La prima giornata di dibattito al Meeting di San Rossore
Dalle città di Israele e Palestina la stessa richiesta: “pace”

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
16 luglio 2002 19:34
La prima giornata di dibattito al Meeting di San Rossore<BR>Dalle città di Israele e Palestina la stessa richiesta: “pace”

SAN ROSSORE- "Un anno fa abbiamo aperto il confronto con i movimenti giovanili, convinti che un altro mondo sia possibile. Quest'anno vogliamo andare più a fondo, far incontrare opinioni diverse, convinti che la spinta etica e di giustizia dei movimenti possa unirsi alla responsabilità e alla concretezza delle istituzioni". Il presidente della Regione Claudio Martini ha spiegato così il significato della seconda edizione del meeting di San Rossore. Nel tendone già affollatissimo (oltre 800 le persone presenti sin dalle prime battute dell'incontro) Martini ha sottolineato l'importanza del dialogo, un dialogo finalizzato alla costruzione di proposte concrete, non solo come evoluzione del percorso iniziato un anno fa, ma anche come possibile proposta rivolta al movimento no-global: "Il movimento - ha detto - è davanti alla necessità di una crescita culturale e propositiva.

Forse oggi deve aprirsi una seconda fase che non si limiti alla protesta, ma che riesca a avanzare proposte e iniziative concrete". Non è invece mutato, rispetto a un anno fa, anzi si è aggravato il quadro internazionale che rende necessaria un azione comune per fronteggiare le ingiustizie e le disuguaglianze generatrici di fame, malattia, guerra. Di qui la necessità di governare i processi di sviluppo: "Il futuro del mondo - ha detto - non può essere deciso dall'economia. Sentiamo il bisogno di una nuova etica e di una nuova politica, queste sì globali".

"Questo tipo di globalizzazione - ha spiegato Martini - finisce tra l'altro per sfavorire realtà come quella della Toscana: il nostro sforzo di qualità è penalizzato dalla rincorsa ai prezzi più bassi, dalle politiche di delocalizzazione e di sfruttamento intensivo delle risorse".
Ecco allora lo scenario proposto da Martini: "Occorre governare la globalizzazione, non lasciarla a se stessa, introdurre criteri democratici capaci di condizionare e regolamentare il mercato e che diano priorità alle esigenze dei paesi poveri, ai diritti di chi lavora, di chi studia, di chi pensa.

La globalizzazione che vogliamo deve garantirci la possibilità di vivere in armonia e sicurezza". Martini ha indicato proposte di lavoro concrete in alcuni casi derivate da scelte fatte dal governo regionale: dall’attenzione ai problemi della cooperazione alle scelte in materia ambientale, dalla difesa della qualità al dialogo con i giovani. In particolare Martini ha citato il piano energetico per la riduzione dei gas serra oltre gli obiettivi del protocollo di Kyoto, il regolamento per la limitazione dell’inquinamento elettromagnetico, la legge regionale che vieta la coltivazione di specie che contengono organismi geneticamente modificati.
L'azione per una globalizzazione 'diversa' è ispirata, da valori come l'attenzione ai diritti umani, la multiculturalità, ma soprattutto al rifiuto della guerra, del terrorismo, della violenza.

In quest'ottica si colloca la presenza di Martini a Genova il prossimo 20 luglio: "Sarò là, su invito di Giuliano Giuliani, nelle manifestazioni che la famiglia organizza a piazza Limonda, a un anno dalla morte di Carlo. Sarà un ricordo dedicato al rifiuto di ogni violenza, al bisogno di verità totale, alla sete di giustizia dei giovani".
Il presidente della Regione ha concluso il suo intervento facendo riferimento al Social Forum Europeo in programma a Firenze nel prossimo novembre. “Lo vedo – ha detto - come una grande occasione di dialogo e di confronto.

