Vvedenskij e quel Natale che inneggia alla libertà

Fra i Ballets Russes e il “surrealismo” vittoriano, Oliver Frljić allestisce uno spettacolo di grande valore artistico e politico, un inno al teatro quale strumento di libertà. Fino al 21 novembre, al Teatro Metastasio di Prato.

19 dicembre 2014 09:34
Vvedenskij e quel Natale che inneggia alla libertà

PRATO - La suggestiva bellezza del teatro che crede nella forza della creatività e della scenografia, per comunicare istanze di libertà e infondere coraggio e speranza a un popolo oppresso. È questa la struggente essenza della pièce Natale in casa Ivanov, di Alexander Ivanovič Vvedenskij (1904 - 1941), drammaturgo sovietico poco gradito a Stalin, e assassinato con l’accusa, infondata, di collaborazionismo con la Wehrmacht. A distanza oltre settant’anni dalla scomparsa dell’autore, il regista bosniaco Oliver Frljić allestisce la sua versione dello spettacolo, avvolgendolo in un’aura coreografica degna della tradizione dei Ballets Russes di Sergej Pavlovič Djagilev, con un leggero eco di Lewis Carroll.

Scritta nel 1938, l’annus horribilis del regime stalinista, questa pièce è un atto d’accusa contro i pogrom, gli assassinii di Stato, l’oppressione dittatoriale, e le sofferenze materiali e spirituali inferte al popolo russo, ma costruita con un tale piglio delicato, da farla sembrare un gioco per bambini. La cautela è del resto l’espediente d’obbligo per quegli intellettuali dissidenti che combattono regimi sanguinari.

I nove tableaux vivants che costituiscono la struttura dello spettacolo, raccontano la strana storia della famiglia Puzyrev (e non Ivanov come potrebbe suggerire il titolo), durante una vigilia di Natale. I sette figli della coppia stanno facendo il bagno con la loro tata mentre discutono delle festività imminenti. Una delle bambine, Sonja, si cimenta in allusioni sessuali, che l’anziana tutrice non gradisce, al punto da uccidere la piccola. Ne segue l’irruzione di due agenti di polizia, l’arresto della donna, il suo processo.

Pur ambientato, per ragioni di opportunità, nella Russia zarista del 1880, questo dramma è un’accusa alla Russia dei Soviet; nella figura della tata è facilmente riconoscibile lo stesso Josif Stalin (così come qualunque altro dittatore che abbia insanguinato il proprio Paese), mentre quel suo non ben identificato fidanzato, potrebbe essere il fantasma di Marx, che dopo l’assassinio si sente tradito nella fiducia che aveva concessa alla donna.

Ideale punto di fuga della pièce, è l’albero di Natale a lungo vagheggiato e desiderato, inteso come simbolo di un futuro - che ci si augura abbastanza prossimo -, di felicità, identificata con la libertà.

Particolarmente suggestiva la scena in cui, al suono delle prime note dell’Internazionale, e sotto una forte luce rossastra, una delle ragazza imbraccia l’albero di Natale come fosse un fucile, e lo punta contro la tata assassina; metafora dell’esplicita accusa rivolta a Stalin da Vvedenskij, di aver tradito l’ideale della rivoluzione socialista. Ma l’autore non si fece troppe illusioni, la fine della dittatura era ancora di là da venire. E il drammatico finale, che Frljić immagina come un Natale “assassinato”, è lo struggente epitaffio a una prematura stagione di ctitica politica. Ma il seme era gettato.

Accade in pochi spettacoli di assistere a una tale poetica, struggente convinzione nella forza del teatro, inteso quale luogo di dibattito politico capace d’infondere rinnovato coraggio alla coscienza collettiva.

Ineffabile l’interpretazione delle attrici/ballerine Iva Babić, Barbara Cerar, Silva Čušin, Maša Derganc, Petra Govc, Nina Ivanišin, Sabina Kogovšek, Maja Sever, Nina Valič, Tina Vrbnjak, e Barbara Žefran, che con grazia a tratti rabbiosa infiammano il palcoscenico. A rendere ancora più suggestivi i loro corpi, e l’intera pièce, la casta lingerie vittoriana che indossano per buona parte del tempo, e che costituisce un richiamo estetico prima e concettuale poi, a Lewis Carroll e al suo surreale Alice nel Paese delle Meraviglie.

La costruzione di un testo meta-assurdo da parte di Vvedenskij ha suggerito a Frljić di immaginare un’ideale congiunzione con le atmosfere oniriche dello scrittore britannico; velatamente, si istiga il pubblico (dell’epoca, ma anche di oggi), a saper guardare oltre lo specchio, ad avventurarsi sui sentieri del libero pensiero che, anche nelle condizioni politiche più difficili, la fantasia può comunque sempre schiudere. Perché, scrisse Malaparte, «il proprio dell’uomo non è vivere libero in libertà, ma libero in una prigione».

E l’Unione Sovietica stalinista, una prigione lo era davvero, ma se le sue sbarre sono cadute, lo si deve anche a coloro che al suo interno hanno mantenuta viva la fiamma del libero pensiero e la dignità umana del popolo russo.

Anche se recitato in lingua slovena (con sottotitoli in italiano), lo spettacolo non affatica il pubblico, poiché ben più importante del testo (per altro scarno e ripetitivo), è la coreografia dei nove tableaux vivants, a metà fra le colorate atmosfere di Djagilev e bizzarri siparietti a tempo di rock sullo stile del Crazy Horse. Come a dire che la qualità dell’approccio alla libertà sessuale è la chiave di volta della coscienza civile di un popolo. A prima vista un assunto paradossale, nei fatti molto meno di quanto sembri. A titolo di citazione, ricordiamo quanto dice Anne Wiazemsky nel ruolo di Eve Democracy, nella pellilcola One plus One di Jean Luc Godard: «Quando il sesso diventa un problema, all’orizzonte compare il dittatore».

Il testo, dicevamo, passa in secondo piano, tranne che per un particolare: le frasi, liberamente associate, sono prevalentemente strutturate su immagini bucoliche e astrali, affiancate alle emozioni infantili. A tratti, destano le medesime impressioni che più tardi saranno proprie della poesia delle Beat Generation. Da questo punto di vista, l’invenzione letteraria di Vvedenskij ha precorso i tempi.

In definitiva, si tratta di uno spettacolo la cui potenza strutturale e concettuale è paragonabile a Guernica o alle Demoiselles d’Avignon di Picasso, che all’orrore dell’oppressione contrappone il potere della fantasia e del libero pensiero, e a un rigido formalismo risponde con la levità della danza arcaica.

È però amaro dover riportare come lo spettacolo abbia sì guadagnati applausi entusiasti, venuti però da un pubblico troppo esiguo, la cui scarsezza non ha reso onore alla caratura artistica di quanto visto sul palcoscenico.

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