Il Barocco a lume di candela di Gherardo delle Notti

La Galleria degli Uffizi ospita la prima mostra monografica che il mondo dedica all’artista olandese, raffinato interprete dello stile caravaggesco, di cui fu uno dei divulgatori in Europa. Fino al 24 maggio. Tutte le informazioni al sito www.unannoadarte.it.

09 febbraio 2015 18:25
Il Barocco a lume di candela di Gherardo delle Notti

FIRENZE - La Roma papalina del primo Seicento doveva apparire un palcoscenico ben bizzarro ai visitatori stranieri che vi si appressavano, letterati, artisti, o semplici viaggiatori che fossero. Il Barocco, infatti, fu un grande macchinario scenico a uso fondale del quotidiano teatro che era la Roma dei Papi. Città dalle magnifiche vestigia del passato, cresciuta sulle fondamenta di un fasto abusivo, delle quali il Barocco all’epoca era appunto l’avanguardia estetica e di pensiero. In mezzo alle misere case del popolo, alle taverne, ai vespasiani, alle botteghe artigiane, sorgevano palazzi d’ineffabile splendore, che tanto più apparivano belli se confrontati con lo squallore circostante. In quei palazzi, nobili e Cardinali ospitavano artisti, letterati, filosofi, e questo mecenatismo d’élite contribuì a fare di Roma, paradossalmente, un importante centro culturale di respiro europeo.

Qui giunse, attorno al 1610, Gerrit van Honthorst (Utrecht 1590 - ivi 1656) - noto in Italia con lo pseudonimodi Gherardo delle Notti per le atmosfere a lume di candela delle sue pitture -, artista fra i più significativi dell’ambiente caravaggesco, a torto poco frequentato dall’ambiente artistico. A colmare la lacuna, la prima mostra a livello mondiale a lui interamente dedicata, Gherardo delle Notti. Quadri bizzarrissimi e cene allegre, curata da Gianni Papi e allestita alla Galleria degli Uffizi, il museo che, in Italia, possiede il più ampio corpus di tele dell’artista.

La mostra è occasione per riscoprire la quasi totalità della produzione italiana dell’artista, contestualizzata nel clima pittorico della Penisola del primo Seicento, e affiancata alla produzione olandese. 35 sue tele, a confronto con altre 25, di pittori italiani e olandesi a lui precedenti, contemporanei e successivi, che documentano le influenze e il lascito artistico di questo caravaggesco fuori dagli schemi. Un’ampia varietà di opere, resa possibile dai numerosi prestiti di musei stranieri, dall’Europa ma anche dagli Stati Uniti, che conferiscono alla mostra un respiro internazionale.

Il percorso si apre con una serie di dipinti italiani e olandesi precedenti all’arrivo di Gherardo in Italia, fra i quali spicca il Cavadenti del Caravaggio (1609), che ebbe modo di ammirare a Firenze alla corte di Cosimo II, e di cui apprezzò l’impressionante cupezza. A fianco di Caravaggio, fra gli altri, anche il lucchese Paolo Guidotti, la cui Deposizione (1608-10), ambientata al lume di notte, ancora denota una fase sperimentale delle atmosfere caravaggesche.

Formatosi nella città natia, allievo di Abraham Bloemaert, crebbe nel clima della Riforma, che traspose anche nella sua pittura, sempre caratterizzata da una forte impronta naturalistica, che non si attenuò nemmeno durante i lunghi soggiorni alla Corte Pontificia, dove si stabilì per studiare l’arte antica. Vi scoprì invece Caravaggio, del quale apprezzò quel naturalismo che glielo rendeva affine, e sviluppò un’altissima lirica pittorica, sfociata in una vibrante e poetica interpretazione dello stile del Merisi.

Il periodo dell'attività italiana del pittore è quello qualitativamente più ricco e denso di novità stilistiche; lo si può ben comprendere ne La preghiera di Giuditta prima di uccidere Oloferne (1611-12), i cui il pittore sceglie un punto di vista assolutamente nuovo per immortalare quest’episodio biblico, come suggerisce il titolo, allontanandosi dall’impostazione caravaggesca, della quale però riprende, addolcendoli non poco, i drammatici chiaroscuri, caratterizzati da una pennellata fluidamente stesa.

Parimenti, Cristo nell’orto degli ulivi (1614-1615), si pone nella più intima elaborazione del caravaggismo operata da van Honthorst, per quel drammatico utilizzo della luce sul volto del Cristo, che ricorda la folgore luminosa che si abbatte su Saulo nella Conversione del Caravaggio.

Particolarmente suggestivo, per la drammaticità del fondo scuro, e le pose dolorose degli astanti, il Cristo morto con due angeli (1616-13); la crudezza della luce sull’angelo in primo piano, testimonia una fase di transizione verso la maturità delle atmosfere a lume di candela che lo caratterizza renna negli anni a venire.

