La Firenze che fu, nelle vedute ottocentesche di Fabio Borbottoni

120 vedute del pittore fiorentino rievocano Firenze prima dell’arrivo di Giuseppe Poggi. La bella esposizione è inserita nell’ambito del progetto “L’Ente Cassa per Firenze Capitale 1865-1870”, ed è visitabile nello spazio mostra di via Bufalini 6, fino al 5 aprile. Ingresso libero.

18 febbraio 2015 10:57
La Firenze che fu, nelle vedute ottocentesche di Fabio Borbottoni

FIRENZE - Poche cose resistono immutate allo scorrere del tempo, nell’aspetto se non anche nella sostanza, soprattutto in un’epoca come l’attuale, divorata dall’ansia febbrile della novità, della velocità, del cambiamento. Una città è lo specchio dell’umanità che la abita, il grande teatro della sua evoluzione sociale, e per questo è sismografo fedele degli accadimenti storici e dell’evolversi del gusto artistico e architettonico.

Ma la Toscana è conservatrice per definizione, e il suo animo parco e ombroso resiste incallito, almeno in buona parte, anche allo scorrere dei secoli, come testimonia Firenze, suo capoluogo e per breve periodo anche Capitale del Regno d’Italia. Cinque anni, dal 1865 al 1870, densi di avvenimenti storici che rivoluzionarono la Penisola, e relativamente più modeste vicende amministrative che cambiarono la Dominante, il cui volto giunse alla fine dell’Ottocento con profonde modifiche rispetto all’ultima età granducale. Di quella Firenze, ci è resa ancora oggi testimonianza dalle vedute di un artista ad oggi poco conosciuto, un pittore “per caso”, ma legato da profondo affetta alla propria città, tanto da ritrarla in ogni suo dettagli, quasi si trattasse di un’amante.

A questo misconosciuto artista gentiluomo, rende omaggio la mostra Firenze com’era, nei dipinti di Fabio Borbottoni, curata da Emanuele Barletti, e organizzata dall’Ente cassa di Risparmio in collaborazione con l’Istituto Geografico Militare.

Borbottoni (1820-1902) è, accennavamo di sopra, pittore “per caso”, che alterna la passione per l’arte all’impiego nelle Ferrovie dello Stato, e tuttavia possiede un discreto talento, coltivando il quale si avvicina alla tradizione della pittura storica locale, e incentrando la sua produzione sul vedutismo. Da qui nasce la suggestiva collezione di scorci della Vecchia Firenze, precedente all’imponente piano di modernizzazione urbanistica commissionato dalla città a Giuseppe Poggi, e imposto dalla nomina, giusto un secolo e mezzo fa, a Capitale del Regno, una nomina provvisoria che si lascerà dietro uno strascico di polemiche mai veramente sopite. A cominciare dall’abbattimento delle mura, quelle del terzo cerchio (il secondo dell’Età Comunale), progettate da Arnolfo di Cambio nel 1284, e demolite per lasciar spazio ai nuovi Viali.

Borbottoni ce le restituisce nella loro secolare bellezza - involucro di umili pietre e mattoni di quel prezioso scrigno che è Firenze -, che corrono fra campi fra l’Arno, il piano e i colli, a cingere una città che ancora a metà Ottocento sorge in mezzo alla campagna. Ritrovare oggi il percorso di quelle mura ormai scomparse, e osservare le porte imponenti isolate in mezzo al traffico urbano, difficilmente lascia immuni da qualche amarezza, per un equilibrio storico che è andato perduto, assieme all’atmosfera di un’epoca; i loggiati dove avvenivano le esecuzioni capitali ai lati di Porta alla Croce, gli oratori e i tabernacoli lungo i viottoli di campagna, gli antichi opifici sull’Arno, tutto è scomparso quando Poggi ricevé l’incarico di modernizzare Firenze. Ma Borbottoni ci restituisce quegli scorci con i loro silenzi d’altri tempi.

