Henri Rousseau, pittore dell’essenza primitiva

A Venezia, una grande mostra illustra con approccio critico l’importanza rivestita dal “Doganiere”, nel panorama dell’arte del Novecento. A Palazzo Ducale, fino al 5 luglio 2015. Tutte le informazioni al sito www.mostrarousseau.it.

06 maggio 2015 00:30
Henri Rousseau, pittore dell’essenza primitiva
Henri Rousseau - L’Incantatrice di serpenti 1907, Parigi, Musée d'Orsay

VENEZIA - Il fascino dell’inappartenenza, con quel suo suggerire atelier in penombra e lunghe meditazioni en plein air, conferisce una particolare statura a chi intraprende percorsi - di qualsiasi genere siano -, lontano da etichette e classificazioni, affrontando con coraggio e incoscienza sentieri ignorati dalla massa. L’arte, quella più autentica, che nasce da dentro e non cerca le facili, chiassose platee, è questione da galantuomini, che nel silenzio di un’esistenza appartata danno forma alle loro riflessioni più intime.

La pittura, per Henri Julien Félix Rousseau (1844-1910), non fu avventura della giovinezza, ma vi si avvicinò soltanto in età matura, attorno alla metà degli anni Ottanta, dapprima in maniera sporadica, e poi, quando nel 1893, ottenne il pensionamento dal suo impiego di impiegato del dazio (da qui l’appellativo di Doganiere), in modo continuativo. Nonostante il non sistematico percorso che ve lo condusse, Rousseau portava dentro di sé quella forza espressiva dell’arte più profonda,propria di coloro che nelle loro opere sfiorano o raggiungono una qualche verità.

A restituire al grande pubblico questo insospettato grande maestro, provvede la splendida mostra Henri Rousseau. Il candore arcaico a cura di Laurence des Cars e Claire Bernardi, che si compone di circa cento opere provenienti dalle più importanti istituzioni internazionali suddivise in quaranta capolavori dell’artista e sessanta opere di confronto, così da contestualizzare criticamente la produzione di questo outsider della pittura, e far luce sull’influenza da lui esercitata sui movimenti artistici e letterari della avanguardie storiche.

Sin dal 1886, Rousseau espone al Salone degli Indipendenti, fondato nel 1884 da alcuni artisti tra cui Georges Seurat, Odilon Redon e Paul Signac. In quegli anni, Parigi toccava l’acme della sua Belle Époque, l’alta società folleggiava nei caffè più alla moda, uno sconfinato ottimismo impregnava il sentire comune - rafforzato anche dall’Esposizione Universale di quattro anni prima -, e la fiducia nella scienza e nella tecnica facevano sembrare il futuro privo d’insidio.

Artisticamente, la città era ancora il faro della cultura europea, dove l’Impressionismo viveva la sua maturità, e i modernisti spagnoli - Nonells e Camarasa su tutti -, studiavano attentamente stili artistici e di vita. Anche Rousseau è figlio di questa Parigi, eppure non fu un frequentatore della vita notturna, con i suoi bordelli e cabaret. Uomo riservato, poco attratto dal caos e dalle luci, concepisce la pittura come una missione sacerdotale, intesa alla ricerca di una qualche verità.

Nonostante ciò, mai assunse un snobistico nei confronti della pittura accademica, e infatti fin dai primi anni Ottanta, ascoltò con diligenza i consigli di due artisti accademici che si possono considerare i suoi veri maestri, Jean-Léon Gérôme e Félix-Auguste Clément, che sempre lo incoraggiarono. E ancora, nel 1903 otterrà il certificato dell’Association Philotechnique di Parigi, che gli attribuiva il titolo di “Professore di Disegno e Pittura” per l’istruzione gratuita degli adulti.

Nato comunque al di fuori delle accademie, lo stile di Rousseau è molto vicino a quello dei Primitivi, a causa di quella mancanza di prospettiva che dà luogo a figure piatte. La sua è pittura di meditazione, di comunione con la natura che è madre primigenia, alla quale aggiunge sovente un’amabile mano di fantasia, come nelle vedute esotiche ispirate a quelle dell’olandese Frans Post, conosciuto e apprezzato nel corso delle lunghe e frequenti visite al Museo del Louvre. La Natura di Rousseau non è rappresentata con fine documentario, bensì con afflato quasi mistico, concependola come la cellula primigenia dalla quale tutto è iniziato. Per questo il senso del mito è sempre presente nelle sue opere, mutuata anche dall’opera Dafni e Cloe (1852), di Jean-Léon Gérôme.

La presenza dell’uomo nel mondo, e nella natura è ben rappresentata nel Ritratto-paesaggio (1889), caratterizzato da quella bidimensionalità e quella luce fredda che sarà imitata qualche decennio più tardi nella ritrattistica di Louis Anquetin e dell’italiano Tullio Garbari. A sua volta, Rousseau si rifà alla lezione di Jan van Scorel, pittore del cinquecento olandese, per quanto riguarda la sobrietà e l’essenzialità dello stile, e l’acconciatura della barba, che il francese adotta per il suo stesso volto. La tela è caratterizzata dalla sproporzione della figura umana rispetto al paesaggio circostante, e da un tratto marcato che si ritroveranno nelle tele di Marc Chagall, che porterà all’estremo l’atmosfera onirica qui presente più sottilmente.

