Donizetti e l'Inghilterra

Alla vigilia del debutto del Roberto Devereux nell’ambito del LXXVII Maggio Musicale, il British Institute ha ospitato una conferenza, tenuta da Giovanni Vitali, sulle opere di ambiente britannico musicate da Gaetano Donizetti

14 maggio 2014 21:29
Donizetti e l'Inghilterra

FIRENZE - Negli anni Venti dell'Ottocento, gli anni della giovinezza di Donizetti, il fascino della Vecchia Albione si spandeva per l'Europa attraverso le opere di Byron, Coleridge, Shelley e Scott, che sovente toccavano argomenti dell'antica storia patria, com'era costume del primo Romanticismo. Non sono poche le opere del compositore bergamasco (29 novembre 1797 – 8 aprile 1848), che frequentano musicalmente episodi più o meno romanzati della storia inglese antica e moderna, che vagano fra le nebbie di epoche leggendarie, le alcove delle regine, e gli intrighi di corte. Un’epoca ormai tramontata, che però non manca di catturare l’interesse del pubblico, sia in letteratura, sia nel teatro.

Donizetti si avvicinò all’Inghilterra attraverso il libretto Andrea Leone Tottola Alfredo il Grande, che fu regnò sul paese dall'871 all'899. Le premesse potevano esserci, Tottola era infatti il librettista di Gioachino Rossini, Alfredo era interpretato dal tenore Andrea Nozzari, mentre il soprano Elisabetta Ferron indossava le vesti della regina Amalia; eppure, al Teatro San Carlo di Napoli il 2 luglio 1823, l’opera cadde, e impietosamente l’impresario la tolse dal cartellone.

Ancora a Napoli, questa volta al Teatro Nuovo, Donizetti ritentò l’avventura con l’Emilia di Liverpool, un’opera semiseria in due atti, composta da Gaetano Donizetti su libretto di autore anonimo. Era il 28 luglio 1824, e anche questa volta, l’opera venne accolta freddamente, uscendo dal cartellone dopo sole sette repliche, un numero che comunque, per le tempistiche dei cartelloni teatrali dei nostri giorni, appare di tutto rispetto. A detta della critica, l’insuccesso era attribuibile alla debolezza del libretto, poco vario nelle atmosfere delle scene, e che per questo obbligò Donizetti a raffazzonare i caratteri dei personaggi per far sì che il dramma si trascinasse meno stancamente.

Preso atto delle reazioni della critica, il compositore si avvicinò a vicende più complesse e a personaggi che avessero una maggior attrattiva per il pubblico. Ne trovò uno in Elisabetta I - la Sovrana sotto il regno della quale si formò l’Impero Britannico e il mito della sua invincibilità in mare -, musicando il libretto di Andrea Leone Tottola Elisabetta al castello di Kenilworth, tratto dal dramma in cinque atti di Walter Scott Amy Robsart e da Leicester, ou Le château de Kenilworth, opéra-comique di Eugène Scribe.

Non desti meraviglia nei lettori contemporanei, che i libretti delle opere non avessero niente di originale, ma pescassero idee da questo o quel lavoro di autore precedente; era una consuetudine molto diffusa, nell’ambiente operistico, che privilegiava la musica invece delle parole. La prima rappresentazione di Elisabetta al castello di Kenilworth ebbe luogo al Teatro San Carlo di Napoli il 6 luglio 1829, in occasione dei festeggiamenti per il compleanno della regina Maria Isabella di Borbone.

Protagonisti, il soprano Adelaide Tosi come Elisabetta, il tenore Giovanni David come Leicester, e il soprano Luigia Boccabadat come Amelia. Ne uscì un discreto successo, con dodici repliche.

Sin qui, alti e bassi che Donizetti coglie con le opere di ambiente anglosassone. Un salto di qualità lo si ebbe con Anna Bolena, prima opera della cosiddetta “Trilogia delle Regine Tudor”, che debuttò a Milano al Teatro Carcano il 26 dicembre 1830, inaugurando la stagione di Carnevale. Fu un grande successo, grazie anche alla resa drammatica del recitativo. Il librettista era Felice Romani, figura di riferimento nella prosa operistica dell’epoca, che avevo scritto anche per Rossini.

Il soggetto è tratto da diverse fonti letterarie: l’Anna Bolena di Alessandro Pepoli, l’Enrico VIII ossia Anna Bolena di Ippolito Pindemonte, che a sua volta costituisce poco più che una traduzione dell'Henri VIII di Marie-Joseph Chénier, fratello del più noto Andrea. A impersonare la regina, il soprano Giuditta Pasta, la rivale Giovanna Seymour era il mezzosoprano Elisa Orlandi, mentre il basso Filippo Galli era Enrico VIII. Stranamente, dopo il fortunato debutto, nel corso dei decenni l'opera uscì di repertorio, tanto che dal 1877 non fu più eseguita.

