Giovedì 28 febbraio Ambleto al Teatro Boito di Greve in Chianti

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
21 febbraio 2002 23:52
Giovedì 28  febbraio Ambleto al Teatro Boito di Greve in Chianti

In un teatrino o forse su un palchetto improvvisato di qualche fiera paesana, una strampalata compagnia di attori, gli Scarrozzanti, tenta di metter su l’Amleto. Il protagonista irrompe in scena e rivolgendosi al pubblico dichiara l’inizio della tragedia che si svolge ad Elsinore, ma più probabilmente alle porte di Milano. Sono un gruppo di guitti, costretti, per povertà di organico, a far interpretare a una stessa attrice Ofelia e Gertrude. Solo gli interpreti di Amleto, Orazio e Laerte possono permettersi il lusso di un ruolo tutto per sé .

Sono tutti amaramente consapevoli della loro condizione e Gertrude rimpiange i perduti tempi migliori, quando la sua “ditta di teatranti” poteva permettersi fiori, bei costumi e anche “boys e gherls” che spargevano attorno “petala de rose e gottate de parfumo”. Così inizia L’Ambleto, la prima di una lunga serie di geniali “riscritture” drammaturgiche di Giovanni Testori. Con questo testo, all’inizio degli anni Settanta, Testori affrontava in modo personalissimo la tragedia shakespeariana: Amleto si trasforma in Ambleto, guitto contadino lombardo, rivoluzionario disperato e nemico giurato delle istituzioni e di ogni forma di potere.

Ma dietro il furore dissacratorio di questa tragedia popolare, palpita anche un abbandono tenerissimo ai sentimenti, che non ne sminuisce la dirompente forza eversiva né le potenzialità buffonesche. I compagni di Amleto vanno in scena come possono, in qualche aia o stalla immerse nelle nebbie e negli afrori della bassa, storpiando Shakespeare in una sorta di parodia grottescamente tragica e irresistibilmente comica. Dai contadini quali sono, parlano una lingua impura ma viva, insieme plebea e raffinata, elegante e barbarica, scurrile e sussiegosa, corrotta e sublime, ruvida e fastosa.

Qua e là dimenticano la parte e ricorrono a qualche battutaccia ripescata da chissà quale repertorio, oppure escono brutalmente dai loro personaggi esibendo in pubblico le loro privatissime beghe. Quando vogliono fare bella figura parlano in una strana lingua, nel tentativo maldestro di italianizzare il dialetto. Ricordano Totò quando vuole fare il raffinato e storpia le parole in invenzioni tutte da ridere. Quando invece sono toccati nel vivo delle parole che dicono , la loro lingua schizza via dai tentativi di farsi presentabile e si stringe in una più intensa “dialettalità “.

Ma si tratta di una dialettalità tutta interiore, non filologicamente ricostruita, quanto evocata come una dimensione dell’anima. In essa risuonano coloriture lombarde e napoletane, francesi e spagnole, latine e siciliane. L’Ambleto rappresenta il naturale approdo di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi al testo in cui per la prima volta Giovanni Testori forgiava una delle lingue più teatrali che si possano immaginare, un testo finora mai più ripreso dal tempo del suo debutto a Milano nel 1972.

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