Più ancora dell’uomo, come accennato di sopra è la natura il vero soggetto dell’arte di Rousseau, che appare in numerose tele, intesa nei suoi caratteri fiabeschi, primitivi, misteriosi, prettamente femminili. Lo si evince dalla suggestiva Incantatrice di serpenti (1907), dove una donna dalla pelle nera e lo sguardo di fuoco, addomestica i rettili suonando un flauto. Rovesciando il mito biblico di Eva e del Serpente, e riecheggiando Giorgione e la zingara della sua Tempesta, Rousseau, dipinge una figura femminile depositaria del mistero della natura, capace di controllarne le forze, dotata di poteri superiori alla natura stessa.

Una natura lussureggiante, troppo bella per essere vera, e infatti frutto della fantasia del pittore, suggestionato dalle frequenti visite al Jardin des Plantes di Parigi. L’inquietante bellezza della donna è suggerita dalla pelle scura, quasi fosse una statua votiva intagliata nel duro legno di una qualche essenza della savana.

L’affascinante violenza della natura la si ritrova nel Cavallo assalito da un giaguaro, (1910), dove una lussureggiante vegetazione fa da sfondo alla morte del più debole vessato dal più forte. Un’amara considerazione sulle leggi naturali, che si susseguono secondo immutabili ritmi ormai millenari, circondate però da una suggestiva bellezza, perché dettate da ragioni di sopravvivenza, e non di gratuita sanguinari età, come accade per le leggi dell’uomo. Colpisce come un’atmosfera del genere torni anche nella pittura di Antonio Ligabue, altra figura ai margini, incompresa, solitaria, e proprio per questo in sintonia più con la natura che con gli uomini; le sue tigri aggredite da serpenti e tarantole, si muovono in foreste ugualmente lussureggianti, dai colori vivi.

Rousseau fu sconosciuto a Ligabue, eppure la loro vicinanza sia per lo stile naïf, sia per la sensibilità dimostrata nei confronti della natura, aiuta a capire la profondità e la bellezza dell’arte, quando è arte vera, immortale.

E ancora, le scimmie di Rousseau sono un’allegoria dell’umanità, ideali attori di un teatro in ambiente primitivo, che tocca la natura arcaica e animalesca dell’uomo, e precorre il surrealismo di Paul Delvaux.

Erano anni, quelli, in cui la Belle Époque rifulgeva ancora in tutto il suo splendore, anche se all’orizzonte si profilavano le crisi balcaniche che avrebbero accesa la miccia della Prima Guerra Mondiale, che la conferenza di Algeciras del 1905 avrebbe contribuito a fomentare, avallando l’influenza francese e spagnola sul Marocco e isolando l’Impero Prussiano sullo scacchiere europeo. Rousseau non fu pittore avulso dalla sua epoca e dal suo contesto storico-politico; lo dimostra la tela allegorica La Guerra detta anche La cavalcata della Discordia (1894), che guarda alla serie acqueforti di Goya, I disastri della guerra (1810 - 1823 ca.), e all’iconografia medievale, ma in voga anche nel Rinascimento, della morte trionfante fra le vittime della peste.

Rousseau intende riferirsi al conflitto franco-prussiano del 1870, che portò alla caduta di Napoleone III, alla fine dell’Impero, nonché gravi danni e distruzioni alla Francia. In questa tela, l’artista riporta la morte alla sua dimensione arcaica, raffigurandola in veste di rozza condottiera, scompostamente seduta in groppa a un cavallo, mentre brandisce una spada. Ai suoi piedi, una selva di cadaveri sui quali banchettano i corvi, in una drammatica riedizione del supplizio di Prometeo.

Inquietante il paesaggio, una landa brulla e desolata, quale doveva essere la Terra al principio dell’umanità, quando la Natura sfogava la sua immensa forza, con terremoti ed eruzioni vulcaniche. Un requiem per i morti di tutte le guerre, in un periodo appunto difficile, con l’antisemitismo che conosceva una recrudescenza con l’affaire Dreyfus, e che avrebbe conosciuta la tragedia della Prima Guerra Mondiale appena quattro anni dopo la scomparsa di Rousseau. Che, pur conscio delle angosce dell’Europa del tempo - al pari di Chagall qualche anno più tardi -, cerca di mostrare all’umanità il suo patrimonio spirituale, la bellezza di cui dispone senza accorgersene, e in quest’ottica diviene delicato cantore del paesaggio naturale, assiduamente studiato nelle lunghe, solitarie passeggiate nei dintorni di Parigi, fra parchi signorili e campi coltivati, dimore aristocratiche e case di campagna, vedute marine e del lungofiume; una natura di cui Rousseau ci fa sentire il respiro, la perfezione, la solennità, tra influenze impressioniste e del pointillisme.

