Gli Alinari che non conoscevate

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
09 maggio 2003 15:58
Gli Alinari che non conoscevate

Firenze – Nel contesto della grande mostra sui Fratelli Alinari in programma fino al 2 giugno, è stato presentato oggi a Palazzo Strozzi un nuovo volume che il curatore Arturo Carlo Quintavalle ha dedicato ai famosi fotografi fiorentini e al loro rapporto con la fotografia europea (Gli Alinari, edizioni Fratelli Alinari, 608 pagine, 1000 illustrazioni, € 120). Presenti, oltre a Quintavalle, il presidente di Firenze Mostre Franco Camarlinghi (“Superata”, ha detto, “la quota di 50 mila visitatori”), il presidente della Fondazione Alinari per la Storia della Fotografia, Claudio de Polo, e Luigi Tomassini, docente di storia della fotografia all’università di Bologna.
L’opera appare una novità importante anche rispetto a molti studi di storia della fotografia troppe volte, in Italia, privi di basi specialistiche, spesso rassegne di insieme non legate a un singolo problema, periodo, autore.

Mancano spesso, da noi, anche le trattazioni monografiche che all’estero sono alla base di ogni ricerca storica.
In passato la Alinari ha invece proposto tagli diversi, individuando nella storia delle città e delle loro immagini un modello plausibile di rapporto tra fotografia, memoria, e modi diversi di ripresa. Inoltre la Alinari ha proposto in una grande rassegna la propria storia, chiamando a contribuire all’analisi alcuni studiosi, in particolare storici dell’arte, oltre che storici della fotografia.
Adesso Quintavalle, studioso di storia dell’arte e di storia della fotografia, propone un’analisi diversa anche da quella monografica, non fosse che perché dà conto dell’impresa Alinari dalle origini, dunque dal 1852 al 1920, al momento in cui Vittorio Alinari cede la ditta, destinata comunque a proseguire fino ad oggi la propria attività.
Il volume racconta una storia diversa dei tre fondatori (i fratelli Leopoldo, Romualdo e Giuseppe Alinari), a cominciare dalla loro formazione, certo non locale, ma legata a Parigi dove il dialogo con l’Atelier di Gustave Le Gray appare, proprio agli inizi degli anni ’50, determinante per Leopoldo stesso.
La “Mission héliographique” del 1851, dove cinque grandi fotografi sono incaricati di documentare, per conto del governo francese, i maggiori monumenti da salvare e restaurare (Mission promossa da Prosper Merimée che si serve come restauratore di Eugène Violet Le Duc) mette in evidenza, in Francia, il rapporto con l’arte medievale che identifica l’idea stessa di nazione.
Proprio la Mission, insieme al rapporto stretto con maggiori fotografi dell’atelier Le Gray attorno alla metà del secolo, diventa per Leopoldo Alinari punto di partenza per un discorso nuovo che si collega strettamente con le tensioni e le passioni per l’unità d’Italia.

Non per nulla sarà un esule fiorentino e repubblicano a fare da corrispondente a Parigi dell’Impresa. Non per niente sarà “La Lumière”, la maggior rivista di fotografia degli anni ’50, a illustrare ed esaltare l’opera dei fratelli Alinari posta alla pari con le fotografie di Le Gray, Nègre, Baldus, Le Secq e di tutti i maggiori fotografi europei di quegli anni, con i quali, del resto, gli Alinari espongono nelle maggiori mostre internazionali.
Il libro comincia con la ricostruzione, negli anni ’40 dell’800, del rapporto degli Alinari con la grafica incisa dell’impresa Bardi, e poi con Lerebours e con Artaria, editori che traggono incisioni dai dagherrotipi.

Subito dopo, negli anni ’50, l’opera degli Alinari diventa di rilievo europeo e appare poi fondamentale per la creazione di un’immagine dell’Italia unita a partire dagli anni ’60 del secolo XIX.
Nel volume si dà conto anche del progetto culturale e del modello operativo degli Alinari che intendono ricostruire, nel territorio della fotografia, quello stesso spirito di esplorazione e riscoperta del mondo che aveva caratterizzato in Egitto, Siria e Palestina l’invenzione delle immagini di Maxime du Camp e degli altri grandi fotografi “orientalisti” negli anni ’50 del secolo.
Ecco dunque che Leopoldo e i suoi operatori si pongono davanti alle città dello Stato della Chiesa e a quelle del meridione d’Italia con lo stesso atteggiamento.

Programmano, quindi, sempre uno schema che si ripete: cominciano con alcune vedute generali da punti di vista storicamente motivati, passano poi alle riprese in asse dei maggiori edifici medievali, religiosi e civili, sono foto che creano la nuova iconografia delle città per 3 o 4 generazioni.
Negli anni ’90 Vittorio Alinari propone una foto diversa, stabilendo un rapporto diretto con la nuova pittura, quella da Lega a Fattori, per giungere poi, con un imponente volume, a documentare i “Paesaggi italici”, quelli del viaggio di Dante Alighieri riletto alla luce della civiltà del pictorialism, quello inglese più di quello francese.

Comunque, e fino all’ultimo, l’impresa continua a documentare la cultura dell’arte italiana, passando dall’architettura e scultura delle riprese dei primi anni, alla documentazione delle pitture, anche qui seguendo dei modelli molto precisi e inventando veramente un modo di raccontare l’arte che resterà nella tradizione occidentale.
Ma non si dimenticano, gli Alinari, il dialogo con la realtà, quella che il mondo dei grandi narratori è venuta riscoprendo, da Capuana a Verga, da De Roberto a Grazia Deledda.

Alle foto dei monumenti si aggiungono così, ben presto, altre storie: quelle della vita delle classi povere e le immagini del lavoro, foto comunque sempre di qualità eccezionale. Anche in questo caso Quintavalle analizza i rapporti fra pittura, letteratura e fotografia, tra cultura italiana e cultura di Francia e infatti fa da copertina al volume “Il dolce far niente”, una immagine scattata a Napoli negli anni ’90 insieme a decine di altre sui mestieri di strada.
Nel libro, dunque, la vicenda della fotografia diventa un punto di passaggio irrinunciabile per comprendere la storia.

E un’azienda, gli Alinari appunto, viene assunta come testimone, e fra i maggiori in Italia, con Anderson, Brogi, Sommer e pochi altri, della rivoluzione culturale che trasforma il paese nella seconda metà del secolo XIX e, ancora, allo scadere di quell’età che si conclude con la prima guerra mondiale. Dunque Vittorio Alinari, fotografando i paesaggi danteschi in un volume edito appena conclusa la grande guerra e chiudendo così l’impresa di famiglia, sembra voler sfuggire al dramma di quella crisi economica, civile e politica che esploderà agli inizi degli anni ’20.

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