E dentro quelle mura viveva una città che non si è ancora scossa quell’aura medievale un po’ austera, e che in fondo è il carattere più vero della toscanità; su quelle strade e quelle piazze si affacciano palazzi dalla sobria, austera eleganza, fatti per un popolo che, anche quando si fa borghesia, lascia da parte l’inutile prosa e presta attenzione alla concretezza dell’esistenza quotidiana. In città si muove una composta folla di gentiluomini, gentildonne, bottegai, artigiani e piccoli commercianti, perfettamente a suo agio all’ombra di palazzi che hanno fatta la storia d’Europa, come le residenze nobiliari e le sedi delle antiche Corporazioni.

Nei suoi dipinti, eseguiti con l’attenzione affettuosa del dilettante di buon gusto, Borbottoni mantiene quelle mirabili proporzioni dell’architettura fiorentina, per la quale la città è a misura d’uomo, lontana dalla teatralità barocca di altre città italiane.

Cuore pulsante dell’antico centro, la zona del Ghetto ebraico e della Piazza del Mercato Vecchio, dove adesso sorge Piazza della Repubblica; un quartiere caratterizzato da un dedalo di strade e vicoli, minuscole botteghe, archi e tabernacoli; ma sotto quest’apparenza serena, a giudizio di tanti, non ultimo il giornalista de La Nazione Jarro, si celavano problemi di salubrità e ordine pubblico; le promiscue condizioni igienico-sanitarie favorivano il diffondersi di epidemie, mentre i vicoletti erano il rifugio preferito di ladri e borsaioli.

Così, dopo una lunga inchiesta pubblicata sul quotidiano che fu di Ricasoli, l’antico Ghetto venne abbattuto a furor di popolo, e una lapide retorica sull’arco di Piazza della Repubblica ne ricorda l’evento. Cosa si è salvato? La colonna dell’Abbondanza, in Piazza della Repubblica, nel punto dell’antica confluenza del Cardo e del Decumano (qui sorgeva infatti il Foro Romano), e la Loggia del Pesce, trasferita in Piazza dei Ciompi.

Borbottoni ci restituisce il ricordo variopinto, ma non retorico, di un quartiere della Firenze che fu, del quale oggi, forse, si disporrebbe in modo diverso, perché scrigno prezioso di pregevole architettura medievale, e simbolo dell’antichissima comunità ebraica che abitava in città.

E ancora l’Arno, le Stinche (oggi Teatro Verdi), il Duomo, le chiese e le piazze di quella che era stata fino a poco tempo prima la “Firenzina” granducale, una città a misura d’uomo, operosa e vivace, della quale Collodi ci ha lasciate argute e interessanti descrizioni, e che, partiti da poco i Lorena, si trovò ad ospitare i Savoia, forse non i più adatti per apprezzare una cultura profonda nei concetti ma parca nelle forme, e che aveva avuto nei Medici illuminati e accorti mecenati.

Borbottoni ce la restituisce nei suoi colori più sobri, quei toni ocra ora chiari ora scuri, cui si giustappone il verde dei colli (non ancora toccati dal Piazzale Michelangelo), delle persiane dei palazzi popolari, e della campagna fuoriporta. Una Firenze della memoria, che possiamo ammirare, per confronto con Borbottoni, anche nei 36 acquerelli di Emilio Biondi, così vividi nel loro realismo, da assomigliare a scatti fotografici degli Alinari.

Infine, per un confronto con la Firenze dei nostri giorni, Saverio di Meo ha realizzata una serie di fotografie sincretiche, sovrapponendo le vedute di Borbottoni a scene di vita contemporanea, ed ecco che Porta al Prato conserva ancora le sue mura, ma davanti le scorre un traffico incessante, oppure la parzialmente scomparsa Chiesa di San Pier Maggiore, torna a vivere in una piazzette affollata di turisti, auto in sosta, bar e ristoranti. Un interessante espediente artistico e della memoria, per provare a immaginare cosa sarebbe stata Firenze se avesse conservato quel suo patrimonio architettonico.

Tuttavia, riallacciandosi a quanto scritto all’inizio, Firenze è riuscita a conservare nei secoli la quasi totalità della sua bellezza, un tesoro che è compito delle generazioni future di preservare.

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