I giovani: anello debole della sicurezza sul lavoro
Una sintesi dell'indagine dell'IRPET

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
29 settembre 2006 13:58
I giovani: anello debole della sicurezza sul lavoro<BR>Una sintesi dell'indagine dell'IRPET

Da 79.574 del 2001 a 73.168 del 2005: così la tendenza degli infortuni sul lavoro in Toscana. Un calo progressivo degli incidenti, non legato ad un cambiamento nella cultura della sicurezza sul lavoro, soprattutto tra i giovani lavoratori; questo il punto di arrivo di un’indagine curata dall’Irpet, per conto della Direzione generale del Diritto alla salute e delle Politiche di solidarietà e dalla Direzione Regionale INAIL. Il gruppo di lavoro è stato coordinato da Francesca Giovani e composto da Giovanni Bernacca, Michele Beudò, Teresa Savino, Andrea Valzania.
“Salute e sicurezza sul lavoro in Toscana” -questo il titolo dell’indagine- è stata svolta per offrire una chiave di lettura del problema infortunistico in regione attraverso lo studio sul campo di alcune realtà produttive particolarmente significative, caratterizzate da un lato da un’elevata rischiosità e dall’altro dalla presenza rilevante di grandi o di piccole imprese: Prato (distretto industriale), Piombino (grande impresa siderurgica), Massa Carrara (cave di marmo).

Il campione è costituito da oltre 200 interviste. La scelta metodologica adottata nell’indagine è stata quella di considerare la percezione e la rappresentazione che il lavoratore ha dei rischi sul lavoro, per verificare se il Dlgs 626/94 (che si poneva come obiettivo quello di superare la cultura della fatalità, rendendo più consapevoli lavoratori e datori di lavoro dei reali pericoli presenti negli ambienti di lavoro) abbia effettivamente modificato i comportamenti, i valori e le culture delle persone.
L’analisi ha evidenziato, nell’ultimo periodo, la diminuzione costante del fenomeno infortunistico (Graf.

1), che pare però controbilanciata da eventi tragici, come le morti sul lavoro, che continuano ad essere numericamente rilevanti (una ogni 6 giorni è l’ultimo dato) e l’introduzione di nuove tipologie di rischio dovute alle trasformazioni che investono il mondo del lavoro, in particolare la flessibilizzazione e l’ingresso degli stranieri sul mercato occupazionale.

A dieci anni dalla Dlgs 626, che cosa succede a Prato?
Anche nel distretto industriale pratese il fenomeno infortunistico negli ultimi anni ha registrato un andamento decrescente a partire dalla fine del decennio scorso (da circa 5.000 nel 2001 a meno di 3.000 nel 2005).
Ovviamente, la specializzazione produttiva dell’area si riflette in modo significativo sugli infortuni: più di un terzo degli eventi lesivi della provincia accade nelle imprese tessili, con un’incidenza superiore a quella riscontrata a livello nazionale (oltre 30 infortuni ogni 1.000 addetti contro una media regionale di 25, e nazionale di 22).

E’ in particolare la microdimensione delle aziende che tende, in alcuni casi, a rendere ancora più difficoltosi eventuali cambiamenti organizzativi e culturali in grado di apportare un miglioramento delle condizioni di lavoro.
Ma al di là dell’informazione complessiva sul numero degli infortuni, come valutare le trasformazioni nel frattempo intervenute nell’insieme delle variabili culturali? Dieci anni dopo l’approvazione del Decreto 626, consumato il pur obbligato momento di rodaggio nella costruzione di un sistema aziendale e territoriale per la Sessl, a che punto ci troviamo?
La ricerca, al confronto con una precedente indagine effettuata nel 1999, mostra che, in generale, sembra esaurita la spinta innovativa del D.Lgs 626.

