Shalom in Ucraina: diario di un viaggio (sesta puntata)

Il Generale Zarcone ripercorre le tappe di un'esperienza che cambia la vita

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
04 settembre 2022 10:02
Shalom in Ucraina: diario di un viaggio (sesta puntata)
Consegna materiale

(E' possibile trovare prima, seconda e terza, quarta e quinta puntata nelle pagine del nostro quotidiano on line)

Il giorno 13 la parte più emozionante della spedizione, finalmente ci saremmo recati a Leopoli per incontrare i profughi e donare direttamente a coloro che ne hanno bisogno la parte restante degli aiuti umanitari raccolti.

Siamo accompagnati da due membri della camera bassa polacca (il Sejm), il dottor Tadeusz Chrzan ed il dottor Kazimierz Golojuch, entrambi del partito del Presidente del Consiglio dei Ministri Morawiecki. Con noi per “facilitare” il passaggio alla frontiera. 

Approfondimenti

Alcuni chilometri prima del confine incontriamo la lunga fila di camion in attesa di passare la frontiera con l’Ucraina. Se fossimo rimasti in coda non saremmo stati in grado di rispettare il nostro programma. I due deputati parlano tra loro e concordano la linea da adottare. A quanto pare uno dei due ha già passato il confine più volte ed è conosciuto. La soluzione è semplice: si viaggia contromano. Così viaggiando sull’altra corsia abbiamo superato il confine. 

In Ucraina abbiamo trovato le strade ed i paesi imbandierati con il vessillo nazionale giallo e blu. Anche nei piccoli centri molti uomini indossavano l’uniforme dell’esercito. Pochi i giovani, probabilmente erano impegnati al fronte. Numerosi i posti di blocco dislocati ai lati delle strade ed in prossimità dei grandi incroci delle vie di comunicazione. Realizzati con sacchi di terra e cavalli di frisia in ferro di costruzione artigianale, non tutti erano presidiati dai soldati. 

Giunti in prossimità di Leopoli ci siamo recati al monastero delle suore benedettine di San Giuseppe, un monastero dove sono ospitate alcune famiglie fuggite dalle zone dei combattimenti. Qui abbiamo incontrato il Vicario del Vescovo cattolico di rito latino della città monsignor Edward Kawa, o come da lui tradotto in italiano Monsignor Caffè. La struttura ospita una ottantina di rifugiati, di tutte le età. Nuclei familiari formati in gran parte da donne, bambini ed anziani, molti dei quali con problemi di salute. Qui i profughi sono ospitati in stanzette per nucleo familiare e sono integrati nella vita del monastero. Soltanto gli inabili o gli anziani non partecipano al funzionamento del Monastero. Gli altri concorrono ai vari compiti della comunità: c’è chi aiuta in cucina, chi cura l’orto o il giardino, chi si occupa delle pulizie. Sebbene non sia richiesto, alcuni tra i profughi si uniscono alle monache nei momenti di preghiera.

Le suore hanno dovuto limitare gli spazi destinati alla clausura ed alla solitudine ma cercano di rispettare la regola delle otto ore di preghiera, otto ore di lavoro ed otto ore di riposo. Quando possono si dedicano alle loro attività tradizionali: il ricamo e la pittura di icone. Dopo il benvenuto siamo passati dalla chiesa all’interno del Monastero per incontrare i rifugiati. La suora che ci faceva da guida, ha bussato alle porte per avvertire della nostra visita. Eravamo li per renderci conto della situazione. Ora che ne avevo la possibilità mi sentivo in imbarazzo, quasi come se stessi disturbando.

Avevano visto l’orrore della guerra, c’è chi aveva avuto familiari o vicini uccisi dalle bombe, tutti avevano abbandonato le loro case ed i pochi averi. Non è che non volessi violare la loro privacy, mi sembrava di non rispettare la loro sofferenza. Per fortuna “Monsignor Caffè”, con il quale avevo conversato, ha compreso l’imbarazzo e, con il consenso degli ospiti, ci ha invitato ad entrare. Io sono entrato in una sola stanza accolto dal sorriso di una signora anziana. Non potevamo conversare a causa della barriera linguistica.

Ma ho compreso che mi stava dando il benvenuto. Un gesto di ospitalità in quella che era in quel momento casa sua. Ho visto Don Andrea che le accarezzava affettuosamente la testa. Accanto a lei il marito, cieco, seduto sul bordo letto, che forse non si stava rendendo conto di quello che gli accadeva intorno.Non sono rimasto molto. Mi sono lasciato distrarre da due bambine. Accompagnati dal vescovo ausiliario, che ha fatto da interprete, io ed Alessio Spinelli le abbiamo seguite nel refettorio, dove le monache avevano preparato un caffè con dei biscottini.

Avranno avuto dai sette ai nove anni, forse erano sorelle. La più grande, vestita con un blu jeans ed una felpa rosa con un grosso cuore bianco era più estroversa. Occhio vispo, ci ha dato il cinque, in segno di saluto, sorrideva ed ha detto di chiamarsi Sasha. Teneva in mano un pony di plastica rosa, uno di quella serie di cartoon “My little pony”. La seconda stava dietro. Sembrava introversa, non sorrideva. Vestita con un blue jeans ed una felpa rosa con delle stelline ed i disegni di alcuni personaggi di cartoon, aveva il berretto rosa calzato quasi fino agli occhi.

Dava l’impressione di nascondersi. Teneva stretta in mano una piccola valigetta colorata. Una di quelle che custodiscono giochini per bambine. Forse l’unico ricordo di una vita normale distrutta dalla furia della guerra. 

