PRATO - Roberto Latini torna in città dopo la convincente prova offerta nell'Arlecchino servo di due padroni, e al Teatro Fabbricone rompe gli schemi della prosa classica allestendo un Ubu Roi fiabesco e drammatico, allegorico e crudelmente realistico insieme.
Un testo che per la sua modernità si presta a infiniti elaborazioni e adattamenti, e che al suo apparire, nel Dicembre del 1896 al Théâtre de l’Œuvre di Parigi, segnò un momento di forte rottura con il teatro borghese. Ispirata allo schema di una farsa goliardica, la vicenda ruota attorno a Père Ubu, ufficiale dei Dragoni e Conte di Sandomir, favorito del Re Venceslao. Accanto a lui la moglie, che Latini sceglie di portare in scena vestita di una comica, assurda bruttezza, un modo di leggerne l’anima e mostrare la meschinità delle sue mire egoistiche che la spingono a convincere l’assurdo marito affinché detronizzi il legittimo sovrano.
Ubu ordisce così un inganno per impadronirsi del regno, e una volta conquistato il potere, si rivela sovrano avido e sanguinario e dovrà guardarsi dal desiderio di vendetta del Principe Bugrelao, figlio di Venceslao. Il tutto si svolge in uno strano mondo sospeso, che se non esiste, potrebbe comunque esistere, in omaggio ai principi della patafisica, ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie – appositamente inventata da Jarry per spostare l’ottica del teatro e iniziare una vera e propria rivoluzione.
L’autore non si scaglia soltanto contro la crudeltà del potere, ma anche e soprattutto contro la sua grossolanità e la sua superficialità. Allegoria del colpo di Stato, Ubu Roi sbatte in faccia agli spettatori il vento bollente della distruzione del pregiudizio borghese, che soffia sulla scia di un umorismo nero e di un eloquio bizzarro e tagliente. Parole inventate o insensate, volgarità, urla e silenzi, rompono le convenzioni e aprono la strada alla contestazione.
Latini interviene sul testo originale, e lo adatta alle storture della società contemporanea, evidenziandone i limiti intellettuali e l'incapacità a rovesciare un sistema .
Da questo punto di vista, particolarmente intelligente risulta l'isnerimento di un enigmatico, spiazzante, "jarryano" Pinocchio, che appare volteggiando sulla scena, con funzioni di coscienza critica e morale di Ubu, ma anche dello spettatore, cui suggerisce di volta in volta riflessioni e spiegazioni. Ma la catena che porta al collo simboleggia prima di tutto la schiavitù del protagonista stesso, schiavo della moglie, dell’idiozia e dell’assurdo. Un dramma che a suo tempo aprì la strada ai Surrealisti, ai Dadaisti, e, più tardi, ai Situazionisti. L’evento-teatro diventa occasione per un serrato dialogo con l’immaginazione, un’occasione che Latini coglie appieno per aprire una finestra sull’assurdità esistenziale e politica della nostra società.
Molti sono i richiami a Shakespeare, in particolare all’Amleto, su tutti il complotto contro il Re Venceslao, e il fantasma dello stesso Re che appare al figlio chiedendo di essere vendicato. Da Romeo e Giulietta, invece, la scena del doppio suicidio degli amanti. Ma sono riferimenti in chiave ironica, perché in quell’epoca lontana di cambiamento e di coscienze impegnate, gli orpelli della drammaturgia secentesca, drammatica e ossessiva, stavano perdendo significato. I miti e gli dèi erano scomparsi, così come fede, disciplina e morale. Jarry aveva teorizzato il superamento di Shakespeare in nome di quella purezza scenica che è anche il bisogno di ricominciare da zero, da uno sfondo bianco riempibile dalla possibilità. E oggi viene da chiedersi dove sia finita la capacità di dubitare. Cosa riempie quello spazio bianco?
A tal proposito, particolarmente sugegstivo l'inizio dello spettacolo, con una "pesca miracolosa" di salsicce che si svolge in un'alba fiabesca, immersa in un biancore che ricorda il teatro giapponese.
Latini tratteggia in Ubu un’allegoria rovesciata dell’Eroe classico e dell’Eroe romantico, allegoria nella quale si ravvisano i tanti sciacalli e sciacalletti della politica. In questo senso il teatro di Jarry stabilisce un legame con il teatro civile di Schiller. Il caotico e irrazionale regno di Venceslao prima, di Ubu dopo, è un allegorico Paese dei Balocchi nel cui senso dell'ingiustizia si possono ritrovare le cleptocarzie militari dell'America Latina, le tirannie africane, e, a ben guardare, anche l'Italietta televisiva di questi ultimi anni, dove il senso del reale, della dignità e della decenza si perde nelle quotidiane arlecchinate da Strapaese.
La scenografia sembra tratta da un circo, o da certe tele di Bosch, e la vena politica dell’adattamento di Latini emerge in tutta la sua potenza evocativa: un sistema di potere basato su veline e talk-show, dove la Cosa Pubblica è scaduta a cosa personale, e l’ambizione è accompagnata da avidità e ignoranza. Degna di nota l’allegoria della Danza Macabra, una scena nella quale questo fantastico Pinocchio si esibisce in una serie di forsennate giravolte quasi dionisiache, con uno scheletro legato al collo da una lunga catena, e il suggestivo gioco delle ombre riflesse sul drappo rosso del fondale - appositamente calato -, unito all’insistito giro di basso della colonna sonora suggeriscono l’idea dell’assurda giostra della vita. Emblematico il finale, con Ubu e consorte in viaggio su un'instabile navicella in compagnia di uno scheletro, toccante allegoria della nave dei naufraghi della shakespeariana Tempesta.
Alla chiusura del sipario, scroscianti, meritati applausi per uno spettacolo caustico e originale come se ne vedono pochi.