I misteri del peposo all’imprunetina

Il disciplinare della ricetta contiene qualche errore. Dovrebbe essere riscritto, secondo l'esperto Paolo Pellegrini

Nicola
Nicola Novelli
20 novembre 2022 11:47
I misteri del peposo all’imprunetina
Fotografie di Elena Ciravolo

IMPRUNETA- Il Peposo, tipico piatto imprunetino, è il protagonista di un fine settimana all’insegna del buon mangiare. Ieri sera è stata addirittura organizzata una conferenza tematica al Museo della Festa dell’Uva in P.zza Buondelmonti. Del Peposo secondo la storia e la tradizione hanno discusso il giornalista enogastronomico Leonardo Romanelli, e l’accademico italiano della cucina Paolo Pellegrini.

Fotografie di Elena Ciravolo

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“E’ frequente imbattersi in ristoranti che propongono nel menù piatti dichiarati Peposo, ma la cui ricetta rinnega la tradizione -ha spiegato Romanelli- Ciò non sorprende: in generale la fedeltà in cucina è poco praticata, come è rara la ricostruzione storico-scientifica delle origini di un piatto. Spesso si diffondono dicerie e leggende anche sul conto di classici gastronomici, come l’Arista”.

Per la sua preparazione si dovrebbero utilizzare esclusivamente carne di manzo, preferibilmente tagli di muscolo, o guancia, pepe in grani, aglio, vino abbondante e sale.

“Non c’è soffritto, perché veniva cotto in forno, mentre rimane incerto l’utilizzo di spezie, che per un piatto popolare nel medioevo, dovevano risultare poco accessibili” riflette il giornalista gastronomo.

Il “peposo alla fornacina" viene infatti fatto risalire almeno all'epoca di Messer Filippo Brunelleschi, che durante la costruzione della cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore testimonia il largo uso della pietanza da parte dei fornacini addetti alla cottura dei mattoni.

“Ma il rispetto della tradizione contrasta con la moda di portare in tavola piatti di bell’aspetto. Si diffonde l’uso del pomodoro, che all’epoca era sconosciuto in Europa -mette in guardia Romanelli- oggi si guarda troppo alla forma e poco alla sostanza. Invece è il momento di rivalutare la tradizione anche perché legata indissolubilmente a questo territorio”.

La denominazione del "peposo all'imprunetina", dovrebbe essere garantita da un marchio depositato all'Ufficio Brevetti della Camera di Commercio di Firenze.

“Ma la sua attenta lettura riserva una sorpresa -rivela Paolo Pellegrini- il disciplinare di produzione consente la facoltà di utilizzare, o meno, aglio e pomodoro. Nel primo caso un errore la rinuncia, nel secondo il falso storico il suo impiego. E attenzione non stiamo parlando di un miglioramento qualitativo degli ingredienti della ricetta, ma della sua sostanziale alterazione”.

“Infatti -conferma Romanelli- non si tratta di elevare la qualità del prodotto, come può spesso accadere grazie ai progressi tecnologici della moderna agricoltura. Semplicemente non sono necessarie aggiunte di ingredienti per rendere buona la ricetta. Sempre che la si sappia eseguire correttamente. Preciso: un conto è integrare con odori, o pepe in polvere, in aggiunta a quello in grani, altro è introdurre elementi incoerenti che trasformano il piatto in una cosa differente”.

Qualunque preparazione in ambito domestico o di ristorazione, che voglia denominarsi "peposo", non deve prescindere dal rispetto delle sue caratteristiche fondamentali, quali l'uso del pepe in grani, l'aglio, il vino rosso, la lunga cottura. Il pomodoro deve comunque essere evitato.

“Ma certo -ribadisce Pellegrini- libertà eventualmente nella scelta del taglio di carne, che comunque dovrebbe contenere nervo e collagene, necessario quando il prodotto si sarà ammorbidito in cottura, che nella tradizione avveniva in forno a fianco dei mattoni della cupola del Duomo. E’ immaginabile che se il cibo veniva consumato sul cantiere, durante una pausa di lavoro, non potevano essere utilizzati piatti e probabilmente la carne veniva spalmata su ampie fette di pane”.

Il piatto nasce nei forni dell'Impruneta, dove venivano prodotti giare, orci, anfore e tegole di terracotta. l fornacini usavano cuocere la carne in contenitori di coccio, posti all'imboccatura del forno, mentre preparavano i mattoni. Per coprire l'odore di una materia prima di seconda scelta, veniva aggiunta una dose generosa di vino rosso e di pepe in grani. La lunga cottura avrebbe ammorbidito anche la carne più coriacea.

“Ma la ricetta in umido non cambia sapore a seconda del contenitore di cottura -ammette Romanelli- Il coccio è un elemento simbolico legato al territorio e potrebbe avere un grande valore per imporre il rispetto della ricetta anche al di fuori della Toscana, dove è ben conosciuta. L’oggetto potrebbe legarsi indissolubilmente agli ingredienti”.

“Come anche l’uso degli ottimi vini locali -aggiunge Pellegrini- a base di Sangiovese, preferibilmente Riserva per reggere meglio la lunga cottura”.

“Anche se non disdegnerei l’impiego del Nebiolo d’Alba, volendo sperimentare qualche variante, dato che ci sono somiglianze con un piatto come il Brasato piemontese, anch’esso piatto di carne dalla lunga cottura” conclude Romanelli.

Fotografie di Elena Ciravolo

Ieri sera, al termine dell’incontro pubblico i partecipanti si sono trasferiti sotto i Loggiati del Pellegrino per una cena tematica. Oggi pomeriggio invece largo alla sfida del Peposo tra i quattro Rioni di Impruneta.

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