Ergastolo ostativo: che cosa succede adesso?

Ci sono rischi per la lotta alle mafie? Risponde Vincenzo Musacchio, criminologo forense e giurista

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
10 novembre 2022 10:49
Ergastolo ostativo: che cosa succede adesso?

Lo chiediamo a Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.

È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Esperto di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto europeo di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative in ambito europeo.

Dopo il decreto-legge approvato dal Governo Meloni, la Corte Costituzionale, in una sua nota, evidenzia che le nuove norme sull’ergastolo ostativo “incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici”. Restituisce quindi gli atti al giudice a quo. Sarà ora la Cassazione a decidere se sollevare una nuova questione di costituzionalità a seguito della recente normativa.

Professore che ne pensa della restituzione degli atti alla Cassazione, scelta “obbligata”, oppure, “evitabile”?

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Formalmente obbligata. Sostanzialmente penso che la Consulta avrebbe potuto attendere la conversione in legge del decreto evitando il possibile multiplo passaggio tra vari organi giurisdizionali che questa soluzione di fatto comporta.

La legge di conversione può sanare l’eventuale profilo d’incostituzionalità presente nel decreto legge?

Nel rispetto dei ruoli e delle prerogative di organi costituzionali quali sono la Consulta e il Parlamento credo sia possibile migliorare il decreto legge in fase di conversione evitando gli eventuali profili d’illegittimità costituzionale.

Dall’alto della sua esperienza lei crede che il decreto legge per la parte che riguarda l’ergastolo ostativo sia incostituzionale?

Questo lo dirà l’organo competente a emettere il relativo giudizio. Mi limito solo a rilevare che il decreto Meloni ha oltrepassato i rilievi d’incostituzionalità a suo tempo sollevati ammettendo la possibilità di benefici penitenziari anche senza collaborazione. Ricordo al lettore che recentemente la Suprema Corte intervenendo sui permessi premio, ha richiesto espressamente tra gli elementi essenziali non solo la mancanza dell'attualità dei collegamenti, ma anche il pericolo del loro ripristino, dando un giusto equilibrio alle esigenze di sicurezza sociale rispetto al principio di rieducazione della pena.

Simmetricamente penso che concedere la liberazione condizionale a un mafioso ergastolano senza l'assoluta garanzia della sua rottura con l'organizzazione criminale di cui ha fatto parte sia un gravissimo errore. Orbene, è vero che nell’ordinanza della Corte Costituzionale dell’11 maggio 2021 n. 97 sull’ergastolo ostativo l’art. 3 Cost. è associato dalla Corte all’art. 27, ma l’accostamento tra le due norme a mio parere vale solo per affermare il diritto dell’ergastolano mafioso, come di tutti i detenuti, al percorso rieducativo, non certo per porre le premesse dello smantellamento della legislazione antimafia in nome del principio di uguaglianza tra mafiosi e delinquenti comuni.

Secondo lei si apre una partita nuova sui requisiti richiesti nella recente legge per ottenere i benefici?

Per accedere ai benefici penitenziari, il detenuto mafioso deve dimostrare di avere interrotto i rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza. Questo è, e deve rimanere, un requisito insormontabile. Mi sembra che su questo la Corte Costituzionale sia stata molto chiara.

La collaborazione del mafioso con la giustizia, quindi, può o non può essere l’unico per ottenere permessi, soprattutto se uno ha scontato correttamente la pena e ha dato concreti segni di ravvedimento, e di effettiva rottura con il mondo mafioso?

È un problema oramai superato semplicemente perché nella nuova normativa non c'è la collaborazione ma, giustamente, il principio del ravvedimento, che si può dimostrare in molti modi: è su questo che i condannati saranno valutati, ed è giusto che i paletti restino molto rigorosi. Ricordo che parliamo di mafiosi e terroristi e non di delinquenti comuni.

Ci si confonde spesso in questo campo tra dissociazione e collaborazione ci spiega la differenza proprio riguardo all’ergastolo ostativo?

Con la “dissociazione” il mafioso confessa i propri delitti (non tutti e non sempre), ne prende le distanze, ma non indica i propri correi (magari, con la giustificazione che teme ritorsioni sui propri congiunti) e non consegna i beni illecitamente acquisiti, specie se nascosti all’estero o in paradisi fiscali. Un comportamento che per molti aspetti conviene al mafioso ma molto meno allo Stato. Come riconoscimento, al mafioso “dissociato” – per il solo fatto della dissociazione – si dovrebbe consentire di poter accedere ai benefici penitenziari? La “dissociazione” così intesa sopprimerebbe, di fatto, la legge sui collaboratori di giustizia.

