Il cappotto di Gogol’, metafora dell’oppressione

Vittorio Franceschi commovente Akàkij Akàkievic Bašmàckin nella trasposizione del celebre racconto di Gogol’. Meritato successo di pubblico per una pièce delicata e concettualmente elevata. Fino al 25 febbraio al Teatro Metastasio di Prato.

23 gennaio 2015 11:25
Il cappotto di Gogol’, metafora dell’oppressione

PRATO - La disavventura, sfociata in tragedia personale, di un uomo debole e indifeso diviene materia di riflessione sul sistema politico e sociale che opprime, con la sua spavalderia e disonestà, i tanti individui onesti ma deboli. Questa, in sintesi, l’essenza del racconto Il cappotto, che l’autore russo Nikolaj Gogol’ scrisse nel 1842, un racconto sull’oppressione che passando per l’opera di Cechov, e attraverso il pirandelliano Mattia Pascal, giunge sino alla Vita agra di Luciano Bianciardi.

Akàkij Akàkievic Bašmàckin è un modesto copista ministeriale, un uomo timido, di sé e del mondo, che trova gratificazione nel suo impiego, dove quei documenti da copiare, come una leopardesca “ombrosa siepe che da tanta parte il guardo esclude”, lo mettono al riparo dalle considerazioni sulle storture e le amarezze della vita quotidiana. Chiuso nella sua solitudine, beatamente all’oscuro di quanto accade oltre la porta di casa, Bašmàckin vive una sua contorta felicità, fatta di quelle che Guido Gozzano, con sublime osservazione poetica appena velata di cinismo, chiamerà “le piccole cose di pessimo gusto”, quali una boccetta d’inchiostro rosso, lo stufato di montone con la cipolla, le tante carte copiate e tenute in casa, quasi a sostituire quelle presenze umane che mancano nella sua vita, disprezzato come’è, o comunque poco amato dagli altri, a eccezione forse dei vicini e della padrona di casa.

Per colmo del ridicolo, suo padre, suo nonno, suo bisnonno, si chiamavano Akàkij ed erano copisti ministeriali, un espediente letterario per significare la sterminata massa di “piccoli individui”, contrassegnati da miserie e manie, e dal lavoro e l’ingenuità dei quali il potere costituito trae legittimazione per le sue angherie.

Vittorio Franceschi, nelle vesti del protagonista, dà vita a un uomo lieve come l’azzurro del cielo sul golfo di Finlandia dove si specchia la prospettiva Nevskij, un uomo solitario che, nonostante la sua avarizia, muove a compassione per la sua dedizione al dovere, per la gentilezza che sempre riserva anche a chi lo deride, per quelle continue debolezze che ne minano la virilità. Nella sua camera ammobiliata dove vive da scapolo, Bašmàckin si abbandona di quando in quando alle confidenze con Agrafèna Ivànovna (Federica Fabiani), la padrona di casa, una donna del popolo dal robusto buon senso, che creca di scuoterlo dal suo terrore esistenziale. Una figura simile alla devota Matrëna delle dostoevskiane Notti bianche.

Il dover ricomprare un nuovo cappotto è per Bašmàckin occasione di riflessioni, dispiaceri, forti spese, arrovellamenti, che turbano quella pace tanto faticosamente conquistata. Una pace che si può identificare con una personalissima forma di felicità, commovente per quel suo non chiedere niente agli altri, paga com’è di quello che ottiene in silenziosa onestà.

La pièce, all’apparenza banale, è in realtà una sottile considerazione sociale, mossa da una pietà quasi mistica, come se Akàkij fosse uno strànnik, ovvero il “folle in Cristo” della tradizione russa, pronto a esaltare la gloria del Signore con gioia puerile, per ogni piccolo accadimento lieto che costella i suoi giorni. Persone umili queste, ma forse ben più vicine di tanti altri all’essenza del creato.

Il momento dell’acquisto della stoffa per il cappotto offre il pretesto per un intermezzo comico sullo stile della commedia dell’arte, dove un venditore ambulante dal divertente accento est-europeo (Alessio Genchi) sciorina la sua variopinta merce davanti agli occhi di un meravigliato Bašmàckin. Al confezionamento, provvederà Grigòrij Petròvič (Umberto Bortolani), il sarto alcolizzato, dall’esistenza picaresca, prototipo del popolano russo dalla faccia rubizza, nell’animo del quale fra pochi decenni coverà la rivolta anti-zarista.