Tornerà trionfalmente alla Scala nel 1957, diretta da Gianandrea Gavazzeni, con Maria Callas nella parte della protagonista.

Il sodalizio con Romani si ripeté in occasione della Parisina d'Este tratta dalla Parisina di Byron, che debuttò al Teatro della Pergola di Firenze, il 17 marzo 1833, con il baritono Domenico Cossell nelle vesti di Azzo, il tenore Gilbert Duprez in quelle di Ugo, e la parte della protagonista riservata al soprano Carolina Ungher.

L’opera ottenne un grande successo di pubblico, mentre la critica non rimase appieno convinta dal potenziale delle arie di Donizetti. Il pubblico, infatti, si commosse per il dramma di Parisina, mentre i recensori tacciarono Donizetti di far “urlare” i propri interpreti, perché ancora in gran parte legati al cosiddetto bel canto della tradizione rossiniana, tutto grazie, cipria e merletti. Donizetti, invece, guarda a una musica ben più corposa e virile, che anticipa quella che sarà la cifra verdiana.

L’impresario fiorentino Lanari, da fine conoscitore del mondo del teatro, richiamò Donizetti l’anno successivo, per Rosmonda d'Inghilterra, ancora su libretto di Felice Romani, basato sulla leggenda di Rosamund Clifford, amante del Re Enrico II. Originariamente, Romani aveva scritto il libretto nel 1829 per l'opera Rosmunda del compositore Carlo Coccia, ma lo adattò anche per Donizetti, abbreviando l'introduzione, dilatando il ruolo di Arturo e rimaneggiando un terzetto.

Non fu un successo eclatante, tanto che dopo la prima fiorentina del 1834, l'opera venne ripresa solo a Livorno nel 1845 e poi completamente dimenticata.

Superata la delusione, Donizetti tornò al pianoforte per musicare il secondo capitolo della “Trilogia Tudor”, quella Maria Stuarda, su libretto di Giuseppe Bardari, che avrebbe debuttato alla Scala il 30 dicembre 1835. Originariamente, la prima si sarebbe dovuta tenere a Napoli, ma un’accesa lite fra le due prime donne, Giuseppina Ronzi de Begnis e Anna del Serre (nei ruoli di Maria ed Elisabetta), costrinse Donizetti a sospendere l’allestimento. Ci avrebbe riprovato a Milano, questa volta con Maria Malibran e Giacinta Tosi. Ma le avventure non finirono lì. Il recitato che era stato oggetto di discordia a Napoli, conteneva espressioni forti (che la del Serre interpretò come un’offesa personale), per cui la censura austriaca impose alla Malibran di cantare un testo diverso. La donna non si piegò, e dopo sei recite l’opera venne proibita e fu ripresa solo nel 1865.

Donizetti coglie il suo più grande successo “inglese” con Lucia di Lammermoor, su libretto di Salvadore Cammarano, tratto da La sposa di Lammermoor di Walter Scott. La prima assoluta si tenne al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835, e nei ruoli dei protagonisti figuravano Fanny Tacchinardi (Lucia), Gilbert Duprez (Edgardo) e Domenico Cosselli (Enrico). È la più famosa tra le opere serie di Donizetti. Oltre al duetto nel finale della prima parte, al vibrante sestetto Chi mi frena in tal momento? e alla celebre scena della pazzia di Lucia, la struggente cabaletta finale Tu che a Dio spiegasti l'ali è ancora oggi considerata una dei più bei pezzi d'opera tenorili.

Con Roberto Devereux si chiudono le frequentazioni donizettiane della storia inglese. Si tratta di un'opera in tre atti, ancora su libretto di Cammarano, tratto dalla tragedia di Jacques-François Ancelot, Elisabeth d'Angleterre, ed è il terzo capitolo della “Trilogia Tudor”. Debuttò a Napoli il 29 ottobre 1837. Gli interpreti principali furono Giuseppina Ronzi de Begnis nel ruolo di Elisabetta I, Paul Barroilhet in quello del Duca di Nottingham, e Almerida Granchi in quello di Sara, Duchessa di Nottingham.

Nel Roberto Devereux il linguaggio musicale del compositore bergamasco anticipa fortemente Giuseppe Verdi, che debutterà appena due anni dopo; c’è quindi, nella sua musica, l’attenzione a quello che è il nuovo sentire artistico di un’Italia che “freme”, reduce dai moti del ’21 e del ’31, e che prepara il ’48. Davanti al pubblico partenopeo, Donizetti ottenne un successo di stima, mentre alla Scala le repliche furono ben trentotto, e ciò dà la misura di come i gusti dei melomani italiani si andassero diversificando, con il Sud legato al bel canto, e il Nord più attento alle sortite contemporanee.

Adesso, l’attesa è per il debutto di domani sera, alla nuova Opera di Firenze.

Nella foto, Donizetti ritratto da Giuseppe Rillosi.

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