E’ un evento impegnativo e non facile da organizzare, ma bisogna guardare avanti. Tradiremmo noi stessi e il mandato che abbiamo ricevuto se non lo facessimo, se ci chiudessimo a riccio. Spero che le istituzioni europee saranno presenti, per fare di Firenze e della Toscana un grande laboratorio di futuro. Non credo ai profeti di sventura, che prevedono catastrofi. Siamo chiamati ciascuno con le sue responsabilità ad essere operatori della speranza possibile”.
“Possiamo oggi immaginarci istituzioni globali di tipo davvero democratico? Chiaramente no: altrimenti la prima riforma da fare domani sarebbe quella che noi tutti dovremmo eleggere il presidente degli Stati Uniti, unica vera potenza politica nel mondo.

A sostenerlo sono gli stessi politologi americani”. Inizia con una provocazione Massimo Cacciari, intervenuto stamani al meeting di San Rossore. Ed il suo intervento riesce a strappare più di un applauso a scena aperta. “Non possiamo immaginarci istituzioni globali perché di fatto non esistono – spiega – La globalizzazione oggi è economica, tecnologica ed anche culturale. Ma quando parliamo di diritti umani assistiamo solo ad un arbitrario occasionalismo e non ci sono istituzioni globali in grado di farli rispettare”.

L’intervento dell’ex sindaco di Venezia è tutto incentrato sull’educazione alla pace, che significa fondamentalmente riconoscere l’altro. Si sofferma sullo sviluppo della democrazia nei paesi del Terzo Mondo, ricorda come partiti democratici di quei paesi sono stati nei decenni passati soffocati con il consenso delle nazioni del Primo mondo perché giudicati potenzialmente socialisti. “E questa – dice – è stata la vera sciagura della politica estera statunitense, come ripetono oggi diversi politologi americani di destra”.

“Tutti noi in fondo siamo new global – sostiene Cacciari, rivolgendosi alla platea ma anche a Romiti e a Picco - tutti ammettiamo che la globalizzazione, così come oggi si manifesta, ha dei limiti. Coloro che esaltano il mercato globale e quanti difendono invece le differenze sono due facce della stessa medaglia. Globalizzazione non vuol dire pensiero unico, ma interdipendenza. Ma c’è differenza solo quando ci sono identità e quelle dobbiamo costruire”.
“Una persona riconosce l’altro – conclude Cacciari – solo se è sicura di sé: altrimenti ogni cambiamento ambientale verrà percepito come un pericolo.

Se invece uno è sicuro della propria identita, cercherà il dialogo e la relazione. Comprendere la straordinaria novità dei problemi di oggi è il miglior modo per educare alla pace”.
Le guerre servono a mantenere un sistema che garantisce ad appena il 20 per cento di abitanti del mondo l’83 per cento delle risorse. Eliminare questa spaventosa militarizzazione dell’economia è quindi un primo fondamentale passo verso un mondo più giusto e solidale. E’ questo il punto centrale della testimonianza resa da Alex Zanotelli, missionario comboniano, che negli ultimi 12 anni ha vissuto in una baraccopoli, nella periferia di Nairobi.

Zanotelli ha però dedicato l’apertura del suo intervento alla legge sull’immigrazione recentemente approvata dal Parlamento italiano: “Vengo dall’Africa, culla dell’umanità, dove gli scienziati dicono sia nato il primo uomo. E oggi vengo in un paese che accoglie gli africani con una legge come la Bossi-Fini. Non si accoglie così la gente. Mi vergogno di essere italiano, mi vergogno di essere cristiano”. Zanotelli ha quindi raccontato la sua esperienza nelle baraccopoli di Nairobi, “dove – ha detto - 2 milioni di persone hanno a disposizione solo l’1,5 per cento della terra disponibile, dove è disponibile un bagno ogni 50 famiglie, dove il 50 per cento dei bambini non riesce ad andare a scuola, e dove l’assistenza sanitaria di base è un lusso che pochi possono permettersi”.

