Urbanistica a Firenze: la coscienza non critica più

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
12 marzo 2006 19:28
Urbanistica a Firenze: la coscienza non critica più

Non è esattamente come scrivono certi giornali, secondo cui nel centro storico di Firenze le piccole botteghe di fornai, macellai e ortolani si trasformano in boutique di borse, reggiseni e scarpe. Se fosse davvero così, si potrebbe concludere che queste sono le regole del gioco di una ristrutturazione economica della città che non guarda in faccia a nessuno. Chi avrebbe il coraggio di mettere in dubbio l'inesorabile processo di sviluppo?
La realtà è altra. Basta passeggiare per le vie che un tempo costituivano le direttrici commerciali periferia-centro (ad esempio via Romana, via San Gallo, via Guelfa, via Ghibellina, via della Colonna, via della Scala) per verificare che, al contrario, in gran parte della città vecchia, i negozi tradizionali si trasformano semplicemente in fondi abbandonati.
Se poi alziamo lo sguardo dal brulicare della strada constatiamo che le finestre delle case, spesso sull'intera facciata, sono chiuse, prive di vita, o distanti dalla loro originaria funzione abitativa.

L'atmosfera cittadina apparentemente allegra può avere risvolti inquietanti, e non certo a causa della microcrininalità fiorentina. Da oltre vent'anni la notte del centro storico si è spenta in nome della quiete e del riposo privato. Bar, ristoranti e vetrine luccicanti, quando scende l'oscurità, fanno alla svelta a cedere il passo a sensazioni ambivalenti.
Ciò che sorprende è l'indifferenza della città stessa rispetto alla propria trasformazione strutturale. Il territorio urbano cambia, non in senso evolutivo, ma perché venogno snaturate le sue funzioni.

Le case non sono più occupate da residenti (vecchi, o nuovi che siano), i negozi e i laboratori artigianali, nella migliore delle ipotesi, cambiano destinazione d'uso, oppure vengono semplicemente chiusi nella speranza di fruttare ai proprietari il colpaccio speculativo che le agenzie immobiliari promettono. E quell'obbligo morale che, per secoli, ha imposto alle élites fiorentine di reinvestire le proprie ricchezze in immobili che qualificassero permanentemente la città?
Che dire dell'ormai acquisita invisibilità della ricchezza.

I ceti emergenti non si rappresentano più socialmente, isolandosi materialmente dal contesto cittadino. Assodato che la nobiltà fiorentina non è più riconosciuta formalmente dalla Repubblica Italiana, è accettabile che chi può lasci il centro storico per prendere casa in ville, o villette sulle colline? Si genera così una progressiva separazione sociale della residenza urbana, non più soltanto tra edifici, vie, o quartieri. Ormai possiamo parlare di città a destinazione diversificata: il centro per gli anziani supertiti, i turisti e le residenze temporanee a canone speculativo; le periferie per la classe media, le colline per chi se lo può permettere, mentre poveri e giovani coppie (spesso coincidenti) vengono cacciati nei comuni limitrofi, se non in Mugello, o fuori provincia.
Si configura un'epocale fuga delle élites e non solo dal punto di vista residenziale, ma anche da quello culturale.

Pensate ai progetti immobiliari nella zona Nord della città, incarnato dai piani dell'amministrazione comunale. Apparentemente nelle ambizioni di Firenze 2010 riecheggiano i temi di crescita urbanistica nell'area Novoli-Peretola, proposti 40 anni fa all'epoca del P.R.G. firmato dall'architetto Detti. Ma siamo sicuri che stiamo parlando davvero della stessa idea di sviluppo? "Sviluppo" significa che il numero di case, di negozi, di attività economiche aumenta, che la loro qualità cresce, che la città si espande.

Con i progetti attuali sembra piuttosto che la città si sposti per la felicità dei proprietari delle aree baciate dalla sorte, "periferizzando" il centro storico.
Ad eccezione dell'Associazione per il Piano strategico, partecipata quasi esclusivamente da operatori dell'industria edile, declina il dibattito sull'uso della città. Sembra quasi che Firenze non sia più in grado di confrontarsi e discutere gli obiettivi urbanistici da perseguire nell'interesse generale. Tutto viene ammantato con l'aggettivo "nuovo", che di per sé non ha significato, potendo qualificare sia un successo che un fallimento.

Le operazioni immobiliari progettate, o in atto, assumono le sembianze neutrali di cantieri edili senza passione, sterili dal punto di vista collettivo, subiti nel disinteresse generale: un'indifferenza che contraddice persino il proverbiale disfattismo dei Fiorentini, che sconfinava spesso in battute intrise di cinismo. Basti pensare che, nel silenzio generale, si sta portando a conclusione, con il nuovo Tribunale, il più grande cantiere della storia della città. Proprio a fianco della nuova città universitaria, dove pochi si sentono in dovere di pronunciarsi sulla cosa pubblica, rifiutando ogni tradizionale responsabilità della cultura accademica.
Una cosa di questo genere, crediamo, sarebbe inimmaginabile in altre città toscane, dove avrebbe sollevato, con ogni probabilità, un acceso dibattito sulle decisioni degli amministratori.

Com'è possibile che a Firenze, capitale della cultura e ideatrice, secoli fa, della magnificenza civile, a due passi dal nucleo monumentale della città (dunque un luogo straordinariamente denso di storia ed esperienza architettonica) abbia trovato spazio tanta indifferenza? I giornali locali possono proclamare tutto e il suo contrario, ma non c'è dubbio che, negli ultimi 40 anni, la nostra sensibilità urbanistica si sia dimezzata di pari passo alla triplicazione dei valori immobiliari.

Nicola Novelli

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