necessità “di trovare un accordo, e al più presto, per una politica mondiale per cercare di diminuire la produzione di gas serra.

La temperatura del globo sta aumentando in maniera vertiginosa, e questa non è una posizione ecologista ma è un dato di fatto”. Poi ha aggiunto: “Si tratta di una ‘catastrofe strisciante’. Occorre una strategia globale della produzione di gas serra da inserire in un contesto di sviluppo sostenibile, facendo in modo anzitutto che gli Stati Uniti rispettino le posizioni contenute nel protocollo di Kyoto e coinvolgendo così paesi in fase di sviluppo come Cina e India. Abbiamo un’occasione importante per sedersi di nuovo a un tavolo e discuterne, il prossimo dicembre quando il governo italiano ospiterà la conferenza sui cambiamenti climatici”.


"Guardate la vostra mano. La mani di ciascuno di voi svolgono le stesse funzioni, quindi ci rendono uguali uno all'altro, eppure sono anche diverse per esprimere la creatività e l'intelligenza di ognuno. Le mani sono il segno visibile di come deve essere realizzata una educazione della pace". Questa immagine è servita a Paul Belanger, docente all'Università canadese del Quebec e presidente del Consiglio internazionale per l'educazione degli adulti, per sintetizzare i contenuti del suo intervento dedicato all'educazione dopo la guerra.
Belanger, intervenendo alla tavola rotonda sull'educazione, ha prima svolto il suo tema all'inverso immaginando il modo in cui in un Paese si potrebbe sviluppare un'educazione favorevole ai conflitti: e l'ha descritta come un'educazione che punisce le diversità, che monopolizza la scuola, che cerca di allargare il baratro tra ricchi e poveri, che reprime la capacità di iniziativa individuale.

Questo è un incubo, ha detto Belanger, purtroppo non lontano dalla realtà in alcune situazioni contemporanee. Ma all'opposto di questa educazione volta a distruggere, ecco invece l' educazione che coltiva la pace. Belanger l'ha tratteggiata con l'immagine della mano, come una dialettica costante tra uguaglianza di opportunità e sviluppo della diversità, tra creatività individuale e senso comune di appartenenza alla comunità mondiale, tra presenza dello Stato e partecipazione della società civile, in maniera tale che ciascuna parte si possa armonizzare con l'altra.

Il 'figlio' di una educazione della pace dovrà quindi crescere in una società che sappia muoversi in questi ambiti, con una condivisione delle opportunità, un rispetto delle diversità e uno sviluppo della creatività di ciascuno.
L'attenzione alla diversità è stata al centro anche dell'intervento di Helena Norberg Hodge. L'antropologa svedese, che da molti anni opera nell'antico regno himalayano del Ladakh, ma che è anche profonda conoscitrice di tante piccole realtà del mondo indiano ha evidenziato come la distruzione delle identità di un territorio, e l'avvento di una monocoltura globale apra le porte alla violenza e alla guerra.

Per la Norberg Hodge tutto questo sta avvenendo in molte parti del mondo a causa della globalizzazione che impone un cambiamento nel sistema educativo e un'assimilazione forzata al modello occidentale. Nasce così una monocultura del tutto sradicata dall'identità del territorio e insensibile alla diversità. Per affrontare tutto questo occorre sviluppare un’educazione alla globalizzazione in grado di analizzare quanto sta accadendo in maniera consapevole e allo stesso tempo promuovere un’educazione capace di promuovere la diversità, di valorizzare le esperienze economiche sul territorio e quindi di proporre un modello di vita di nuovo sostenibile.


Intervenendo al dibattito sulla salute, Erio Ziglio, responsabile del programma promozione salute dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha affermato che nell’Europa dei quindici il 18% della popolazione è a rischio povertà, mentre nell’Europa più allargata (52 Paesi e 900 milioni di persone) sette Paesi hanno un prodotto interno lordo pro capite inferiore ai 700 dollari e in altri quindici è inferiore ai 1.500 dollari: siamo cioè alla pari delle nazioni in via di sviluppo.

“Questa situazione – ha detto Ziglio – provoca differenze notevoli e la forbice delle disuguaglianze si è notevolmente allargata negli ultimi trenta anni”. Ha spiegato che l’aspettativa di vita varia dagli 82.2 anni dell’Italia ai 65.4 della Russia. “E’ un problema – ha concluso Ziglio – che si ritrova anche nelle nostre città, dove talvolta da un quartiere all’altro l’aspettativa di vita diminuisce di 10 anni. E’ con questo che i sindaci devono misurarsi e a questo devono commisurare i loro programmi sanitari”.
Donato Greco, dell’Istituto superiore di sanità, ha parlato invece di nuove epidemie e delle cinquanta nuove infezioni che si sono diffuse negli ultimi cinquanta anni, dall’Aids, all’ebola, alla peste, al colera, alla mucca pazza, solo per i citare i più noti.

“La nostra esperienza – ha spiegato Greco – ci dice che appena vengono meno le azioni di prevenzione messe in opera dai sistemi sanitari pubblici, riemergono epidemie che pensavamo superate. Le malattie infettive rimangono ancora oggi la prima causa di morte nel mondo, anche se l’epidemia numero uno è ancora oggi rappresentata dall’obesità e poi dalla sedentarietà”. Greco ha parlato anche dei virus e dei batteri “buoni”, cioè di quelli responsabili dei sapori e degli odori dei cibi e degli alimenti, i cui effetti benefici nessuna ingegneria genetica è ancora riuscita a replicare.


Vandana Shiva, della Fondazione per la tecnologia la scienza e l’ecologia, ha insistito sul fatto che nei Paesi più ricchi il 75% dei cittadini sono malnutriti perché non mangiano i cibi giusti, mentre in quelli poveri la monocoltura crea malnutrizione perché significa perdita di sostanze nutrienti. “La fame – ha detto Vandana Shiva – è causata dalla distruzione dei diritti dei popoli. Con la monocoltura e l’aumento dell’uso delle sostanze chimiche i contadini vedono crescere i loro costi di produzione, si indebitano e perdono la terra.

Anche gli attuali meccanismi del commercio contribuiscono a creare la fame”. Shiva ha concluso riaffermando la necessità di difendere il diritto al cibo e alla salute di tutti i popoli.

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