Shalom in Ucraina: diario di un viaggio (ultima puntata)

Giunge al termine il racconto del Generale Zarcone che ha accompagnato l'estate del nostro giornale

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
19 settembre 2022 19:28
Shalom in Ucraina: diario di un viaggio (ultima puntata)

(Potrete trovare le altre puntate sempre nelle pagine del nostro quotidiano on line)

Al mattino del giorno 14, dopo aver approfittato ancora un’ultima volta dei dolcetti e delle marmellate fatte dalle suore, il dovuto ringraziamento a don Witold Burda per l’accoglienza e la perfetta organizzazione del viaggio.

Lo ricorderemo fremente nel tentativo (vano) di far rispettare i tempi dettati da un programma molto impegnativo, fatto di spostamenti ed incontri. Non sempre siamo stati diligenti e lui è stato capace di adattarsi e di trovare le soluzioni migliori per far fronte agli imprevisti. 

Dopo i saluti, poco dopo le 6 del mattino è iniziato il viaggio di rientro. I tre giorni precedenti, tra viaggio, visite, consegna materiali erano stati impegnativi per cui ci siamo presi il lusso, rispetto all’andata, di posticipare di un ora l’inizio del viaggio verso l’Italia. Questa volta la scelta del percorso è stata condizionata dall’intenzione di far visita al Santuario della Madonna Nera di Częstochowa, uno dei più importanti centri di culto cattolico della Polonia. 

Il viaggio verso l’Italia, attraverso la Polonia, Repubblica Ceca ed Austria è stato più lungo rispetto quello di andata ed in qualche modo è stato affrontato in modo diverso. Nel viaggio del giorno 11, oltre che essere animati dal desiderio di portare solidarietà ed un messaggio di fraternità, c’era l’entusiasmo, forse la curiosità di andare per conoscere la situazione reale del paese, senza la mediazione di terzi; soprattutto la volontà di incontrare le vittime e dare direttamente a coloro che ne avevano veramente bisogno gli aiuti che erano stati raccolti. 

Dopo l’esperienza vissuta, nel viaggio di rientro, alla voglia di tornare tra i propri cari, si è sommato l’orgoglio per aver fatto qualcosa di buono ed il desiderio di testimoniare fra amici e conoscenti le sofferenze di cui eravamo stati partecipi, con una certa dose di tristezza. Tristezza per quanto avevamo visto e sentito. 

Durante il viaggio, nelle soste, i nostri discorsi ovviamente sono stati l’occasione per condividere “insieme” il frutto dell’esperienza appena vissuta, fatta di forti emozioni ed anche di dubbi o preoccupazioni. Ognuno di noi ha vissuto qualcosa che l’ha colpito nel profondo, che ha provocato sensazioni ed anche qualche lacrima. I veterani di altre spedizioni umanitarie, come Alessio Spinelli e Stefano Soldani, hanno affrontato un’esperienza più completa rispetto alle precedenti, quando si erano fermati in Polonia.

Stavolta c’era stato il contatto con la realtà della guerra, seppur limitata ad un’area non direttamente coinvolta nei combattimenti tra gli opposti belligeranti. Chissà se Alessio, con i suoi gesti affettuosi verso le due bambine incontrate nel convento delle suore, avrà riversato lo stesso affetto paterno che giornalmente dona ai propri figli nella consapevolezza che quelle due creature il padre lontano, a combattere una guerra non voluta.Tra noi c’è chi ha ricordato, e ricorderà anche in futuro, lo sguardo degli anziani e dei malati che ci hanno accolto nelle loro “abitazioni” regalandoci un sorriso.

C’è chi, senza nascondere gli occhi lucidi, ha ricordato le lacrime provocate dall’incontro con i profughi davanti la chiesa di San Giovanni Paolo II. 

Tutti avevamo la consapevolezza di aver vissuto un’esperienza unica, importante, formativa. La guerra che ci accingevamo a raccontare, seppur poco distante dai confini italiani, era lontana dai nostri figli, dai nostri anziani, dalle nostre case, dal nostro benessere. Ci rendevamo conto di essere fortunati.Giunti a Padova, oramai all’approssimarsi del giorno seguente, abbiamo salutato la nostra giornalista. 

