La visione della modernità, la modernità di una visione

La società contemporanea, smarrita e confusa, nacque sulle ceneri della millenaria civiltà contadina cui il progresso tecnologico e scientifico assestò, sin dall’Ottocento, colpi mortali. Nella pittura Simbolista e d’avanguardia fra Otto e Novecento, le inquietudini dell’uomo che ha smarrito sé stesso. A Palazzo Roverella di Rovigo, fino al 14 giugno 2015. Tutte le informazioni al sito www.palazzoroverella.com.

18 marzo 2015 23:43
La visione della modernità, la modernità di una visione
Franz von Stuck - Il peccato 1900 ca.

ROVIGO - A morire, in quell’ultimo scorcio di Ottocento, non fu soltanto Dio, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche; nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità, o almeno la società occidentale. L’Europa in particolar modo risentì di questo inatteso clima di disperazione e sconvolgimenti, ma paradossalmente, ironicamente o sadicamente, l’arte europea che va dal 1880 al 1930 esprime una maturità e un’estetica di tragica bellezza, di cui il mondo non aveva conosciuto l’eguale, quanto a capacità di compenetrare lo stato d’animo corrente della società.

A questo suggestivo, e ancora profondamente attuale periodo, rende omaggio la splendida mostra Il demone della modernità. Pittori visionari all’alba del Secolo Breve, curata da Giandomenico Romanelli, indagine pittorica della crisi spirituale della fine dell’Ottocento, che vide l’Europa a una svolta cruciale della sua storia, incalzata da un lato dal progresso tecnologico e scientifico - sono di questo periodo, ad esempio, le teorie di fisica quantistica di Planck che apriranno la strada alla teoria della relatività di Einstein, così come l’automobile, i cibi in scatola, il telefono-, e da un clima politico particolarmente caldo dall’altro; un viscerale antisemitismo serpeggia nel Vecchio Continente, rinverdito dall’affaire Dreyfus, la politica colonialista assoggetta senza scrupoli i continenti asiatico e africano, mentre le inimicizie dei secolari Imperi Centrali danno fuoco alle polveri nella regione balcanica.

In poche parole, si stanno gettando le basi per quell’instabilità politica e sociale che segnerà il secolo successivo. I popoli, a loro volta stretti fra la propaganda nazionalista, le inquietanti meraviglie del progresso, e i venti di guerra, presagiscono in confuso la fine di un’epoca, un presentimento di cui appunto si fa portavoce l’arte d’avanguardia del Simbolismo e del Modernismo,

Sei le sezioni della mostra, che illustrano un percorso artistico sviluppatosi dalle ceneri del decadentismo europeo di fine Ottocento, e che giunge fino alle soglie degli anni Trenta.

Nelle fasi critiche della storia dell’uomo, quando il futuro sembra un salto verso l’ignoto, quando i valori tradizionali non riescono più a fornire rassicuranti certezze, è al mondo esoterico che si guarda, nell’estremo, assurdo tentativo, dettato dalla paura, di ottenere qualche risposta. Lo si era visto fra il II e il IV Secolo d.C., nell’età della decadenza dell’Impero Romano, fra Commodo e Diocleziano, quando si diffusero i culti esoterici orientali, cui ci si rivolgeva per cercare sollievo contro l’insicurezza derivante dalla percezione di uno Stato in sfacelo.

Un millennio e mezzo più tardi, non è alle statue di Iside, Iuppiter Dolichenus, Mitra, che ci si rivolge. Adesso, è la figura diabolica per eccellenza, Lucifero, ad attrarre la curiosità di intellettuali come William Beckford e Aleyster Crowley sono fra le figure di riferimento di questo particolare culto. Alla luce del celeberrimo aforisma di Nietzsche ne La gaia scienza, l’adorazione di Lucifero diviene metafora per adorare l’uomo stesso. Da quando l’uomo, spinto dal brivido della tecnologia e della scienza, si è sostituito a Dio nella creazione, svuotando di significato la sua stessa figura, l’ha sostituita, più o meno inconsciamente, con sé stesso.

E in sé stesso che l’uomo adesso deve guardare, e guardandovi, scopre di non saper controllare il suo inconscio.

Come scrisse il poeta e filosofo cattolico Josè Bergamin (1895-1983), «Lucifero è la volontà di non essere, volendo esser tutto». A questo si ridurrà l’uomo moderno, e ne vedremo il caso limite pochi decenni dopo, con Adolf Hitler. Ma anche senza spingersi verso tragici paradossi, è innegabile che l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’esistenza, cambi radicalmente; lo pervade una scontentezza di dimensioni bibliche, un senso del negativo che sfiora il misticismo, e Sartre, da ateo dichiarato, sarà il sacerdote di questa nuova dottrina. La contro-cultura, quella della contestazione degli anni Sessanta, nasce in questo clima di smantellamento della civiltà rurale e cattolica europea, con i suoi valori riassumibili in Dio, Patria e Famiglia. Il relativismo sessantottino è figlio bastardo e snaturato di Nietzsche, di Baudelaire, di Beckford.

