Sincronie o forzature? Luci e ombre della nuova mostra di Palazzo Pretorio

Nell’ambito della costruzione del volto artistico contemporaneo della città di Prato, apre la pubblico Synchronicity, controverso percorso/dialogo fra presente e passato. Al Museo di Palazzo Pretorio, fino al 10 gennaio 2016. Tutte le informazioni al sito www.palazzopretorio.prato.it.

21 settembre 2015 16:26
Sincronie o forzature? Luci e ombre della nuova mostra di Palazzo Pretorio
Marina Abramovic - Thomas Lips

PRATO - La città laniera, alla ricerca di un nuovo volto dopo il declino del distretto tessile, da due anni a questa parte si sta attivamente muovendo nell’ambito culturale, scoprendo l’importanza delle collaborazioni fra istituzioni culturali, appunto, pubbliche e private che siano, e fa queste e le istituzioni, al fine di creare occasioni di studio e dibattito, e rilanciare il patrimonio storico-artistico locale, anche in prospettiva di un’auspicabile espansione turistica. A livello strettamente culturale, si sta risvegliando in città una certa attenzione per l’arte contemporanea, e in attesa della già annunciata (ma sin qui mai compiuta) riapertura del Centro Pecci, occupano il campo la rassegna teatrale del Teatro Metastasio Contemporanea, e la nuova mostra che dal 25 settembre sarà visitabile a Palazzo Pretorio: SYNCHRONICITY.

Contemporanei, da Lippi a Warhol, una sorta di mostra-percorso, pensata come un ideale dialogo fra opere che si snodano lungo sei secoli di arte, affiancando alla collezione civica permanente una trentina di opere di artisti contemporanei, a partire dalla fine degli anni Sessanta, questo per garantire la continuità con la collezione, che arriva al 1971 con L’abbraccio di Jacques Lipchitz. Un dialogo fra l’arte del territorio, espressa dai vari Filippo e Filippino Lippi, Fra’ Diamante, Raffaello Del Garbo, Lorenzo Bartolini, Anna Maria Raggi, Alessandro Franchi, e artisti del panorama mondiale fra i quali Marcel Duchamp, Andy Warhol, Vanessa Beecroft, Lucio Fontana, Yves Klein, Matthew Barney, Maria Mulas, Dan Graham, Gilberto Zorio.

D'indubbio fascino la sede ospitante, quel Palazzo Pretorio da poco riaperto dopo lunghi restauri, e che ospita oggi la Collezione Civica, che va dal Trecento al Novecento. Eppure, proprio questa sembra essere una sorta di ostacolo alla buona riuscita della mostra, nel senso che le sue numerose opere rendono poco visibili quelle contemporanee, sulle quali s'incentra appunto Synchronicity, complice anche un allestimento dispersivo.

A ispirare la mostra, curata da Massimo Pezzato, il concetto junghiano di sincronicità, termine con il quale s’intende la connessione fra due o più eventi diversi che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto, ma una evidente comunanza di significato. Tralasciando, per ovvie ragioni, la vicinanza temporale, resta la possibile vicinanza di significato. Nelle intenzioni della curatela, si è voluto introdurre il pubblico all’interno di un percorso artistico che mostrasse la capacità dell’arte di rispondere a tematiche e istanze che si sono ripresentate nei secoli, affrontate con differente sensibilità. Un percorso che tuttavia resta aperto alle interpretazioni del singolo, poiché in questa rilettura della storia attraverso l’arte, ognuno può inserire personali opinioni, episodi e circostanze di vita.

La mostra verrà inaugurata giovedì 24 settembre, alla vigilia dell’apertura del Forum dell’arte contemporanea italiana, promosso dal Centro Pecci, e che vedrà il suo primo appuntamento al Teatro Metastasio. L’impressione è che si parli dell’arte contemporanea più di quanto, in realtà, la si faccia, e si stiano ancora mettendo a punto le strategie per colmare il divario non soltanto con realtà europee già consolidate, ma anche con le realtà italiane. La Toscana è un luogo dove comunque è difficile inserire l’arte contemporanea, legata com’è al suo splendido passato rinascimentale, che un po’ ancora sopravvive nel carattere delle persone (non, purtroppo, nella politica), è parte di un DNA atavico, al punto da non poter prescindere anche all’interno di un percorso artistico che si presume completamente nuovo.

