Unità d’Italia: quando gli extracomunitari erano gli italiani

Emigrazione e immigrazione nella lezione a due voci di questa mattina. Emilio Frattina: “Persiste da noi una concezione barbarica della cittadinanza che si rifà allo ius sanguinis”

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
23 ottobre 2011 18:36
Unità d’Italia: quando gli extracomunitari erano gli italiani

Firenze– “Tanos” in Argentina, “Dago” negli Stati Uniti, “Cincali” in Svizzera: così venivano chiamati gli italiani che arrivavano all’estero per lavorare, con appellativi che marcavano il disprezzo e la diffidenza delle popolazioni che se li vedevano arrivare in cerca di lavoro e fortuna. La storia degli italiani all’estero, “il cui sentimento nazionale è cresciuto prima che negli italiani rimasti in patria”, come ha spiegato Paola Corti (Univirsità di Torino), messo a confronto con il fenomeno della forte pressione migratoria contemporanea, “che è cominciato venticinque anni fa ed è destinato a continuare”, secondo Emilio Franzina (Università di Verona).

Si è parlato di questo, di “Emigrazione e immigrazione”, nella lezione a due voci che si è tenuta stamattina nella Sala delle Feste di palazzo Bastogi, secondo appuntamento del ciclo di incontri organizzato dal Consiglio regionale della Toscana. Flussi migratori di proporzioni epocali non dissimili da quelli che vedono arrivare milioni di stranieri in Europa e in particolare in Italia. “Flussi migratori determinati da fenomeni demografici incomprimibili”, avverte Emilio Franzina, fenomeni con i quali è bene confrontarsi con intelligenza e senza paura: “I paesi che più ne sono stati investiti nella storia se ne sono sempre giovati per una crescita che altrimenti non avebbero conosciuto”.

I barconi che arrivano dal Mediterraneo, il flusso costante dall’Est Europa, il fenomeno dell’economia parallela della comunità cinese a Prato, così come altrove in Toscana e in Italia: “La novità fondamentale – spiega ancora Franzina – è data dalle dimensioni. Il nostro paese ha conosciuto migrazioni già in epoca medievale, ma mai della portata attuale: nel ’92, in Italia c’era un milione di immigrati, oggi sono quasi cinque milioni, solo le badanti sono ottocentomila. La dimensione del fenomeno rappresenta una novità e accentua le difficoltà”, aggiunge Franzina.

Decine di milioni sono anche gli italiani che hanno lasciato il nostro paese: “Secondo calcoli recenti – dice Franzina –, sono circa 26 milioni gli italiani che sono emigrati all’estero in centocinquant’anni, più di quanti ne furono registrati nel primo censimento dell’Italia unita, quando gli italiani erano 25 milioni”. Ne partirono circa 14 milioni nella seconda metà dell’Ottocento e di nuovo a milioni dopo la seconda guerra mondiale. I pregiudizi, la diffidenza, le difficoltà con le quali si scontravano gli italiani che emigravano in altri paesi, di qua e di là dall’Oceano, non erano molto diversi da quelli che si trovano ad affrontare oggi gli extracomunitari che premono alle nostre frontiere, approdano nel nostro paese e che gli italiani ribattezzano con nuovi appellativi, come “Vu' cumprà”.

E furono i nomignoli affibbiati dalle popolazioni autoctone “a far sviluppare precocemente il sentimento nazionale nei tanti italiani emigrati all’estero, in partenza sentivano più spiccata l’appartenenza regionale o locale”, spiega Paola Corti. Oggi, lo Stato italiano è passato “dal favorire l’emigrazione dei propri cittadini all’estero, vera e propria estromissione di forza lavoro in eccesso, a valorizzare gli italiani all’estero quale risorsa strategica per il marchio-Italia, fattore primario di rilancio oltrefrontiera del sistema-Italia”, secondo un lungo processo che è culminato nella concessione del voto agli italiani all’estero.

Questo si è accompagnato con “politiche fortemente limitative nei confronti delle comunità straniere in Italia, che sulla spinta di interessi economici hanno portato ad una legislazione arcaica sulla cittadinanza – dice ancora Paola Corti –, fino alla legge del ’92, con l’affermazione del principio dello ius sanguinis e l’allungamento dei tempi della concessione della cittadinanza agli stranieri residenti in Italia”. Una legislazione frutto di una “visione barbarica”, ha aggiunto Franzina, “nessuno nei paesi occidentali si rifà più allo ius sanguinis”.

Come superare le attuali difficoltà e aprirsi ad una migliore integrazione? “Con la scuola e confidando nelle seconde generazioni di immigrati, i figli di chi è arrivato in Italia, attraverso l’istruzione e la reciproca conoscenza. In questo nesso c’è la speranza più forte”, è l’opinione di Paola Corti. Il ciclo di incontri proseguirà domenica 30 ottobre. Il tema scelto per il prossimo appuntamento è “Famiglia e società”: ad analizzare come e quanto è cambiato il concetto di nucleo familiare, e come si pone oggi nel nostro Paese, saranno Daniela Lombardi dell’Università di Pisa e Carlo Corsini dell’Università di Firenze.

L’Italia è un paese per vecchi? Oppure di bamboccioni? “Giovani e no: generazioni alla prova”, è il titolo scelto per la lezione di domenica 13 novembre, che affronterà il mondo dei giovani e le “colpe” che spesso la categoria si vede attribuire, con i contributi apportati da Chiara Saraceno della Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino e Marco De Nicolò, dell’Università di Cassino. L’ultimo appuntamento di questo secondo ciclo, il 27 novembre, vedrà l’intervento di Tullio De Mauro dell’Università La Sapienza di Roma e Ilaria Porciani dell’Università di Bologna, nella lezione “Leggere e sapere.

La scuola degli italiani”: dall’analfabetismo, alla scolarizzazione di massa, e oggi? I dubbi sul sistema scolastico e universitario, un’analisi sul variegato mondo della scuola. L'appuntamento che chiude il ciclo di lezioni dedicate al centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, offre anche l'occasione di visitare la mostra “Le pagelle nei 150 anni della scuola elementare in Italia. Per una storia che ci ha visto tutti protagonisti”. A cura di Umberto Cattabrini, dal 26 al 30 novembre a palazzo Bastogi. (s.bar)

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