L’arte, a suo modo, si fa portavoce di questo inquietante clima, e mai Lucifero fu più umano di quello dipinto dal tedesco Franz von Stuck nella tela omonima del 1889; qui, l’angelo demoniaco ha lo sguardo spaventosamente sbarrato, con le minuscole pupille rosse che sembrano perdersi nell’immenso bianco del bulbo oculare A sinistra una falce di luna si specchia nell’acqua che ristagna sul fondo della caverna, dove Lucifero medita preoccupato.

A fare da cornice all’angelo nero, una pletora di Arpie, Sfingi, ambigue Salomè, nella poliedrica veste di amanti, prostitute, spie e traditrici. La Salomè di Hans Unger ricorda curiosamente, nello sguardo e nella corporatura, Mata Hari, che, vedi coincidenza, venne fucilata per mano francese nel 1917, lo stesso anno in cui Unger dipinse la tela. Coincidenza o meno, il quadro è sintomatico di uno stato d’animo diffuso, che vede nell’erotismo, anche esotico, la tormentata linea di confine fra la realtà e l’inconscio, il bene e il male, la luce e la tenebra. Non casualmente, il Simbolismo è la corrente pittorica di riferimento in questi anni, caratterizzata da una severa pennellata, e colori scuri.

Figure, quelle delle Sfingi, di Salomè, delle Arpie, che i vari Unger, von Stuck, Hengeler, Klinger, dipingono con malcelata misoginia, vestita però anche di timorosa ammirazione per quel corpo femminile - e la mente che vi sottende -, che d’improvviso si scopre essere più forte dell’uomo. Ed ecco che nel Bacio della Sfinge, (nella copia di Hengeler da von Stuck del 1896), è la donna ad attrarre l’uomo in un tormentoso e convulso gioco erotico, metaforicamente l’ultima spiaggia prima della morte.

Un estremo punto d’incontro fra la lussuria animalesca della donna, e l’idealismo ascetico dell’uomo. Detto per inciso, Gabriele D’Annunzio, nella sua esistenza da Inimitabile, fu tra i pochissimi a trovare un compromesso accettabile fra le due pulsioni.

Allo stesso modo, ancora von Stuck, interprete di un Simbolismo di gusto caravaggesco, ne Il peccato (1900), immortala una donna nuda eroticamente avvolta da un enorme serpente, il cui verde scurissimo fa viepiù risaltare la bianchezza del turgido corpo della donna, la quale è identificata nel complice di Satana e portatrice di morte e rovina.

Fondamentale per lo sviluppo del pensiero novecentesco, fu anche la teoria psicanalitica concepita da Sigmund Freud, che rivelò all’umanità l’inquietante presenza dell’Es e del Super-Io, illuminando la vastità di una coscienza che sembra onnipotente. Facile lasciarsi prendere dalle vertigini, e sentirsi parte di una sapienza cosmica che necessita d’interpretazione; nella seconda sezione della mostra si fa metaforico riferimento alla ziggurat dell’anima, al tentativo dell’uomo d’innalzarsi verso un infinito dove però crede di trovare sé stesso.

Uno su tutti, lo splendido Domanda alle stelle (1901), di Karl Wilhelm Diefenbach, che scenicamente ricorda il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Anziché volgere lo sguardo al mare, la donna - nuda su uno scoglio lambito da onde minacciose -, scruta il cielo grigio, non accontentandosi, tanta è l’angoscia da disperdere, del terrestre altrove romantico del primo Ottocento.

Ma quell’infinito, è popolato da creature ambigue, messaggere di rivelazioni sulle connessioni fra l’umano e il divino, creature erotiche che segnano il cammino della perdizione. Se le prime sono riconducibili alla corrente psicanalitica (ricordiamo come lo stesso Freud abbia spiegata la mitologia come il prodotto del sincretismo fra il pensiero cosciente e sub-cosciente, per spiegare gli eventi naturali, le aspirazioni e le paure dell’uomo.

Oltre alle acqueforti di Max Klinger sulla prostituzione, spiccano, in questa terza sezione, le filosofiche tele del lituano Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911), che si muove con disinvoltura fra Simbolismo, Art Nouveau, Astrattismo, e fra i pochi ad aver conservata una certa sensibilità religiosa. Concettualmente in contrasto con gli altri pittori in mostra, Čiurlionis dipinge angeli, foreste, stagioni, città, partiture musicali, sollecitando l’umanità a cercare il senso della realtà spiegandola in relazione alla divinità. L’esatto contrario del filosofo nietzschano, o comunque esistenzialista, che spiega l’uomo con l’uomo. Forse coraggiosamente, forse scioccamente, dopo oltre un secolo una risposta ancora non c’è.

Intanto, l’Europa del primo Novecento si sentiva inquieta, presagendo venti di guerra. Nessuna meraviglia che gli artisti sin qui presi in esame provengano dall’area degli Imperi Centrali. Ma anche a Est covava l’inquietudine. In questa quarta sezione (Il trionfo delle tenebre), spicca la presenza dei croati Bela Csikos Sessia (1864-1931), e Ignjat Job (1895-1936) che dalla natia e turbolenta patria, si formarono all’Accademia di Belle Arti di Vienna e Monaco di Baviera. Un contraddittorio amore-odio per l’Austria e la cultura germanica contraddistingueva il sentire delle élites intellettuali balcaniche dell’epoca, non scevre di sentimenti nazionalistici. Per gli intellettuali balcanici, le due capitali, assieme alla sfolgorante Parigi, erano irrinunciabili tappe dove affinare la formazione pittorica, e incontrare quel beau monde che ancora dava il la al resto d’Europa.

