Tramvia, bottegai e dintorni: se i treni sono di sinistra e le auto di destra

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
20 agosto 2007 09:29
Tramvia, bottegai e dintorni: se i treni sono di sinistra e le auto di destra


di Ubaldo Ceccoli

La cura del ferro era la scelta più lungimirante già all'epoca del boom economico che ha corrisposto al boom dell'auto, delle autostrade e della speculazione edilizia. Il punto è proprio la pluralità con cui si deve affrontare il problema della mobilità, pluralità resa necessaria se si vuole rendere la città accessibile a tutti/e ed a tutte le età. Tuttavia poiché si continua a consumare territorio e a riempire qualsiasi spazio libero con il cemento, la tramvia non sarà la panacea in quanto non s'inserisce in un ridisegno complessivo del vivere urbano e della pianificazione territoriale, temi che continuano ad essere i grandi assenti da qualsiasi discorso.
Il dato empirico (tramvia) è un evento significativo che sintetizza le contraddizioni di una fase determinata nella storia di Firenze.

Per questo sarebbe utile verificare se la vicenda ha qualcosa da dirci su due o tre problemi cruciali della questione urbana.

La strada ferrata
Non è necessitata da alcuna legge naturale se non dall'intrinseca dinamica della formazione sociale capitalistica. Ciò non vuol dire che non esistono tante buone ragioni per volere una tramvia di superficie, rispetto ad una metropolitana sotterranea, ma che le soluzioni avanzate non si configurano come processi indirizzati ad uno sbocco della crisi urbana bensì ad un suo incancrenirsi, perché le stesse razionalità speculative, che hanno prodotto la forma della città attuale, stanno alla base degli odierni progetti cosiddetti correttivi.

Il pensiero corrente
Il prorettore dell'università di Firenze prof.

Sandro Rogari (La Nazione, 27 luglio 2007) afferma che i cantieri, la tramvia e il sacrificio degli alberi sono necessari contro l'immobilismo. Si ha qui una saldatura tra poteri imprenditoriali e settori del mondo politico-culturale mossi da smanie modernizzatrici e da ansia di legittimazione. Ad essi occorre dire che le patologie della città non sono conseguenza di un difetto di modernità ma il sintomo di un'infezione che nasce nel centro del sistema, ossia nel divenire merce della città e nel suo accaparramento attraverso un pieno di cemento che toglie il respiro, rende il soggetto vulnerabile in una privazione strutturale di potere.

Nell'articolo del prof. Rogai siamo di fronte sostanzialmente ad una filosofia della storia che rende necessario il progresso distruttivo anche di quelle poche cose buone che il passato recente ci ha lasciato (come ad esempio una strada alberata). Se è questa l'idea corrente di modernizzazione, diventa azione coerentemente progressiva sventrare montagne, spianare culture, popoli e città. Molti condividono quest'arroganza, ma se questo è il pensiero corrente nelle università, allora è comprensibile il perché esse vivono la stagione del proprio cedimento strutturale.

La città come forma di vita
La reale posta in gioco, nella discussione sul concetto di "progresso", è il rapporto tra il tempo di vita dell'individuo e quello della costruzione pratico-politica di rapporti tra gli uomini e donne improntati alla libertà.

Raggiungere questo pieno dispiegamento vuol dire arricchirlo di memoria e riempirlo di progetto.
Ciò che si continua ad ignorare è che nella "produzione di città" si organizza spazialmente il potere sul corpo sociale. Si può tenere insieme la libertà con la giustizia sociale e politica in un contesto globalizzato disgregante se il "decalogo" fosse tradotto in un progetto politico, sociale, culturale per questa città e per l'area metropolitana, perché si dovranno pur trarre le conseguenze dagli effetti che il neoliberismo ha prodotto da trent'anni nei nostri territori.

Ad esempio: se il neoliberismo è progetto sociale d'esclusione, quali sono i meccanismi e le forme d'esclusione e inclusione in città e nel territorio? Se a livello nazionale non si tratta solo di difendere la Costituzione ma attuarla, come si traduce questo in politica urbana? Se il successo dell'ideologia dello "stato minimo" ha fatto sì che lo spazio statuale fosse occupato dall'impresa, allora il "comune minimo" ha favorito o no lo speculatore nel controllo della città? A fronte della crisi dell'ecosistema la riconversione ecologica della città potrebbe essere una possibile strategia? Perché il rapporto, che si continua a considerare ineludibile, tra territorio e sviluppo degenera in speculazioni edilizie?

Il comitato etico della tramvia
Anche 30/40 anni fa dicevano che coltivare a cemento le aree avrebbe dato una casa a tutti gli italiani, ma è evidente quale città abbiamo ereditato.

Passo dopo passo, seguendo il ritmo del fatto compiuto, giungeremo ad avere una tramvia progettata non per Firenze ma per qualsiasi città, prodotto globale anch'esso, che potrà essere venduto indifferentemente a Los Angeles, Sidney, Salonicco, ecc. In questo modo pensando di sconfiggere i Suv, si potrebbe scoprire presto che magari si elogiava la bici, ma in realtà si aspirava ad un Suv sotto forma di tramvia che, passando sotto casa tutto il giorno, converge sul famoso "triangolo d'oro", con buona pace di coloro che vogliono redimere lo spirito bottegaio della città.

Ma quando ciò accadrà non ci saranno colpevoli perché gli amministratori e i sostenitori del partito anti-immobilismo alla Rogai, si erano solo dovuti adeguare agli imperativi categorici dello sviluppo.

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