Credo che l’immagine di quella bambina sia quella che più mi ricorderà questa esperienza. Probabilmente è per questo che quando monsignor Edward Kawa mi ha detto che questo era uno dei luoghi scelti per lasciare una parte degli aiuti ho deciso di lasciare tra gli altri quelli che io avevo portato da Firenze: medicinali e di giochi per bambini avuti da due associazioni composte prevalentemente da donne.

Terminata la visita agli alloggi per i poveri ci siamo recati nei locali adibiti per i magazzini. Per far questo abbiamo attraversato le cucine e gli spazi per la preparazione del cibo. In una stanzetta uno dei profughi, anziano, seduto su un piccolo sgabello, piegato in avanti a pelare una montagna di rape rosse, ingredienti di una tipica zuppa locale. Più avanti ai fornelli, alle prese con un pentolone, una giovane suora sorridente. Poco distante una donna e dietro li lei una delle bambine, che la abbracciava cercando protezione.

Nonostante la tragedia che avevano vissuto tutti ci hanno rivolto un sorriso, espressione della accoglienza tipica di queste popolazioni.Lo scarico dei materiali è avvenuto velocemente perché eravamo attesi per la celebrazione della S. Messa in una chiesa poco distante e dedicata a San Giovanni Paolo II, il Papa polacco. Davanti all’ingresso della chiesa stavano ad aspettare decine di bambini con dei cartelli bianchi in mano ed in mezzo a loro Mieczysław Mokrzycki, Vescovo di Leopoli, e don Gregorio Draus, il parroco. Dietro di loro tantissime persone, anche alcuni soldati, che sventolavano le bandiere ucraine. Non ci aspettavamo questa accoglienza. 

Lo stupore iniziale si è subito trasformato in emozione quando ci siamo resi conto che i cartelli riportavano le località di provenienza di questi bambini. Luoghi a noi noti perché investiti dall’atrocità della guerra ed in parte distrutti: Mykolaiv, Kherson, Mariupol’, Zaporižžjia. Una scena che ha coinvolto tutti. Le lacrime che scorrevano su molti volti evidenziavano l’intensità dell’emozione. Siamo stati quindi invitati entrare in una chiesa piena di fedeli. Durante il breve tragitto due ali di profughi, bambini, tantissimi, poi donne ed anziani.

Seduta sulla destra una donna, anziana, con difficoltà motorie ed un evidente tremolio. Avrebbe dovuto godersi gli ultimi anni di vita tra i propri cari, a casa, tra i ricordi di famiglia ed invece era lì tra i banchi di una chiesa, lei che era fuggita davanti alla guerra ed era ospite della parrocchia, per dirci grazie per “i doni” che avevamo portato. Noi li chiamavamo aiuti umanitari e loro li chiamavano doni. Don Gregorio ha accolto i profughi già dal primo giorno di guerra ed ha avuto coraggio di aprire i locali della parrocchia anche a chi difficilmente avrebbe trovato ospitalità; molti dei profughi erano GipsyPrima della celebrazione liturgica c’è stata una breve cerimonia, dall’elevato valore simbolico.

Con il sottofondo della voce dolcissima di un bambino, una donna vestita nell’abito tradizionale e fasciata da una specie di mantello con delle macchie rosse, che rappresentavano il sangue e le sofferenze degli ucraini, è entrata in chiesa è si è mossa lentamente verso l’altare. Scortata da due soldati, disarmati, portava un crocifisso dorato che ha consegnato all’altare nelle mani di Monsignor Migliavacca.

Al momento della consegna i soldati hanno tolto il mantello “insanguinato” rendendo la donna libera dal peso della guerra. Poi la Messa, celebrata in italiano ed ucraino, da tutti i sacerdoti presenti, italiani, polacchi ed ucraini. La voce dei bambini del coro ha accompagnato tutta la liturgia. Nelle parole di Monsignor Migliavacca e di Monsignor Mokrzycki la ferma condanna dell’aggressione russa ed un invito alla pace ed alla riconciliazione tra i popoli. Terminata la funzione religiosa abbiamo scaricato gli aiuti/doni portati dall’Italia. Subito dopo i gitani ci hanno invitato in uno stanzone al pianterreno dove alcune donne, vestite con gli abiti delle feste, hanno iniziato a ballare al suono delle loro musiche tradizionali. 

Qualcuno è stato coinvolto ed ha ballato insieme a loro in questa festa di ringraziamento. Prima di recarci al successivo appuntamento abbiamo fatto a tempo per condividere il pasto tutti insieme: una zuppa con delle patate e qualcosa che assomigliava ai ravioli cinesi. Lasciata la parrocchia di San Giovanni Paolo II, accompagnati da Monsignor Edward Kawa, abbiamo visitato il deposito aiuti umanitari della Caritas di Leopoli dove giunge buona parte degli aiuti umanitari destinati all’Ucraina. È il corrispondente del centro raccolta polacco di Lezajsk. 

Per l’occasione abbiamo indossato la maglietta della campagna “Basta bombe sui civili” della campagna organizzata dall’ANVCG. L’organizzazione del centro raccolta di Leopoli è simile a quella vista in Polonia. Anche qui lavorano molte donne e chi dirige è una donna. All’ingresso del locale alcuni fogli testimoniano l’arrivo di aiuti umanitari provenienti dall’Italia. Chissà se sono stati messi li per l’occasione della visita di noi italiani. In uno si leggeva “Hello! Wo ye inma Bianca! I’am from Italy. I love Ukraine !!!”, in un altro foglietto, sul quale erano dipinte le bandiere di tanti stati del mondo, primeggiava al centro la parola “Pace” poi in ucraino Мир Для Всіх (pace per tutti) firmato “Gabriele, 10 years from Italy”.

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