I pittori, in particolare, subivano il fascino del Realismo, del Simbolismo e dello Jugendstil, all’interno di un percorso artistico di respiro europeo, che li portava invariabilmente a confrontarsi con le esperienze artistiche di area austro-tedesca.

In bilico tra accademismo e Simbolismo, Sessia esegue suggestivi, apocalittici dipinti dai tenui colori, mentre Job, in quel cruciale 1918, dipinge una creatura infernale che trafigge con la spada il globo terrestre, da cui sgorga copioso il sangue La fine del mondo (1918).

Interessanti i percorsi degli italiani Alberto Martini e Bortolo Sacchi, buoni frequentatori della Secessione tedesca.

Ma la modernità non significa soltanto un atteggiamento filosofico votato alla solitudine dell’uomo, all’esplorazione del suo subconscio, o all’angoscia per la guerra imminente; nell’ottica industriale, la modernità porta con sé pesanti sconvolgimenti nei ritmi di vita, causati dai gesti ripetitivi e spersonalizzanti della catena di montaggio, sui quali Chaplin ironizzò acutamente nella pellicola Tempi moderni (1936). Cambiano gli scenari quotidiani, non più il borgo o la cittadella di antica origine, bensì la città industriale che si sviluppa in periferia; ma la città moderna per antonomasia è New York, che negli anni Trenta fu al centro di un vasto programma di risanamento guidato dall’urbanista Robert Moses, e teatro dei quotidiani scontri fra bande malavitose rivali, all’ombra di Wall Street e del Rockfeller Center, o fra i vicoli di Little Italy.

Una città tenera e violenta insieme, all’ombra della quale crescevano quelli che sarebbero diventati gli esponenti della Beat Generation, dell’Action Painting, della scena RnB degli anni Sessanta, i protagonisti, insomma, del nuovo corso del secondo Novecento. È questa città a suscitare l’interesse di Gennaro Favai, che già aveva soggiornato a Parigi, e che proprio dall’ambiente urbano trae nuova linfa al genere del vedutismo. I maestosi e inquietanti skyline newyorkesi oscillano fra l’impressionismo di Monet e l’acquerello della Secessione, tra il futurismo di Sant’Elia e il piglio cinematografico di Lang o Murnau; il pittore veneto, infatti, riesce a cogliere i vari aspetti di questa enigmatica città: operosa e quasi serena, in Grattacieli dal porto (1930), con le macchie blu delle barche e delle chiatte che contrastano con il rosa dell’alba, e i profili azzurrati dei grattacieli.

E ancora, una New York ben più inquietante in versione notturna, dove i grattacieli sembrano contenere e schiacciare l’esistenza dell’uomo, tra luci sfavillanti e un Hudson che scorre indifferente. Ma su tutto, un cielo ineffabile, inquietante, «un cortocircuito celeste», come ancora una volta Bergamin definisce Lucifero. È lui che supervisiona la modernità urbana, fatta di party alla moda, di luci sfavillanti à la Great Gatsby, d’effimero e d’ipocrisia.

Da quella fine d’Ottocento, l’umanità avrà seria difficoltà a trovare valori soddisfacenti nei quali credere e crescere le nuove generazioni, finendo, forse, per arrendersi al fascino del negativo, della distruzione a ogni costo del vecchio modus vivendi, impedendo di fatto il formarsi di una nuova memoria collettiva sufficientemente radicata. La società di massa, con al sua smania del nuovo, che apre la strada alla società dei consumi, con tutte le problematiche del caso, è stata concepita in nuce in quegli anni.

Un atteggiamento, questo, che dividerà l’Europa nei decenni a venire, e scuoterà in particolare le coscienze degli intellettuali cattolici. Ad esempio Giovanni Guareschi, fra i pochi reazionari italiani dotati d’intelligenza, demonizzò l’atteggiamento anticonformista di questa nuova coscienza ostentatamente laica, che a suo dire seppe aprire soltanto vuoti. Al polo opposto, filosofi e intellettuali quali Sartre e Nizan, e a suo modo anche Malaparte, costruiranno il loro pensiero discettando sulla solitudine dell’uomo, sulla gioventù soffocata dalla famiglia, e sulla lotta di classe quale mezzo di emancipazione delle masse operaie.

Perché è l’operaio, l’uomo nuovo della società moderna, il cui ceto andrà progressivamente a sostituire quello contadino, entro la metà del secolo. Su questa china si muoverà anche Pasolini, non poco caustico verso una modernità che schiaccia l’essere umano. Ma nessuno di loro, tuttavia, saprà fornire valide direzioni cui indirizzare le speranze del genere umano. Che ancora, continua a vagare fra demoni e puttane.

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