Per Romina Gobbo solo poche ore di riposo. Al mattino l’aspettava il convegno dedicato a Papa Giovanni Paolo I ed al suo legame con la montagna, di cui è organizzatrice. Al casello di Firenze Nord, alle primissime ore del mattino del giorno 15, lo scioglimento della nostra “compagnia”. Alessio Spinelli in direzione di Fucecchio, per riprendere il lavoro di Sindaco, ed i “ragazzi di Forcoli” verso casa, dove avrebbero riconsegnato gli autoveicoli presi in affitto. Per loro il lavoro non era ancora finito.A San Miniato il congedo da monsignor Migliavacca poi, per me la penultima fermata a Fucecchio. Salutato Don Andrea Cristiani, mentre Don Donato riprendeva la marcia verso Santa Croce, per me un ultimo tratto in macchina per rientrare a Firenze.

Eravamo partiti in dodici. Non tutti ci conoscevamo al momento dell’inizio di questo viaggio. Avevamo vissuto quattro giorni intensamente ed eravamo diventati amici, meglio “una famiglia cristiana”. Come hanno detto più volte Don Andrea Migliavacca e Don Andrea Cristiani nel corso degli incontri con le autorità religiose e civili, oltre che nel corso delle cerimonie liturgiche, siamo andati a portare un messaggio di pace. Lo scopo principale del viaggio di Shalom era quello di sostenere la popolazione ucraina colpita dal conflitto dal febbraio scorso e “porre un segno di riconciliazione e di pace attraverso l’incontro, il dialogo e la preghiera”. 

Una spedizione valida per “individuare un progetto di aiuto concreto per i bambini orfani di guerra, in grado di sostenere la loro crescita”. Invece, anche più di quanto fosse prevedibile, ho sentito da tanti, troppi, anche da chi non era atteso, parlare in termini di guerra. Di odio presente che si è andato ad aggiungere ai rancori passati. L’odio contro gli invasori si respira nell’aria così come l’avversione per Putin. Tutto è lasciato al linguaggio delle armi, fino all’estremo sacrificio, con la consapevolezza di dover sopportare ancora tanti lutti e sofferenze, pur di ricacciare e distruggere i russi. 

Lo stesso progetto “Unbroken” portato avanti dal sindaco di Leopoli è il segno che oramai tutti in Ucraina sono rassegnati ad una guerra destinata a protrarsi ancora per molto tempo. Gli ucraini fanno affidamento alle loro capacità di resilienza che ad oggi è stata in grado di vanificare il piano operativo russo. Tutti hanno coscienza che il sostegno delle nazioni occidentali e l’invio delle armi è fondamentale per la sopravvivenza del paese come Stato. C’è chi spera nell’implementazione delle misure militari, incluso il coinvolgimento diretto della NATO, senza considerare il pericolo di un’escalation che potrebbe avere terribili conseguenze. Speranza questa diffusa non solo tra gli ucraini ma anche da molti al di qua dello stesso confine, tra i popoli che più hanno sofferto per la crudeltà dell’Armata Rossa e del regime poliziesco imposto dall’Unione Sovietica. 

Purtroppo l’odio per gli invasori russi e l’aggravarsi della guerra con le sue atrocità si riflettono tragicamente su quella parte della popolazione di “cultura russa”. Il risentimento è talmente forte che le chiese ortodosse russe sono state chiuse perché gli ortodossi russi sono equiparati ai nemici russi. Eppure questi sono cittadini ucraini, molti dei quali senza particolari nostalgie o legami con la Grande madre Russia. 

Come ricordava Don Andrea Cristiani, il nazionalismo viscerale dovrebbe essere smorzato soprattutto dagli agenti istituzionali. Il rischio e che certi provvedimenti, ritenuti ingiusti e provocatori, possano spingere gli ortodossi russi a schierarsi dalla parte degli invasori ed alimentare un conflitto interno. Già i rapporti tra le varie chiese, in particolare tra quelle ad indirizzo più “nazionalista” erano tesi per problemi legati alla suddivisione delle proprietà per la restituzione dei beni religiosi dopo la fine del comunismo. La politica e la chiesa polacca stanno esercitando uno sforzo straordinario “per curare le ferite lancinanti del popolo invaso”. Altrettanto stanno facendo la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie. 

Quanto portato da Shalom rappresenta un sassolino di fronte a questa tragedia ma è stato importante per dimostrare solidarietà verso coloro che soffrono. Leopoli è una bella città. Vale la pena visitarla. Spero di poter ritornare a guerra conclusa, presto! La sirena d’allarme, il filmato mostrato dal sindaco, il funerale e la visita ai profughi mi hanno ricordato di essere in una nazione in guerra. Per il resto Leopoli non sembrava diversa da quella che avevo visitato pochi anni fa. La città è piena di gente, il traffico per le strade e sostenuto, i mercati funzionano, tutto sembra tranquillo, o meglio normale.

