Henry Savage Landor, pittore e viaggiatore

Cina, Africa, Giappone, Corea, sulle tele del nobile fiorentino di origine anglosassone. Fino al 29 giugno, nel Saloncino delle Statue della galleria d’Arte Moderna.

31 maggio 2014 18:56
Henry Savage Landor, pittore e viaggiatore

FIRENZE - Dall’inizio dell’Ottocento, la città granducale vantava una folta comunità straniera, in particolare anglosassone, attratta dalle bellezze artistiche e paesaggistiche fiorentine. Una comunità raffinata, di nobile lignaggio, e alto ingegno, che arricchì la vita culturale cittadina di artisti e pensatori. Fra questi, Arnold Henry Savage Landor, protagonista dell’ultima grande stagione artistica e letteraria di una Firenze cui gli anni della capitale non avevano troppo snaturata l’anima.

A questo pittore con l’anima da viaggiatore rende omaggio Arnold Henry Savage Landor (1865 – 1924), pittore esploratore, piccola ma raffinata mostra curata da Francesco Morena, che comprende quaranta tele provenienti dalla collezione Fusi; un percorso che ricostruisce gli avventurosi viaggi dell’artista, che, allievo del pittore orientalista Stefano Ussi, sviluppa anche attraverso il suo insegnamento artistico una profonda passione per il viaggio e le terre lontane di civiltà ancora in gran parte ignote.

Dall'Europa all'Africa, dall'Asia alle Americhe e perfino l'Australia, Savage Landor esplorò la Terra per ogni dove, alla ricerca di paesaggi incontaminati. Portava nel sangue il gusto per l’avventura, per la conoscenza di lontane civiltà, in particolare l’Oriente. Capostipite della famiglia Savage Landor a Firenze, era stato, nel 1821, Walter, autore, fra l’altro, nel 1798, di un poema di gusto orientale, Gebir, e che alle nebbie delle brugheire di Sua Maestà, aveva prefreito il sole e la cucina della Toscana.

Henry fu appunto suo nipote, nonché cugino, per parte di madre, del Conte Camillo Negroni, ideatore del celebre, omonimo cocktail, anch’egli viaggiatore negli Stati Uniti sul finire dell’Ottocento. Una famiglia che univa la cultura al savoir vivre, e della quale Firenze non ha ancora persa la memoria.

La mostra, attraverso una selezione di tele realizzate nei cinque continenti, permette di apprezzare gli ultimi fasti dell’epopea delle grandi esplorazioni, prima che la Seconda Guerra Mondiale, le dittature totalitarie e l’industrializzazione distruggessero civiltà millenarie e paesaggi incontaminati.

Il primo viaggio Landor lo compì nell’Africa Settentrionale, ispirato dal suo maestro. Con uno stile che si avvale di una pennellata larga e pastosa di gusto macchiaiolo, e un uso prevalente di colori tenui, in particolare dell’azzurro, del marrone e del grigio, esplora gli stretti vicoli dei villaggi del deserto, fra case biancastre e rare palme. Suggestiva la Veduta di città nord africana (1888), colta al tramonto, con il cielo di un rosso-arancio che contrasta con l’uniforme colore marrone delle case basse, sulle quali spiccano i minareti delle moschee.

Dall’Africa all’Asia, fra Cina, Corea e Giappone. Visitò Pechino, allora ancora capitale imperiale, con i suoi caratteristici hutong e il quartiere diplomatico, oggi distrutto ma del quale Landor ci ha lasciato uno scorcio nell’Ingresso all’Ufficio Affari Esteri “Yamen” (1891). Così come della Grande Muraglia, o dell’ingresso della città di Seoul, elemtni che non mancavano di affascinare i viaggiatori stranieri. Anche nel Giappone dell’Era Meji, avviato verso una rapida industrializzazione, Savage Landor coglie scorci ancora legati al passato, con i villaggi e i paesaggi costieri dell’Hokkaido, quasi cristallizzati nel tempo, la cui vita quotidiana si svolge in simbiosi con la natura, regolata dai suoi ritmi stagionali.

E ancora, il suo occhio attento non manca di calarsi appieno nel sentire più poetico del popolo giapponese, fermando sulla tela un piccolo gruppo di uomini e donne intento ad ammirare la tradizionale fioritura dei ciliegi (nella foto), che in Giappone sancisce l’inizio della primavera. Una tela a suo modo intensa, con lo sfondo a campiture bianco-rosate, che con gusto macchiaiolo tessono la cupola fiorita.

Ammirando le vedute di città quali Kyoto, Nikko, Seoul, è possibile formarsi un’idea di quella che poteva essere la bellezza incontaminata di insediamenti che l’industrializzazione ha completamente stravolti, sradicando con il suo cemento e i suoi ritmi vertiginosi, anche culture ancestrali che resistevano da millenni.

Particolare sensibilità, Landor dimostrò anche verso le etnie che incontrava nei suoi viaggi, in particolare soffermandosi nel ritrarre donne e bambini nei loro costumi tradizionali. Colpiscono i ritratti delle donne Ainu, etnia oggi quasi scomparsa.

Una mostra che è un piccolo ma affascinante viaggio indietro nel tempo, quando il viaggio era un qualcosa che celava misteri e riservava avventure, senza quel senso di noia che accompagna gli ipertecnologici turisti dei nostri giorni.

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