Tale norma aveva avuto, nel pratese, un impatto particolarmente positivo, grazie all’importanza data alla concertazione fra le parti sociali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, favorita da un clima particolarmente collaborativo nei rapporti tra associazioni imprenditoriali e sindacali.
Le interviste ai testimoni qualificati evidenziano, infatti, che la crisi attraversata dal settore tessile è stata dirompente soprattutto nel calo dell’attenzione intorno al tema sicurezza, che riguarda le aziende -alle prese con la questione della scelta di impiego delle risorse tra investimenti in sicurezza o contenimento delle passività-, ma anche tutti gli altri attori, dalle organizzazioni sindacali (che si trovano ad agire in una situazione in cui i licenziamenti e i fallimenti delle imprese sono numerosi), agli organi di controllo e vigilanza (che trovano un terreno non favorevole allo svolgimento dei propri compiti).

In questo contesto anche gli RLS (Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza) denunciano di sentirsi sempre più isolati, per una sorta di auto-contenimento delle richieste per la sicurezza da parte degli operai del tessile, presi dalla preoccupazione di mantenere il posto di lavoro.

I giovani: “anello debole”
Ulteriori fattori di debolezza riguardano la flessibilizzazione delle modalità contrattuali e la cultura della sicurezza delle giovani generazioni. Emergono, in particolare, la perdita di centralità dell’esperienza professionale rispetto agli altri ambiti di vita, l’impatto della precarietà contrattuale (il 35% dei giovani intervistati lavora con contratti a termine) e delle carriere.

Cambia, perciò, anche l'approccio alla salute e sicurezza sul lavoro. In particolare le nuove generazioni, non soltanto dell’area pratese, ma anche di Piombino e Massa Carrara (le altre due aree oggetto di indagine), sono risultate:
• più spavalde nei confronti dei rischi, che sono in generale meno temuti rispetto ai colleghi più anziani (63% degli adulti dichiara di aver paura di un incidente sul lavoro, contro il 42% dei più giovani);
• più fataliste nei confronti della possibilità di subire un incidente sul lavoro (ben il 54% dei giovani ritiene che gli infortuni possano dipendere dalla “fatalità”, contro il 46% degli adulti);
• e, quel che forse è più grave, sono meno d’accordo sul fatto che il rispetto delle procedure possa mettere al riparo dagli infortuni (solo il 50% dei giovani ritiene che si seguono scrupolosamente le norme non avvengono infortuni, contro la quasi totalità degli adulti).
Una possibile spiegazione di tali atteggiamenti chiama in causa il fatto che i lavoratori più giovani hanno meno esperienze formative all’attivo dei propri curricula (Graf.

2). La formazione, infatti, interviene più nelle fasi di specializzazione professionale o passaggio di qualifica che nel momento di ingresso in azienda. Questo porterebbe ad una consapevolezza del rischio meno organizzata, in cui si perdono anche i potenziali effetti positivi dei livelli di istruzione giovanili, comunque più elevati (tra gli intervistati il 79% degli adulti non ha alcun titolo di studio, contro il 62% dei giovani).
Dall'indagine risulta inoltre che le nuove generazioni, presumibilmente a causa della maggiore instabilità lavorativa, si sottopongono con minor frequenza a visite mediche periodiche (il 70% dei giovani, contro il 96% degli adulti), che sono oltretutto ritenute, dal 26% dei giovani, inutili (13% adulti).
Dunque più spavaldi, fatalisti, meno informati e consapevoli, i giovani intervistati hanno subito infortuni con frequenza addirittura superiore a quella dei lavoratori più anziani (il 23% dei giovani, contro il 21% degli adulti), pur avendo lavorato un numero di anni inferiore, ovvero avendo avuto minori probabilità di incorrere in eventi infortunistici.


Infine, alla domanda “le risulta che in azienda ci siano persone perseguitate e discriminate?” il 78% risponde negativamente, ma il 18% testimonia che ci sono stati alcuni episodi e un ulteriore 4% afferma che i casi sono “molti”.
Più precari e ricattabili, impreparati e meno sindacalizzati, sono i lavoratori giovani (31% rispetto al 12,5% degli adulti) a dichiarare il maggior numero di episodi di questo genere; infatti quelli che hanno affermato di ricordare “molti casi”, e la maggioranza di coloro che ha dichiarato che “ci sono stati alcuni casi”, hanno un’età inferiore ai 35 anni.