A Roma, van Honthorst entrò nell’orbita delle committenze di alto prestigio, lavorando per ordini religiosi, nobili e cardinali; in particolare realizzò cinque pale d’altare in appena un lustro, un onore riservato a ben pochi altri artisti. Agli Uffizi è possibile ammirarne tre, la Decollazione di San Giovanni Battista (1618), e la Madonna in gloria coni santi Francesco e Bonaventura (1618). A caratterizzare quest’ultimo, un aspetto gradevole e austero insieme. Particolare importanza riveste l’Adorazione dei pastori (1619), purtroppo gravemente danneggiata dal vile attentato di via dei Georgofili del ’93, sapientemente e faticosamente restaurata quasi per metà, e simbolo della rinascita della Galleria subito dopo questo tragico episodio.

Pur affascinato dalla poetica pittorica del Merisi, van Honthorst ne amplia la tavolozza narrativa, e indaga quegli aspetti sociali che l’epopea caravaggesca aveva a torto lasciati da parte, per concentrarsi sulle questioni più strettamente religiose. Infatti, si unì al gruppo degli scapigliati Bentvueghels (Uccelli della banda, a metà fra arte e vita equivoca, una versione ante litteram degli Apache di Belleville o dei Wandervogel di Weimar), che si gettarono con entusiasmo nella licenziosa vita popolare dell’epoca, frequentando taverne e bordelli, e soffermando il loro sguardo su quel teatro straordinariamente reale che era la Roma del popolo, e che immortalarono in numerose scene di genere.

Colpisce per la bellezza scenografica la tavola La buona ventura, che ha corrispondenze con l’omonima opera di Simone Vouet, anche’egli a Roma in quegli anni e compagno di taverna di Gherardo. Punto focale dell’opera, la dama sulla destra in primo piano, dalla bellezza tipicamente romana, il volto pieno e appena arrossato, la ricca veste dalle ampie maniche di velluto. Quasi una dea pagana delle voluttà, forse una cortigiana, forse la compagna del cavaliere alla sua destra. E poi l’indovina, che con gesto sensuale tiene nel suo palmo la mano della dama. La pelle scura, il seno ugualmente abbondante, ne fanno una figura eroticamente e spiritualmente misteriosa, guardata con sospetto e curiosità. Alla verità del Vangelo, predicata dai pulpiti, a volte si preferisce il paganesimo della divinazione.

La buona ventura appartiene, assieme alla Cena con suonatore di liuto (1619-20) e alla Cena con sponsali (1613) alle tele della collezione medicea, acquisite da Cosimo II e dal figlio Ferdinando II. Ultimi Medici degni del nome, furono sovrani caratterizzati da un'educazione umanistica e scientifica, che spaziava dalla cultura classica, la cosmografia, il disegno, fino alla matematica e alla meccanica; la loro alta cultura gli permise di arricchire la pinacoteca di famiglia, e furono appunto estimatori delle scene di genere di van Honthorst (del quale si ritiene che con molta probabilità abbia soggiornato a Firenze dal 1619 al 1620);

in particolare la Cena con sponsali rientra nel novero delle “cene allegre”, facendo ritenere che quella che si svolge sotto una delicata luce soffusa sia una serata conviviale da taverna, fra artisti e cortigiane.

Nel 1620 lasciò l’Italia per rientrare in patria, dove fondò nella natia Utrecht una scuola di pittura, e tre anni più tardi divenne capo della gilda di San Luca, equivalente olandese della confraternita fiorentina. L’itinerario della mostra accompagna il visitatore anche nella seconda fase olandese della carriera di van Honthorst, caratterizzata da un ulteriore approfondimento delle scene di genere e delle scene “allegre”: Compagnia allegra (1622), Allegro violinista con bicchiere di vino (1623), dai quali si evince il tributo a Caravaggio e al suo Bacco, nonché un deciso schiarirsi della tavolozza, virata su toni più morbidi e brillanti, che conferiscono vivacità alla composizione, così come le pose scomposte e sorridenti.

A Roma, la lezione di Gherardo delle Notti non passò inosservata, come si evince dalla sezione di studio dei pittori che lavorarono nell’Urbe in quegli anni, dall’olandese van Baburen all’italiano Guerrieri, convinti seguaci della tecnica del lume di notte.

La mostra si chiude con un'ampia sezione dedicata alla grande influenza esercitata da Gherardo sullo sviluppo del filone di questa pittura, con opere, fra gli altri di Trophime Bigot, del Maestro del lume di candela, di Giovan Francesco Guerrieri, di Francesco Rustici, di Rutilio Manetti, di Adam de Coster, di Mathias Stomer.

Un pittore, Gherardo delle Notti, che nelle sue frequentazioni artistiche sacre e profane, ha innovata non poco la maniera barocca derivata dal Caravaggio, raffrenando con la sua poesia le sguaiate scene di genere dei colleghi olandesi come lui scesi a Roma, e che contribuì non poco alla divulgazione dello stile di Caravaggio.

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