Come è possibile accettare queste terribili ingiustizie? Uno dei problemi di fondo da affrontare è la connessione tra economia e militarizzazione: “L’11 settembre – è il duro attacco di Zanotelli– è stato ‘usato’ dal complesso militare americano per rilanciare un’economia in depressione. Sapete – prosegue - perché gli Stati Uniti spendono sempre di più in armi (da 329 miliardi di dollari all’anno si è passati a 500), perché così fa anche l’Europa (da 150 a 250 miliardi di dollari)? Perché queste armi permettono al 20 per cento del mondo, il cosiddetto Nord del mondo, di continuare a detenere l’83 per cento delle risorse, mentre al restante 80 per cento restano solo le briciole.

La logica di questo sistema l’ha spiegata lo stesso segretario americano alla difesa, Ronald Ramsfeld: per lui, così ha detto, ci sarà una vittoria sul terrorismo se tutto il mondo accetterà che gli americani siano liberi di continuare con il loro stile di vita” . “Ed ecco allora – ha aggiunto Zanotelli – ciò che possiamo fare, da subito, per eliminare queste profonde ingiustizie. Innanzitutto dobbiamo rimettere in discussione il nostro stile di vita. Non si può accettare che milioni di persone vivano in questa situazione di indigenza”.

“E poi – ha concluso - non dobbiamo accettare in maniera assoluta le guerre. Noi stessi cristiani dobbiamo dirci: o Dio o la bomba, o l’uno o l’altro. E esprimere la nostra richiesta di disarmo con iniziative concrete all’insegna della non violenza”.
"La pace è figlia della giustizia. Come è possibile parlare di pace se la globocolonizzazione del pianeta consente che l'80 per cento della ricchezza mondiale sia nelle mani del 20 per cento della sua popolazione? Come si può parlare di pace se 4 miliardari americani possiedono quanto 42 paesi del sud del mondo?". Sono le parole del profeta Isaia il filo conduttore dell'appassionato intervento del missionario domenicano Carlo Alberto Libanio Christo, conosciuto come Frei Betto, brasiliano, personalità di spicco della chiesa latinoamericana, teorico della teologia della liberazione.

"La pace è figlia della giustizia". Ma se ancora può succedere che il terzo mondo sia terra di sfruttamento e speculazione per il capitale europeo e americano, se un contadino dell'Amazzonia è costretto ad andare a comprare in farmacia e a caro prezzo le medicine che l'industria multinazionale ha preparato con le materie prime che lui coltiva, se ancora non esiste una vera democrazia economica, parlare di pace, sostiene Betto, è del tutto inutile. La strada indicata dal profeta Isaia dice che la pace può solo essere il prodotto di una distribuzione equa delle risorse e delle ricchezze.
L'attuale processo di globalizzazione, sostiene Betto, contribuisce ad approfondire le disparità, non a cancellarle.

E' la globolocolonializzazione del pianeta a negare l'etica, a ignorare la cultura, a produrre una "macchina del divertimento dove non ci sono uomini ma consumatori, dove non ci sono culture ma solo la cultura del guadagno, dove non ci sono valori e rapporti umani ma merce". Se vogliamo davvero educare alla pace, si chiede il missionario brasiliano, dobbiamo capire dove ha sbagliato il primo mondo nei suoi rapporti con terzo mondo. Questi rapporti dovranno uscire dalla logica della violenza che fino ad oggi ha dominato per arrivare a costruire, sulla terra, "una sola famiglia umana", dove le risorse siano ben distribuite.

"Solo allora - conclude Betto - potremo "chiamarci fratelli. Solo allora potremo chiamare Dio padre" .
”La parola chiave non è più sviluppo, ma sopravvivenza”. Edward Goldsmith, ecologista di prestigio internazionale che nel 1991 ha ricevuto il premio Nobel alternativo, non usa mezzi termini. Per lui, se vogliamo sopravvivere, il modello da realizzare è quello a cui già pensava Gandhi: una federazione di piccoli villaggi capaci di autoregolarsi, in fondo un po’ collettivisti. “E’ un modello ideale, - spiega - servirà molto tempo per realizzarlo.