I lavoratori stranieri: un altro “anello debole”
La situazione già descritta pare ulteriormente aggravata dall’utilizzo sempre più diffuso di lavoratori stranieri in fabbrica - gli occupati stranieri a Prato sono più di 5.000, pari al 5% sul totale degli occupati (la media regionale è inferiore al 4%)-, che pone problemi formativi di tipo nuovo, per le difficoltà di linguaggio, per le diversità di approccio culturale e di sensibilità nei confronti del lavoro e dei suoi rischi.

Gli stranieri, infatti, operano spesso in condizioni di lavoro particolarmente rischiose dal punto di vista della salute e sicurezza, occupando le mansioni professionali più rischiose, caratterizzate da orari e turni particolarmente sfavorevoli. Gli ultimi dati disponibili del Rapporto regionale Inail evidenziano un aumento del 28% di incidenti sul lavoro da parte di extracomunitari (rispetto al calo generale degli infortuni del 10% nell’area); in ambito provinciale, gli infortuni degli immigrati rappresentano così il 13% dei casi (erano il 9% tre anni prima).

Oggi, però, i lavoratori di origine straniera, in particolare cinesi, non sono presenti nelle attività produttive di Prato solo con il ruolo di dipendenti, ma anche come protagonisti di autonomi progetti imprenditoriali, in particolare nel tessile-abbigliamento. Ma, come applicano le prescrizioni di legge queste aziende? La sensazione riscontrata tra gli intervistati è quella di non sapere cosa realmente accada nelle ditte di tali imprenditori, anche se si va allentando l’idea di un mondo cinese come “sommerso”.

Come afferma Deidda “… oggi assistiamo alla compresenza tra imprese che sono in ordine -come forse neppure qualche italiano fa- accanto a imprese dove perdura la promiscuità tra spazi di lavoro e spazi abitativi, capannoni dove si dorme e si cucina in mezzo ai solventi. Ma si fa un torto alla realtà se si ignora il percorso che la comunità cinese ha intrapreso dalla clandestinità sostanziale all’emersione”.
Quanto alla precarietà contrattuale, i lavoratori migranti appaiono tra quelli più in sofferenza, insieme ai giovani.

Su questi, in modo inaspettato, si concentrano critiche molto pesanti da parte dei colleghi autoctoni: “il livello della sicurezzaviene abbassato dagli stranieri, ci sono dei posti in cui assumono praticamente solo stranieri, a loro quasi non pare il vero di fare dodici ore al giorno, non hanno coscienza dei loro diritti. Stanno zitti, subiscono e basta”; “sono diversi da noi…” Sembra dunque che il distretto pratese, che storicamente ha garantito l’integrazione nel suo organismo sociale e produttivo della popolazione immigrata (soprattutto meridionale), in questa fase di crisi non riesca più ad essere aperto nei confronti degli immigrati.

In questo contesto, un serio impegno nella formazione linguistica, culturale e professionale, un prolungamento nei periodi di prova, una particolare attenzione all’inserimento e formazione, sembrano rappresentare misure necessarie per diminuire il livello dei rischi della popolazione straniera, e favorirne l’integrazione sul lavoro.
Non si tratta quindi soltanto di realizzare politiche adeguate. La sfida strategica consiste nel riuscire a predisporre percorsi educativi e formativi che aiutino i lavoratori (autoctoni e stranieri) a riconoscere e a saper affrontare la dimensione del rischio.

Una formazione che dovrebbe coinvolgere tutti i lavoratori, tipici ed atipici, e al tempo stesso essere specifica per comparti di lavoro e per mansione. Tali percorsi formativi è essenziale che inizino sin dall’infanzia, e proseguano nel corso della vita adulta, senza limitarsi alla prevenzione dei rischi professionali, ma estendendosi a tute le sfere della vita quotidiana in cui sono presenti rischi o pericoli.

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