Spionaggio e terrorismo, nuovi linguaggi iconografici dalla Nuova Zelanda agli USA

La guerra al terrorismo, e le sue implicazioni etiche nella vita quotidiana, attraverso l’iconografia del neozelandese Simon Denny e della statunitense Jenny Holzer, alla Biblioteca Marciana e al Museo Correr, dal 9 maggio al 22 novembre 2015.

08 maggio 2015 12:22
Spionaggio e terrorismo, nuovi linguaggi iconografici dalla Nuova Zelanda agli USA
Simon Denny, Secret Power. Biblioteca Nazionale Marciana. Photo: Nick Ash

VENEZIA - Che il XXI Secolo si iniziato sotto l’egida di una diffusa, invisibile, guerra globale al terrorismo, è cosa ormai evidente. Ciò che invece resta nell’ombra, sono le conseguenze che questo scontro non convenzionale sta avendo sulla società occidentale, avendovi istillato un diffuso senso d’insicurezza, e modificando profondamente la percezione dell’altro, causato dall’ossessivo clima di perenne sospetto che si respira, in particolare negli Stati Uniti d’America. La sensazione di essere perennemente sottoposti al rischio di un attacco terroristico è stata amplificata da una comunicazione politica radicale, volta a convincere la popolazione della necessità di un controllo capillare della vita pubblica, con la creazione di gigantesche banche dati, con informazioni finanziarie, fisiche, biologiche di ogni singolo cittadino, o relative agli accessi a internet, agli spostamenti e ai luoghi frequentati.

Una strategia del genere è stata implementata a livello globale, fra i cinque principali alleati della coalizione anti-terrorismo, ovvero Sati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, e Nuova Zelanda, firmatari dell’alleanza Five Eyes, coordinata dalla National Security Agency americana. In realtà, il trattato risale al 1941, e accoglieva anche altri Paesi; lo scopo, era assicurare un capillare servizio informativo che facilitasse la penetrazione del blocco alleato nell’Europa del dopo-guerra. Particolarmente attivo nei decenni della Guerra Fredda, il programma di spionaggio conobbe una relativa flessione negli anni Novanta, quando si limitò alla sorveglianza commerciale e delle comunicazioni.

All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, la rete di spionaggio conobbe un nuovo impulso, del quale si ignorava l’esistenza fino alla divulgazione, da parte dell’ormai ex collaboratore della NSA, di migliaia di documenti riservati, contenenti i dati sensibili raccolti in numerosi Paesi del mondo, ma in particolare negli Stati Uniti, da parte dei “cinque occhi”. Ne seguì un acceso dibattito se esistano limiti che un governo è tenuto a rispettare, pur combattendo una piaga globale come il terrorismo, salvaguardando la dignità dei suoi cittadini, o se al contrario in nome della sicurezza dello Stato e dei suoi stessi cittadini, tali limiti si possano valicare.

A destare perplessità nell’ala liberale, la mancanza di certezze sul reale utilizzo dei dati raccolti, ovvero se queste banche dati si limitassero ad avere soltanto funzioni di controllo antiterrorismo, o non venissero invece trasmesse anche alle aziende commerciali per studiare le abitudini dei cittadini-consumatori. E se, infine, la raccolta di questi dati sia determinante nella lotta al terrorismo.

Poiché l’arte, sulla falsariga del teatro, ha anche il dovere morale di fungere da coscienza critica della società, l’artista Simon Denny ha strutturato il Padiglione della Nuova Zelanda come una sorta di centrale per la raccolta di questi dati, analizzandoli però da un punto di vista artistico, ovvero indagando il ruolo sempre più capillare che l’immagine ha nella vita quotidiana, intesa non come rappresentazione di qualcosa, ma come dato sensibile.