A vederli uno di fronte all’altro, sembra di assistere a un confronto in sedicesimo fra Narciso e Boccadoro, il pavido Akàkij e il combattivo, sregolato Grigòrij, ossessionato dall’invadente moglie Olga Semiònovna (Marina Pitta). È questo il vivace microcosmo popolare che ruota attorno al timido e silenzioso copista, un universo di donne forse pettegole ma di sani principi, cui fa da contraltare il fanfaronesco sarto, che i tre attori portano sulla scena con sapiente verismo degno delle pitture di Aleksei Savrasov.

Immaginando il suo cappotto, che sarà pronto di lì a qualche giorno, Bašmàckin si lascia andare a un’incontenibile gioia, accennando persino alcuni passi di danza; una scena pittoresca, ma a suo modo commovente, che mostra l’uomo nella sua nudità di essere semplice, capace di godere delle piccole gioie della vita, conquistate a prezzo di sacrifici e privazioni. Infatti, gli ottanta rubli chiesti dal sarto costituiscono per il parsimonioso Bašmàckin una spesa non trascurabile per le sue non floride finanze di copista ministeriale.

Passi di danza non perfettamente aggraziati, eppure sinceri nella gioia che esprimono, e Franceschi li compie con la stessa drammaticità artistica che caratterizzò De Curtis nell’interpretare le movenze di Pinocchio. E ancora, una volta ricevuto il cappotto, gli parla come si farebbe con un amico reale. In quei pochi passi, in quelle parole, sta tutta l’essenza di un Signor Travet ante litteram, che con eroico sforzo s’inventa la felicità, e con evangelica bontà sopporta le umiliazioni dei colleghi di lavoro, che lo invitano a una festa in suo beffardo onore, al ritorno della quale subisce il furto del cappotto.

L’impettito gendarme di sentinella lungo la strada, pur avendo assistito all’accaduto, non muove un muscolo, non si dimostra partecipe del dolore del povero Bašmàckin, bensì si rivela prodigo di buoni consigli burocratici su come e dove sporgere denuncia, una denuncia che si sa già inefficace. Una scena breve, ma significativa per come tratteggia fra le righe la sardonicità del potere costituito, che si permette di lasciare impunito chi ruba, semplicemente perché quello stesso potere ruba più di tutti.

Il debole Bašmàckin non resiste all’onta subita, e, squassato dalla febbre, muore delirando, farfugliando del cappotto, dello stufato di carne, dell’inchiostro, insomma rievocando quell’universo di piccole cose che per lui hanno costituito un tranquillo universo dove sentirsi felice. Un universo che il potere costituito può però facilmente schiacciare, In un estremo gesto di pietà, la padrona di casa copre il cadavere con il vecchio, logoro cappotto, quasi un simulacro di una vita con le sue manie, convinzioni, piccole gioie, e i pochi umili oggetti personali, che però andranno inevitabilmente dispersi, non avendo Bašmàckin parente alcuno cui passarli in eredità.

Alessandro D’Alatri imposta una dinamica regia dal sapore cinematografico, quasi un unico piano-sequenza concettuale che segue da vicino l’intera vicenda (pur sintetizzata per esigenze sceniche), mantenendo quell’amara ironia del testo originale che si contrappone al fatalismo tipico del popolo russo. Interessante espediente d’innovazione del testo, è l’introduzione del personaggio del poeta Polkàn - quasi una sorta di “fantasma” dello stesso Gogol’ -, che fra un sorso e l’altro di vodka, considera compassionevolmente la vita di Bašmàckin.

Dietro la scenografia di gusto ottocentesco, si staglia lo sfondo del cielo ora cupo, ora azzurro, affascinante scenario delle umane vicende, forse indifferente forse mosso a segreta compassione, ma sempre troppo lontano.

Gogol’ scrisse questo racconto con sentimenti quasi evangelici, perché la cultura, prima ancora che dalla mente, parte dal cuore, nel senso che con quel termine s’intende anche la capacità di osservare le esistenze altrui, comprenderne pregi e difetti, e quando siano esse oneste, rispettarle. Anche, nel caso, con gattopardesco scetticismo, comunque mai scevro di signorilità. Ecco perché Il cappotto è ancora oggi drammaticamente attuale, soprattutto in Italia (senza voler scomodare gli scenari africani, asiatici o latino-americani), dove una classe politica arrogante e intellettualmente carente, umilia quotidianamente tutti quegli uomini di buona volontà, che chiedono soltanto di poter vivere in pace. Difficile parlare di progresso umano, fino a quando continueranno le logiche della sopraffazione.

Foto gallery
In evidenza