Quale mafioso collaborerebbe più con lo Stato se è possibile ottenere i benefici penitenziari con la semplice dissociazione, per giunta conservando onore e potere economico essenziali per il ruolo di boss.Mediante la collaborazione con la giustizia il mafioso, a un certo punto del suo percorso criminale decide di sciogliere il vincolo che lo lega all’associazione criminale di cui fa parte e racconta i dettagli di quest’ultima agli inquirenti, consentendo in questo modo arresti e condanne, consegna i propri beni illegalmente detenuti.

In cambio sarà protetto dallo Stato e avrà degli sconti di pena.

Sul tema mi sembra si sia pronunciata giorni fa proprio la Cassazione o sbaglio?

Esatto. La Suprema Corte ha negato un permesso premio per Filippo Graviano, capo mafia del quartiere palermitano di Brancaccio, condannato all'ergastolo per le stragi di mafia del '92 e del '93 e per l'uccisione di don Pino Puglisi. Nello specifico, la Prima Sezione Penale della Cassazione ha stabilito che “il detenuto aveva sottoscritto una dichiarazione di dissociazione, cui non aveva fatto seguito una collaborazione con gli inquirenti”. "Aveva mantenuto i rapporti con i familiari, tra i quali vi erano anche soggetti pure coinvolti in logiche associative".

Questo scrive la Corte nel dispositivo che si riferisce all’udienza dello scorso 6 luglio. Gli ermellini hanno quindi ritenuto corretta l'ordinanza emessa dai giudici aquilani, con la quale il 9 febbraio 2022 era stata respinta la richiesta di permesso premio avanzata dal boss. Ad avviso della Cassazione, "l'istituto dei permessi premio costituisce elemento del trattamento penitenziario e quindi va riconosciuto previa valutazione dell'andamento complessivo del percorso riabilitativo e, dunque, se risulta, riguardo ai progressi compiuti e alle prospettive, idoneo a contribuire al conseguimento dell'obiettivo rieducativo".

Tuttavia, nel caso di Graviano, secondo la Corte, il Tribunale di sorveglianza "ha dato conto della valutazione negativa compiuta, giustificandola con motivazione in questa sede non censurabile". "La considerazione dei gravissimi reati commessi è stata unita al rilievo che non ne era seguita un’effettiva presa di distanza e anzi - ha scritto la Cassazione - erano stati mantenuti i contatti con i familiari pure già coinvolti nel medesimo contesto di criminalità organizzata".

"Dati che, letti alla luce della carente rivisitazione critica dei gravissimi reati commessi, non hanno consentito di valorizzare la pur regolare condotta carceraria e il percorso scolastico", termina il verdetto. Bisogna stare molto attenti nell’utilizzo e nell’applicazione dei concetti di “dissociazione” e “collaborazione con la giustizia”. Sono due istituti totalmente diversi e mai sovrapponibili.

Come giudica la paura di ritorsioni verso i familiari per chi decide di collaborare con la giustizia?

Legittima.

Quanta importanza attribuisce al ruolo dei collaboratori di giustizia nella lotta alle mafie?

Sono convinto che il loro adeguato utilizzo sia un’arma molto potente contro le mafie contemporanee. Occorre ovviamente una serie d’interventi per rinforzare tutta la normativa antimafia, penso alle confische, al 41-bis e al 416-bis, e renderla più adeguata per colpire il fenomeno mafioso e le sue recenti metamorfosi.

Lei da oltre trent’anni ha scelto la strada di parlare ai giovani e raccontare le mafie e gli uomini che hanno perso la loro vita o quella dei loro familiari per fronteggiarle, perché questa scelta?

Ho cominciato assieme al mio maestro Antonino Caponnetto. Con lui parlavo spesso del ruolo di una scuola che oltre a trasmettere conoscenza dovesse anche formare le coscienze. Per dirla in maniera più semplice: sfornare buoni studenti ma anche buoni cittadini. Parlare di antimafia, non è da tutti, la correttezza morale e l’assenza di fini di lucro credo siano la base per parlare agli studenti dando loro gli strumenti basilari per essere autonomi, consapevoli e liberi nelle loro scelte. Il perché credo sia insito nel senso del dovere morale che alberga in ognuno di noi. Abbiamo tutti un dovere da compiere in questa “nuova resistenza partigiana” contro le mafie. Il mio ho deciso di esercitarlo in questo modo.

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