Ma è l’unica via di uscita. Dobbiamo procedere nel senso opposto a quello che ci impone la globalizzazione economica in atto”. Ad Edward Goldsmith, intervenuto nella ripresa pomeridiana della prima giornata di San Rossore, è affidata la difesa delle ragioni dei no-global. Gioca con una piccola lucertola che corre sul palco. Parla dei disastri ambientali ed ecologici a cui andiamo incontro, si sofferma sull’accordo internazionale che ha rimosso qualsiasi vincolo nel taglio dei boschi (“si potranno abbattere gli alberi nei parchi e lungo le ripe delle colline, in barba ad ogni sostenibilità”), condanna la privatizzazione di un bene come l’acqua e quello che sta accadendo nelle foreste pluviali del Sudamerica.


“La globalizzazione sarebbe giustificata se portasse sviluppo – spiega - E potrebbe farlo. Grazie allo sviluppo potremmo combattere la fame e la malattia. Viviamo col mito di poter usare la scienza, la tecnologia e l’interscambio alimentare per creare un mondo migliore. E’ la religione di oggi. Invece la globalizzazione che noi viviamo ha come obiettivo la sola costruzione nei paesi del Terzo e Quarto Mondo di un mercato globale insaziabile, dove vendere i nostri prodotti e fonte continua di manodopera a basso costo: un paradiso per le multinazionali.

Obblighiamo quei paesi ad esportare la loro produzione alimentare e ad importare quel che è loro necessario per sopravvivere. Così facendo li condanniamo a vivere nella miseria e solo noi traiamo un beneficio”. “Anche l’agricoltura – conclude – dovrà cambiare: non più industriale e basata su una monocoltura, ma poggiata su tante colture diverse”. Infine una battuta sul terrorismo internazionale: “L’asse del male di cui parla Bush è solo una stupidaggine. Le guerre nascono per motivi economici e per ragioni come la ricerca del petrolio”.
Il dibattito della mattina al meeting di San Rossore si è arricchito di numerosi interventi.

Il presidente dei giovani imprenditori della provincia di Firenze, Filippo Salvi, ha sostenuto che è necessaria una governance della globalizzazione, apportando correttivi per riequilibrare il sistema. “Anche se il mercato non rappresenta la panacea di tutti i mali – ha detto Salvi – non esistono modelli alternativi altrettanto efficaci”.
Il presidente dell’assemblea regionale dell’ottava regione amministrativa del Mali, il tuareg Hama Ag Sid’Ahmed, ha parlato del patto di pace firmato dal suo popolo nel 1992 e di come i Tuareg abbiano ottenuto poteri di gestione amministrativa e di iniziativa locale, culminati nel 1999 con l’elezione del presidente.

“Ma tutto questo – ha ammonito Ahmed – è in pericolo. Rivolgo un appello all’Unione Europea perché non abbandoni le azioni di cooperazione decentrata e aiuti i Tuareg a conservare la pace”. Maria Bellini, della Tavola della Pace ed esponente dell’Agesci, ha sostenuto che serve una maggiore capacità di immaginazione perché “la guerra non è inevitabile. Dobbiamo essere capaci di sognare che la pace è possibile e condividere con gli altri questo sogno”. Ha concluso poi citando un proverbio ruandese.

“Quando due elefanti si scontrano è difficile dire chi vince e chi perde, ma sicuramente è l’erba che ci rimette. E noi dobbiamo stare dalla parte dell’erba”.
Massimo Cervelli, del Social forum pace e diritti, ha parlato della guerra, dei modelli che tendono all’americanizzazione e della necessità di cambiare modello di sviluppo per sancire la necessità di mantenere l’universalità dei servizi, non privatizzando i settori della casa, della salute, dei trasporti e il lavoro. Lio Casini, si è soffermato invece sui gemellaggi come barriera contro la tendenza alla globalizzazione, sostenendo che gli enti locali devono proseguire ed intensificare il loro impegno per sviluppare le reti di cooperazione e di solidarietà tra i popoli.
Infine Eros Cruccolini, presidente del Quartiere 4 di Firenze, ha ripreso la proposta del presidente della Toscana Martini perché i comuni della Toscana accolgano ciascuno una famiglia di Rom così da superare la vergogna dei campi nomadi.