Un candore arcaico, come suggerisce il titolo della mostra, che Rousseau mutua, ritraendo scene quotidiane con forme elementari, dai Primitivi italiani, e influenzando a sua volta artisti come Delaunay, come si evince dal confronto con le tele a dei giocatori di pallone. Un primitivismo che si ritrova anche nella ritrattistica, ad esempio il Ritratto di Madame M. (1890), dove una figura femminile dalla monumentalità michelangiolesca, in una posa che ricorda quelle classiche di Reynolds, si offre allo sguardo dell’osservatore nella sua inquietante bidimensionalità con un severo abito nero, che contrasta cromaticamente con il ritratto della Ragazza in rosa (1906), che a sua volta si staglia sullo sfondo di una misteriosa foresta.

Due ritratti femminili solenni e inquietanti, sulla cui scia si pone la Ragazza in bianco (1929) di Frida Kahlo, espressione dell’arcaicità popolare messicana. Così come al popolo appartengono i protagonisti del Matrimonio in campagna (1905), rivisitazione moderna dei Coniugi Arnolfini di van Eyck.

Rousseau, che vagheggiava paradisi spirituali, non poteva non subire il fascino discreto delle tele di Gauguin, che dal 1891 (con un breve ritorno in Francia dal ’93 al ’95), si era stabilito in Polinesia, e che si dedicava alla pittura d’astrazione. Pur senza mettere così tanta distanza fisica fra sé e il Vecchio Continente, anche Rousseau si astrae a suo modo, rifugiandosi in un suo personale universo, lontano dalle tensioni sociali e politiche che l’arte dell’epoca aveva assorbite.

Come accadrà non molti anni dopo con Marc Chagall, anche Rousseau risponde alla crisi spirituale dell’Europa del primo Novecento non suggerendo distruzioni radicali, bensì guardando indietro al patrimonio spirituale dell’umanità, che la preponderanza della scienza rischiava (come poi di fatto sarà), di allontanare da usi e costumi ormai millenari. Con sublime sguardo “infantile”, Rousseau intinge il suo pennello in quella forza primigenia che domina il mondo e che gli antichi Greci chiamavano arché (ἀρχή), una forza che si manifesta sottoforma di aria, acqua, terra, fuoco, che a loro volta originano il mare, gli alberi, il cielo, il sole, la roccia.

Per questo morivo, ognuna delle tele di Rousseau è una narrazione investita di sacralità, volta a soddisfare il bisogno di fornire una spiegazione a fenomeni naturali o a interrogativi sull'esistenza e sul cosmo.

L’importanza di Rousseau, la si misura sulla base dei movimenti artistici da lui influenzati o ispirati, come il Cubismo, il Surrealismo, l’Astrattismo, la Metafisica, il gruppo dei Nabis e il Neo-espressionismo, ognuno dei quali gli deve qualcosa in fatto di approccio stilistico. Nel 1908, all’atelier di Picasso presso il Bateau Lavoir, si tenne un grande banchetto in onore di Rousseau, cui presero parte numerosi artisti, quali Weber, Apollinaire, Jacob, Braque, Utrillo, che già lo consideravano una sorta di “padre putativo”.

Ma chi forse comprese meglio Rousseau, fu Vasilij Vasil'evič Kandinsky, fondatore del gruppo del Blaue Reiter, fucina dell’astrattismo europeo, ispirato proprio dalla semplificazione formale operata da Rousseau. Un’influenza che la mostra lascia capire affiancando opere quali, ad esempio Il pittore e la modella (1934) di Kandinsky, Idillio di villaggio (1913) di Paul Klee, e Il cortile (1896) di Rousseau. Il pittore russo ammirava particolarmente lo stile del collega francese, perché in pochi tratti, questi andava a toccare le corde spirituali dell’arte, esprimendo la completa interiorità del soggetto rappresentato.

Da questo punto di vista, la visionarietà di Rousseau diviene paradossalmente reale poiché ambientata in quel contesto arcaico dove maturò il sentire umano, con il suo timoroso procedere nell’universo creato, a diretto contatto con una Natura misteriosa, che è madre e matrigna insieme, depositaria del mistero della vita, cui l’uomo guardava appunto con timore e reverenza. E fu Kandinsky a teorizzare quanto Rousseau aveva dipinto sulla tela, ovvero la sovrapposizione dell’astrattismo con il naturalismo, superando le questioni formali, e guardando soltanto all’essenza delle cose.

Essenza che a Rousseau non era mai sfuggita. Per questo le sue tele sono apparentabili ai Miti inquietanti di Blaise Cendrars; anch’esse, infatti, toccano l’essenza primitiva di uomini e cose, e si lasciano incantare dalla grandiosa e tragica bellezza di quel mistero che è la vita.

Niccolò Lucarelli

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