Diverso è il caso di altre città italiane, meno “soffocate” dal loro passato storico, in particolare Milano, dove l’arte contemporanea gode di pieno diritto di cittadinanza, di ampi spazi autonomi dove mostrarsi al pubblico senza la “zavorra” dell’arte del passato. A togliere alle opere contemporanee buona parte della carica energetica ed emotiva, è proprio l’accostamento con altre di molti secoli più antiche, al confronto delle quali sembrano appartenere a un remoto futuro ancora de definire, e per questo non ancora “definitive”.

Per citare Tomasi di Lampedusa, lontane dall’immutabilità dei secoli, “non possono più recare fastidio”.

Al di là di questa considerazione più ontologica che artistica, visitando la mostra si nota un allestimento dispersivo, nel senso che le opere contemporanee sono inserite senza un preciso ordine all’interno delle sale della collezione permanente, e oltre a dover essere individuate di volta in volta dal visitatore, danno al sensazione di perdersi in mezzo a quelle, di apparire semplici comprimarie.

Entrando negli aspetti interni della mostra, si nota come certe “sincronie” funzionino meglio di altre, abbiano cioè una maggiore coerenza.

Interessante l’accostamento con una veduta di Piazza Duomo di anonimo del XVII Secolo, con gli scatti delle periferie industriali di Dan Graham, realizzati a fine anni Sessanta. Una diversa concezione della centralità dei luoghi urbani, non più la piazza della cattedrale, ma le periferie dove si concentra la produzione, e quindi la ricchezza del capitale. Una riflessione, anche, su come sia cambiato il volto della città di Prato nell’ultimo mezzo secolo, con l’espansione verso l’esterno.

Suggestivo il “dialogo” fra le tele caravaggesche - fra cui il Noli me tangere di Battistello Caracciolo -, e uno scatto fotografico della performance Thomas Lips di Marina Abramovic, che ritrae il ventre del’artista con una stella a cinque punte incisa con una lametta. Differenti maniere d’intendere la mortificazione del corpo umano, e che, alla figura del Cristo, affianca il popolo jugoslavo vittima delle sofferenze inferte dal regime di Tito. E ancora, il “bello naturale” ideato da Bartolini, che ne fa uno dei padri della scultura romantica europea, offre un emozionante accostamento con i ritratti fotografici della serie Cremaster Suite di Matthew Barney, realizzati per il ciclo di cinque film The Cremaster Cycle, capisaldi della post-modernità, al pari dei romanzi di Don DeLillo.

L’espressività drammatica dei soggetti crea un suggestivo contrasto con la serena, solenne silenziosità delle opere di Bartolini; qui una società legata alla nobiltà terriera, di là le ambizioni e le sofferenze quotidiane vissute in città soffocate dal caos e dall’avidità.

Meno convincenti, invece, altre scelte curatoriali, come l’accostare il Concetto spaziale (1962) di Lucio Fontana, e la Vittoria di Samotracia di Yves Klein, alle tavole e ai polittici tardogotici e del primo Rinascimento, immaginando una reazione anti-iconica. In realtà, il paragone non sembra reggere, semplicemente perché, con il passare dei secoli, il concetto di icona ha cambiato completamente di significato, non prestandosi più a confronti del genere. Lo stesso vale per la presunta vicinanza delle riproduzioni della Gioconda di Warhol e Duchamp, con le pale d’altare del Cinquecento e del Seicento.

La sensazione è che, nonostante alcuni buoni momenti, la mostra non brilla per personalità propria, ma sembra illuminarsi grazie alla presenza di singoli pezzi, accanto alla collezione permanente. Sembra mancare quell’organicità che dovrebbe caratterizzare ogni manifestazione del genere, anche se Synchronicity ha comunque il pregio di suscitare curiosità in chi la visita, e quindi stimolare una certa curiosità per artisti e retroscena. In fondo, il ruolo di un museo, di una mostra, è anche questo, motivare il pubblico ad avvicinarsi alla cultura, a cercarla anche una volta essere usciti.

Niccolò Lucarelli

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