Anche le caserme piene di soldati alle prese della routine giornaliera danno l’idea della normalità. Una città diversa da altre città in guerra che ho potuto visitare nei Balcani come in Iraq. Diversamente da quelle città, qui i comandi militari sono in uso, così come sono efficienti le reti dei trasporti, logistiche e delle comunicazioni. Una “disattenzione” da parte degli invasori che dal punto di vista professionale ho fatto fatica a comprendere. Incapacità di pianificazione da parte dei militari russi o cosa? Mi è rimasta l’amara impressione di essere stato in un paese condannato ed ingannato; condannato a difendersi da un invasore e a combattere una guerra per la quale, come sottolineato dal Pontefice, ci sono molti responsabili; ingannato da chi ha interesse ad alimentare il mercato delle armi al costo del sacrificio di altri.

Gli ucraini sono vittime anche per questo. Vengono, a mio avviso, illusi circa possibilità di una loro totale vittoria e per questo sopportano enormi sacrifici.

Io penso che avere resistito sia già una grande vittoria. Non credo al ripristino dei confini ante 2014. Credo che anche il governo, che è tra i responsabili dell’illusione, sia condannato a combattere. Probabilmente non sopravviverebbe ad una scelta diversa. Il presidente Ucraino è molto più popolare oggi in Patria, e non solo, di quanto lo fosse a gennaio di quest’anno.Oggi non è possibile determinare quanto durerà questa guerra. Quello che è certo è che il mondo sarà molto diverso da quello conosciuto prima del giorno dell’invasione.

Ci stiamo avviando verso un mondo bilaterale tornato alla suddivisione tra i blocchi; molto simile a quello conosciuto prima della caduta della cortina di ferro, caratterizzato da una nuova corsa agli armamenti. Un nuovo bengodi per l’industria delle armi. E pensare che dopo il crollo del muro di Berlino avevo sperato che l’Europa si sarebbe avviata verso un lungo periodo di pace per realizzare finalmente quell’Europa delle Nazioni amiche auspicata da Mazzini. Credo invece che l’Europa uscirà sconfitta da questa guerra che non è stata in grado di evitare. 

Prima di partire Don Andrea Cristiani, fondatore del movimento Shalom, aveva spiegato così il senso dell’iniziativa: “Un viaggio nel paese aggredito allo scopo di sostenere la difficile vita della popolazione ucraina e soprattutto dei bimbi innocenti che pagano il prezzo più alto. Andiamo a costruire ponti e favorire incontri, vogliamo curare le ferite lancinanti di cuori straziati dalla morte, dall’odio, dalla paura e dalla distruzione. È un segno che vogliamo porre niente più di un segno.

Andiamo come degli sconfitti, inermi, fiduciosi solo nella razionalità dell’uomo e nella imprevedibilità di Dio che solo può sorprenderci agendo nell’intimo degli spiriti. Questa guerra, come tutte le guerre non avrà vincitori, ma solo sconfitti. È la madre di tutte le scelleratezze, infami interessi, disprezzo dei diritti umani, deliri di obsoleti imperialismi, balle a quintali. Siamo tutti esausti tranne coloro che ci guadagnano sopra, soprattutto con il grande business elle armi”. 

Un pensiero, quello del fondatore del Movimento Shalom che condivido in gran parte. Motivo per il quale ho accettato di organizzare la spedizione. Sono grato a Don Andrea per avermi dato l’opportunità di esserci. Così come sono grato a tutti gli altri compagni di viaggio per la bellissima esperienza umana. Sono fiducioso che prima o poi prevarrà la razionalità dell’uomo che, grazie all’imprevedibilità di Dio, porrà fine al linguaggio delle armi in favore di quello della diplomazia tanto auspicato da Papa Francesco. Però non mi sento uno sconfitto. Volevamo lanciare un segnale concreto e lo abbiamo fatto. Un messaggio di solidarietà che è stato compreso dai tanti che hanno contribuito alla raccolta dei fondi e degli aiuti umanitari così come da tutti quelli che ho incontrato dopo il mio rientro. In tanti mi hanno chiesto di raccontare così come molti sono quelli che mi hanno ringraziato per quanto eravamo riusciti a fare.

E questo mi ha fatto comprendere di essere stato dalla parte giusta.

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