Cruccolini ha ricordato che il suo Quartiere ha istituito un fondo di solidarietà per i cittadini più poveri che la Regione ha sostenuto con 25.000 euro. “Il nostro obiettivo – ha aggiunto Cruccolini – è quello di arrivare a mezzo milione di euro e per raggiungerlo serve l’aiuto delle imprese”. Il presidente del Quartiere fiorentino ha proposto per il Meeting del prossimo anno di dedicare una giornata al digiuno, come atto concreto di solidarietà.
"Shalom". "Salam". Parole simili, dall'identico significato.

A pronunciarle due uomini appartenenti a due popoli da molti anni in guerra fra loro. Ma la parola è la stessa. Ed è un saluto, un augurio: "pace". Così, uno dopo l'altro, questa mattina, sotto una tenda affollata e attenta, hanno cominciato il loro discorso Avi Rabinovich, presidente della Federazione degli enti locali di Israele, e Abdel Kareem Sidr, sindaco della città palestinese di Gerico. Tutti e due vicini alla loro gente, tutti e due portavoce del bisogno di pace, di certezze, di speranza, di vita normale che cresce fra i cittadini, da una parte come dall'altra.
E' proprio da questi identici bisogni, da queste uguali speranze che si può costruire la pace.

E chi meglio dei rappresentanti locali, di chi è più vicino ai cittadini, può raccogliere queste esigenze e convogliarle in un processo di pace? La pensa così Avi Rabinovich, che ringrazia la Regione Toscana per aver provato, una volta tanto, "a mettere insieme tante differenze" e ricorda che proprio in Toscana, qualche mese fa, una riunione di rappresentanti locali arabi e israeliani provava a tracciare questo percorso. "Oggi sono qui proprio perché credo che ci sia, ancora, una speranza ed è questo che sono venuto e dire.

Potrei parlare dei problemi che abbiamo ma voglio parlare di speranza, perché vedo una piccola luce in fondo al tunnel e credo che questa luce possa diventare un grande sole". "Crediamo nel processo di pace", dice Abdel Kareem Sidr, sindaco di Gerico. "Nel nostro paese non siamo liberi, le nostre frontiere sono presidiate, nella striscia di Gaza un milione di persone vive con un dollaro al giorno. Abbiamo un problema da risolvere e dobbiamo risolverlo subito. E' questo che chiede la gente. Può non essere difficile: Israele si è ritirata dal Libano in tre giorni, se volessero potrebbero fare lo stesso con la Palestina".

Serve un dialogo, insomma. Ed è la stessa cosa che chiede José Maria Munoa Ganuza, rappresentante del governo basco, esponente del Partito nazionalista basco. Il suo è un appello a combattere senza le armi, per realizzare quell'autonomia che il suo paese da tempo reclama ma che, afferma, "a trent'anni dal trattato che ne ha sancito l'indipendenza non è ancora pienamente realizzata". E' sbagliato però, afferma, cercare di risolvere il problema con il terrorismo, come fa l'Eta, o con la repressione del dissenso, come fa il governo spagnolo.

Il dialogo vero, la vera pace, sostiene l'esponente basco nato e vissuto in esilio nel periodo del franchismo, non è solo non violenza ma anche rispetto, tolleranza, affetto. E' forse un'utopia, ma un'utopia necessaria e possibile, per rendere la pace durevole. Le vicende della storia e delle due guerre mondiali ci insegnano, infatti, che nesssuna pace imposta con le armi può durare a lungo".

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