Anna Meacci al Teatro di Rifredi: memorie per gli smemorati

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
08 novembre 2000 09:05
Anna Meacci al Teatro di Rifredi: memorie per gli smemorati

Gli smemorati siamo noi, le memorie sono quelle di “Bignami” che Anna Meacci porta in scena sino a sabato prossimo al Teatro di Rifredi.
Il ministero della confessione/assoluzione, che sta alla base della nostra cultura, ha sempre reso facili le cose a colpevoli e peccatori, innalzando fino a ruolo istituzionale il comodo “pentimento”. Al contrario, per gli Italiani è più difficile l’autocritica sulle proprie dimenticanze e omissioni. Si prova nell’esercizio elementare e titanico della Memoria Anna Meacci, figlia di una generazione che, si dice, non ha vissuto nulla del secolo breve perché giunta in ritardo.

E sul filo dei ricordi personali, la Meaccina di Sinalunga scopre che persino nel suo piccolo paese di cose terribili, sia pur già dimenticate, ne sono successe tante. Perché non si capisce il dopoguerra se non si ricordano le manganellate e l’olio di ricino del regime fascista, le lacrime e il sangue della guerra, e la mancata epurazione e il revisionismo del dopo. E anche a Sinalunga si scopre che le lotte sindacali sono state sono state pagate a costo di rinunce e privazioni personali, che l’intreccio tra politica, affari, massoneria, Chiesa, era diffuso anche in periferia.

E che anche in provincia ci si poteva imbattere nel rappresentante locale di Gladio, l’esercito segreto anticomunista e bombarolo.
Ma ciclicamente torna l’oblio, l’invito a scordare il passato, la volontà d’imporre una pacificazione che mette sullo stesso piano vittime e colpevoli. E poi com’è facile dimenticarci di noi stessi davanti alla TV? Ecco, il lavoro della Meacci, nella sua immediatezza, un po’ cabaret, un po’ televisiva, incarna però l’essenza del teatro, che è appunto l’esecizio del sacro rito della memoria collettiva, medicina del cuore e della mente.

E, anche se l’incipit potrà sembrare brusco, l’idea di raccontare il tentato colpo di stato del 1970 con le parole di una fiaba infantile, popolata di principi neri e principi (partigiani) rossi, sfodera una soprendente poetica, degna della metafora epica dei Taviani in ”La notte di San Lorenzo”.

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