Uri Caine e Dave Douglas: una storia americana

Il numeroso pubblico dell'Auditorium RAI affascinato dal jazz con incursioni folk del celebre duo americano.

26 aprile 2014 23:51
Uri Caine e Dave Douglas: una storia americana

TORINO - Il jazz è una forma d'arte, e come tale non può esimersi dall'accompagnare l'uomo nella sua quotidianità, proponendo letture e opinioni talvolta innovative, talvolta legate alla riscoperta del passato, attraverso un amarcord scevro di retorica, ma che invece ci spinge a riscoprire le radici di qualcosa. È accaduto ieri a Torino, in quello che è stato fra i concerti clou della terza edizione del jazz festival, quando sul palco dell'Auditorium RAI sono saliti Uri Caine e Dave Douglas, il pianista di Philalephia e il trombettista di Montclair, che costituiscono uno dei più raffinati sodalizi artistici del panorama musicale internazionale.

Il concerto torinese è stata l'anteprima assoluta in Italia per i brani di Present Joys, l'album del duo in corso di pubblicazione in tutto il mondo; una raccolta di vecchi standard americani del XIX Secolo, un'epoca, ricorda lo stesso Douglas, in cui gli Stati Uniti erano una realtà politica molto diversa, ancora nella fase embrionale, quando il meltin pot che li caratterizza si stava appena formando, e la mitica Frontiera Occidentale era un qualcosa di estremamente fluido. Da questo punto di vista, con la gobalizzazione che, nel bene e nel male, ha resi labili confini che resistevano da secoli, con un massiccio aumento dell'emigrazione, la situazione sembra essere tornata fluida come nell'America di Present Joys.

Un album che si presenta come l'elegia di un Paese ricco di contraddizioni, ma comunque grande nei suoi pregi come nei suoi difetti, un Paese nato come un esperimento della libertà, ma che in larga parte è nato sul lavoro degli schiavi o della manodopera operaia sottopagata, un Paese formatosi domando palmo a palmo la natura selvaggia delle praterie e delle grandi foreste, dei deserti e dei ghiacciai. La poetica e spendida esibizione di Caine e Douglas racconta, senza sentimentalismi, una storia di fatica quotidiana, ideali, tragedie, immancabili ingiustizie, e l'ottimismo di chi ha comuqneu davanti un Paese da costruire.

Un messaggio valido ancora oggi, con la recessione mondiale che si lascerà alle spalle un'umanità provata da anni di delusioni, e fortemente impoverita; sin da adesso serve quell'entusiasmo pionieristico per ricominciare, e il jazz, forma d'arte legata al sentire dell'uomo, ci lascia un messaggio d'incoraggiamento. Una storia di fatica e rinascita, magari portandosi dietro un senso di perdita che comunque fortifica l'animo; questo narrano il piano di Caine e la tromba di Douglas, vicini a certa narrativa di sostanza che scende nel cuore dell'uomo, fermando sulla carta stoire di ordinario eroismo quotidiano.

Raymond Carver ne è solo un esempio. Per questo motivo, il concerto non è stato una semplice riproposizione di standard, bensì una vera e propria riscrittura, che attualizza quella musica e la adegua al contesto moderno in cui viene eseguita.

Dalla voglia di scavare alle radici degli Stati Uniti d'America, scaturisce in apertura un jazz delicato - con Caine impegnato principalmente sulla parte destra della tastiera, e Douglas che lo segue sui toni gravi, solenni -, cui si alternano brevi passaggi pianistici cadenzati.

Un jazz atipico per la Costa Orientale, dalla quale provengono i due musicisti; le sonorità infatti suggeriscono i grandi spazi degli Stati Uniti centrali, praterie e montagne rocciose, ben più di quella dimensione urbana tipica dell'Est del Paese, ma pienamente in tono con gli standard tradizionali del primo Ottocento. Mano a mano che il concerto entra nel vivo, la tromba di Douglas sale e scende con agilità sul registro timbrico, amalgamandosi con grazia al suono sommesso del pianoforte di Caine, e costituendo un'armonia su due binari melodici, che ben presto divengono uno.

Un jazz sommesso, introspettivo, che invita alla reverie, alla riflessione, a perdersi in memorie lontane il cui inaspettato calore ha ancora il potere di sorprenderci. Ogni singolo brano è apparentabile alle raffinate tele di Charles Marion Russell, Carl Oscar Borg, o Thomas Moran, che nella seconda metà dell'Ottocento immortalarono il vasto e turbolento mondo della Frontiera, attraverso uno stile pittorico non privo di senso epico. Certi passaggi di Caine si avvicinano alle atmosfere della psichedelia britannica, pensiamo in particolare allo stile dell'indimenticabile Rick Wright dei Pink Floyd.

Il pubblico, estasiato, accorda applausi a ogni brano, apprezzando l'atteggiamento informale di Caine e Douglas, con quest'ultimo che improvvisa brevi siparietti.

Prima dei tre bis, chiesti con entusiasmo dal pubblico, il concerto si è chiuso con Devotion, brano aperto da un a solo di Douglas, ancora grave e solenne, cui poco dopo si affianca il delicato piano di Caine, per un'esecuzione che è una professione di fede, e d'amore, verso gli Stati Uniti, ma anche e soprattutto nei confronti del jazz.

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