La memoria di Caponnetto

Vincenzo Musacchio ricorda il giudice nell'anniversario della sua nascita

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
04 settembre 2022 21:08
La memoria di Caponnetto

di Vincenzo Musacchio

Criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies di Newark

Lo conobbi il 17 febbraio del 1995. Grazie all'intercessione di Maria Falcone, riuscii a contattarlo e portarlo a Termoli come relatore sul tema "La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive". I ricordi sono tanti poiché ho condiviso una parte della mia vita dedita all’antimafia con lui fino a pochi mesi prima della sua morte. Ricordo quando gli chiesi della famosa frase: “È finito tutto!” Mi disse che fu una frase di grande sconforto che però non durò tanto poiché, nonostante la sua età, raccolse il testimone dalle mani di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino dando coraggio e infondendo fiducia a tutti, in primis ai più giovani.

Mi raccontò come da siciliano allontanatosi dalla sua terra in tenera età, visse poi in Veneto e in Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent’anni a Pistoia e poi a Firenze fino alla sua morte. Seppi dalla sua voce il motivo della domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttore capo a Palermo, dopo l’assassinio di Rocco Chinnici. Si sentiva chiamato in causa da siciliano, da cittadino e da magistrato, voleva impegnarsi in prima persona per la sua terra.

Mi disse del suo arrivo a Palermo e della non buona accoglienza. Riteneva che vi fossero molti corrotti nei gangli vitali dello Stato. Nutriva dubbi anche nei confronti di persone operanti negli uffici giudiziari di Palermo. Secondo lui non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici, Falcone e Borsellino senza traditori dall’interno delle istituzioni. “Qualcuno ha tradito” mi disse più volte, ma non fece mai nomi. A dire il vero uno lo fece. Mi raccontò che quando sentì dalla televisione della morte di Falcone ed ebbe un forte mancamento tale da perdere i sensi.

“Mi sentii morire” le sue parole. Mi ripeté molte volte che per lui Giovanni e Paolo erano figli, parte della sua famiglia e degli affetti più cari. Delle tante cose che mi raccontò (molte non le ricordo) una mi rimase profondamente impressa nella mente. Mi raccontò che Borsellino sentiva di morire poiché dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino di Cosa Nostra. Alcuni giorni prima dell’attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era di telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento.

Mi ribadì con amarezza profonda che Borsellino aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante all’abitazione della madre. La domanda era inspiegabilmente rimasta inevasa. Di questo si rammaricava sempre. Era uno dei suoi tanti crucci. Un’altra ferita sanguinante fu la fine del pool antimafia. Chiese il trasferimento da Palermo perché era certo di lasciare il posto al suo candidato naturale Giovanni Falcone che era l’unico, per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedergli.

Il Csm bocciò Giovanni Falcone. Quando Antonino Meli occupò il suo posto, negli occhi di Falcone vide chiaramente delle lacrime, che poi lo stesso Falcone gli confessò dovute alla sua sensazione che l’esperienza meravigliosa del pool antimafia di Palermo fosse finita in quel preciso momento. Antonino Caponnetto morirà il 6 dicembre del 2002 senza conoscere la verità sull’uccisione dei suoi due figli palermitani. Mi piace ricordarlo oggi il giorno della sua nascita.

Approfondimenti
Notizie correlate
In evidenza