Secret Power, questo il titolo scelto per il padiglione - ubicato nelle sale della Biblioteca Marciana di Piazza San Marco -, è ispirato al reportage del giornalista neozelandese Nicky Hager, intitolato appunto Secret Power - New Zealand's Role in the International Spy Network. L’altra fonte d’ispirazione utilizzata da Denny, è il “dossier Snowden”, che ha ulteriormente evidenziato il ruolo della Nuova Zelanda, questa volta in materia di spionaggio per fini anti-terroristici.

L’idea alla base del progetto, è mostrare come anche l’intelligence abbia sviluppata una propria iconografia, avvalendosi del lavoro di esperti del settori, come il grafico David Darchicourt, ex direttore creativo della NSA; lo scopo, è tradurre in immagini i dati elaborati da satelliti e strumenti affini, elaborando, ad esempio, le mappe dei territori controllati dall’alto dell’orbita terrestre. Il visitatore si trova quindi a metabolizzare questa sorta di iconografia parallela - inserita in ripiani simili a quelli utilizzati per stoccare i server con i dati sensibili -, affiancata dal suo corrispettivo “ufficiale”: infatti, i designer della NSA, spesso collaborano con le case produttrici di giochi educativi, i cosiddetti edutainment games, gioco di parole per sintetizzare i termini education ed entertainment.

Ma la raccolta di dati sui territori stranieri, è un espediente utilizzato da sempre dai vari governi, e questo spiega la scelta delle sale della Biblioteca per ospitare il padiglione; le oepre di Denny dialogano con gli antichi globi terrestri del XVII Secolo, opere di Willem Janszoon Blaeu, e Vincenzo Coronelli, così come nella mappa rinascimentale di Fra Mauro, tutti commissionate dalla Repubblica Veneta.

Il padiglione neozelandese prosegue all’aeroporto Marco Polo, con la riproduzione dei dipinti delle sale della biblioteca, accanto alle mappe storiche, allegorizzando lo status internazionale dell’area arrivi.

Anche la statunitense Jenny Holzer in War Paintings, - la mostra curata da Thomas Kellein e ospitata la Museo Correr -, fa partire la sua ricerca da documenti desecretati relativi alle operazioni militari contro il terrorismo: mappe, comunicati riservati, referti di autopsie e lettere scritte dai detenuti nelle carceri afghane e irachene, utilizzando questi particolari soggetti per serigrafie e dipinti a olio, di formato rettangolare o quadrato, caratterizzati prevalentemente da colori scuri, e dalla monocromia.

Uno stile apparentabile a quello dell’avanguardia russa del primo Novecento, in particolare di Kazimir Severinovič Malevič (1879-1935), legata alle geometrie astratte. Proprio la durezza e la spigolosità formale del russo, è concettualmente funzionale a un’artista, Jenny Holzer (prima donna, già nel 1990, a rappresentare gli USA a Venezia), che ha sempre utilizzato l’arte per affrontare tematiche scomode (sul genere di Niki de Sainth-Phalle); anche al Museo Correr, punta l’indice sulle modalità di conduzione di un conflitto che molto spesso ignorano i diritti fondamentali dell’individuo, calpestandone la dignità.

Le condizioni dei prigionieri sospettati di essere terroristi, vengono brutalmente sottoposte all’attenzione del pubblico, attraverso le lettere scritte in quelle celle dell’orrore, i dossier che classificano le torture come “incidenti isolati”, le confessioni estorte per coprire responsabilità.

Le opere di Holzer colpiscono emotivamente l’osservatore per la loro immediatezza, non filtrata da nessuna ricerca estetica. I titoli scarni, molto spesso frasi interrotte a metà, suggeriscono l’idea di un qualcosa che si spezza, di una discesa nell’oblio dopo la quale niente può essere più come prima. Difficile infatti, per i prigionieri rilasciati, riprendere un’esistenza normale. Iniziata dieci anni fa, questa serie di opere parla alle coscienze, smuovendo io loro senso critico nei confronti di un modus operandi che accetta la tortura come una prassi normale, quando la Costituzione americana sancisce il rispetto democratico dei diritti dell’uomo. Contraddizioni alle quali in pochi fanno caso.

Niccolò Lucarelli

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