Trionfo del vernacolo al teatro Rifredi con Giovanni Nannini.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
06 aprile 2002 00:24
Trionfo del vernacolo al teatro Rifredi con Giovanni Nannini.

Che nostalgia vedere in scena la verve di Giovanni Nannini, nello spettacolo "Il mestiere di ridere" al teatro Rifredi fino a domenica 7 aprile e da giovedì 11 a domenica 14 aprile, con testi di Vinicio Gioli e regia di Gabriella Nannini, musiche di Alessandro Giandonato eseguite dal vivo da Marco Catarsi.
Nostalgia per una comicità che ormai va scomparendo, fatta di battute fulminanti in vernacolo e gusto gratuito della beffa che provocano sane ed irrefrenabili risate. Giovanni Nannini è un maestro degli sberleffi improvvisati: attore simbolo della scena del vernacolo fiorentino, dotato di un senso non comune dell'osservazione psicologica e di una straordinaria mimica espressiva, ha dato vita ad uno sconfinato numero di personaggi che costituiscono un prezioso campionario umano della Toscana dagli anni precedenti la Liberazione fino ai giorni d'oggi.

In teatro ha lavorato con “mostri sacri” come Cesarina Cecconi, Sara Ferrati, Wanda Pasquini, Renzo Biagiotti, portando al successo classici come “Il gatto in cantina”, “L'acqua cheta”, “Le ciane di Firenze”, “Casa nova vita nova” e, di produzione più recente, “Il coraggio di vivere”, sempre di Vinicio Gioli. Lo spettacolo che lo vede protagonista al teatro Rifredi ripropone una carrellata dei personaggi migliori nella classica ambientazione del teatro del vernacolo: le osterie, le fiaschetterie, i casini, i palchi dei teatri dove l'avanspettacolo si contendenva la scena con i primi cinematografi.

E così vengono in mente le battute e gli sberleffi profferiti da qualche anziano in qualche casa del popolo o dal "trippaio" mentre ti prepara un panino con il lampredotto.
La scuola comica toscana.
Anche se il teatro in vernacolo va scomparendo Giovanni Nannini può ben dirsi l'antesignano dell'attuale comicità toscana che in questo momento sta riscuotendo un notevole successo con i vari Panariello, Pieraccioni, Ceccherini, Paci, senza considerare il mostro sacro Benigni. Anzi proprio su questa comicità è interessante segnalare il libro uscito l'anno scorso “Ahi ahi, i figliol di troia non muoian mai”‚ con l’eloquente sottotitolo “La grande scuola dei comici toscani”.

Si tratta della prima antologia del genere. Un volume, edito da Zelig, ampiamente corredato da una scelta dei migliori pezzi, battute, testimonianze inedite e non, che offre l’occasione al lettore di ripercorrere il tragitto di questa inarrestabile escalation ludica. L’umorismo toscano trova le sue radici nelle battute che venivano proferite nelle botteghe d’un tempo che fu. Erano dette da personaggi caratteristici, che i fiorentini chiamavano sagome, degni di figurare nei testi di Vasco Pratolini, nel teatro di Augusto Novelli, nelle canzoni di Odoardo Spadaro.

Una comicità, quella nostra, sempre in bilico fra zingarate e atmosfere stralunate, fra espressioni da bar e battute geniali, dove c’è la gratuità del gesto compiuto soltanto per il gusto di farlo, senza che porti da nessuna parte, se non ad una fragorosa risata. Situazioni e personaggi che si ritrovano poi nel teatro vernacolare. Palcoscenici più o meno improvvisati, o sale dei dopolavori capaci però magicamente di riempirsi in tante domeniche (e non solo) degli anni ‘60 e ‘70. Il pubblico, che oltre a quella familiare aveva una forte componente piccolo-borghese, dopo dure giornate di lavoro andava a sfogarsi in un teatro nel quale talvolta abbondavano sberleffi e parolacce.

Quello del vernacolo era un teatro particolare. Sul palco convivevano talenti, guitti, dopolavoristi, casalinghe-attrici, vecchie promesse. La regia era pressoché assente. Come nelle antiche compagnie era il capocomico che curava tutto... e il risultato artistico era, giocoforza, alquanto modesto, tanto che molte volte la stessa stampa locale evitava di inviare il proprio redattore. Ciò che entusiasmava il pubblico era la prova d’attore delle varie Cesarina Cecconi, Wanda Pasquini, Dory Cei, Giovanni Nannini, i Niccoli (Andrea, Raffaello, Garibalda), Ghigo Masino e Tina Vinci, Raffaello Certini, Mario Marotta, Ughino Benci.

E del resto a ben vedere i comici di adesso non fanno altro che riprendere i canoni tipici del vernacolo, avendo l’accortezza, questo sì, e la capacità di aggiungere satira politica e sociale, senso critico e riferimenti più o meno eruditi. Quell’erudizione che sta alla base della componente più nobile della nostra comicità e che fa da contraltare al vernacolo “antenato plebeo‚” quello per intendersi che ha in Paolo Poli l’antesignano più illustre. (RO)

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