"Esattamente ottant’anni fa - era il 1936 - il poeta lucano Leonardo Sinisgalli esordiva ufficialmente alla poesia - e, al contempo, esordiva in editoria l’eterno “Pesce d’oro” di Scheiwiller. Quell’esile e mitica plaquette, intitolata 18 poesie, uscì in 200 esemplari e, per il giovane poeta di Montemurro, significò un’immediata gloria critica. Questi garofani rappresentano un “segreto” omaggio alle plaquettes di Scheiwiller e alle 18 poesie sinisgalliane, che però in questo caso sono di numero raddoppiato, essendo 36" è questa la prefazione di Andrea Dio Consoli sul volume edito da TrediTre Editori.
Così prosegue Di Consoli "Antonio Petrocelli arriva tardi alla poesia scritta, ma sono decenni che la legge e la studia, anzitutto quella novecentesca, dai futuristi ai “meridionali” - eccellente sin qui il lavoro svolto da “attore-lettore” su Marinetti, su Pierro e intorno ai surrealisti italiani quali Vittorio Bodini (e ov-viamente su Sinisgalli, dal quale ha assimilato “metodi” quali la sottrazione, l’esattezza del dire e una figuratività sognante).Cinque, però, le fonti primarie della sua poesia (da intendere, si capisce, in senso lato, non stricto sensu): senz’altro, ripetiamo, Sinisgalli (per il senso geometrico dello spazio poetico, ma anche per lo sguardo costantemente retroflesso; si confrontino gli ultimi versi quasi magrelliani di questa raccolta “con gli occhi rovescia-ti/ostaggi del passato”, con l’ultimo verso di La luce era gridata a perdifiato di Sinisgalli “Ogni sera mi vado incontro a ritroso”), ma anche Pierro (per il costante dialogo con i morti), l’oralità popolare sapienziale (finanche religiosa), la poesia greca antica in specie di tipo esiodeo e certo surrealismo barocco - ma assai timido - di matrice bodiniana.Agnelli, gufi, cicale, sassi, laghi, fichi, sterpi, buoi, lucertole, argille, ginestre, nuvole: la poesia di Petrocelli parrebbe naturale, ciclica, anticamente armoniosa, e dunque semplice; in verità la sua natura appare incrinata e inclinata da due forze contrarie e perturbatrici: la perdita del paradiso terrestre della tradizione contadina e famigliare (la verità, come in Sinisgalli, è sempre un ab ovo, un’origine) e l’angelicamento negativo (in assenza e in essenza fantasmatica) che tenta un innalzamento discreto che fatichiamo a decifrare se di natura metafisica, religiosa o stilistico-figurativa (cosa sono infatti i garofani bianchi? Fantasmi, anime del purgatorio, nostalgie).L’esistenzialismo culturale, per dirla un po’ brutalmente, non ha cancellato le suggestioni e gli echi antichi della preghiera, della nenia, della maledizione, dell’epicedio, della sentenza memoriale; anzi, li ha rafforzati e riformulati con la poesia lirica, che sempre è lingua moderna che si sovrappone, senza sostituirlo, al sentire originario, al nocciolo duro dell’Essere (il passato è l’unica cosa che rimane anche se non c’è più, e le sole cose certe sono quelle svanite).Quella di Petrocelli, dunque, è una religione del passato: un’oscura ma lieve religione dove l’altrove è la memoria, Dio la definitiva ricomposizione della famiglia e della terra.La sua poesia è perciò umile lingua altra, concretamente misterica, che richiama le ombre e le assenze (è una progettualità nella memoria).
Orfismo rurale, si potrebbe dire o, più esattamente, lingua lontana e, al contempo, domestica e fraterna, che più avvicina a noi il “paradiso perduto”, cioè il sogno della salvezza per via dell’origine .
Garofani è un dolcissimo esordio che ricalca la tradizione ermetica italiana - tra religione e natura, memoria ed evocazione, saggezza e incertezza dell’oltre - soprattutto a partire dai grandi modelli dell’ermetismo meridionale, da Sinisgalli a Gatto, fino allo Scotellaro più intimo e crepuscolare. Un dono prezioso anche perché tardivo, a lungo meditato, centellinato, atteso, figlio di una costante vicinanza alla poesia - la poesia che tira fuori altra poesia, un fuoco che passa da uomo a uomo come estremo tentativo di verità, sia pure per mezzo di una tecnica che si nutre della natura pur non essendolo mai, anche quando dice apertamente “natura”, anche quando nomina le cose semplici che però semplici non sono più".
Antonio Petrocelli è nato a Montalbano Jonico (Matera) il 18 settembre 1953. A quattordici anni si trasferisce a Firenze per studiare al Liceo Classico Galileo. Si iscrive alla Facoltà di Lettere dove si laurea con una tesi su "Lotte per la terra e riforma agraria in un comune del Metapontino 1943/1953". Nel 1976 debutta come attore professionista col Teatro della Convenzione di Firenze. E' un volto familiare del cinema italiano. Ha recitato in più di cinquanta film, alcuni dei quali di grande successo: Caruso Pascoski, Palombella rossa, Il portaborse, La Scuola, Sud, Uomo d'acqua dolce… Ha lavorato con i più importanti registi italiani: Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Guido Chiesa, Marco Tullio Giordana, Daniele Luchetti, Nanni Moretti, Carlo Mazzacurati, Enzo Monteleone, Francesco Nuti, Franco Rossi, Gabriele Salvatores…
Autore e regista del cortometraggio Il corpo del Che presentato alla Mostra Cinematografica di Venezia 1996, nella sezione Finestra sulle immagini.
Vincitore del Premio Solinas (1997) sezione Racconto Cinematografico con il soggetto All’alba il pane bianco scritto con Franco Girardet.
I critici cinematografici Mario Sesti e Piera De Tassis hanno scritto di lui: “ L’assoluta affidabilità nella commedia.(….) sembra imparentarlo alla migliore tradizione italiana del gregario (da Saro Urzì a Gastone Moschin) in grado di contribuire in maniera decisiva alla solidità di un film senza darlo a vedere o di essere all’altezza di un dramma tutte le volte che gli si offre l’occasione. “
Ha pubblicato due romanzi: Volantini Caliceditori 2001 Premio libernauta 2004, Il caratterista Basilisco del Cinema Scaturchio Hacca 2010.
Per Archivia ha curato la traduzione dal dialetto tursitano della raccolta di poesie Il Bacio di Mezzogiorno di Albino Pierro 2008
Agosto 2016 esordisce come poeta con Garofani (Treditre Editori).
Vive con la sua famiglia a San Casciano Val di Pesa, nel Chianti.