Con struggente poesia, Leo Gullotta porta in scena la magia della parola

Nel decennale della scomparsa di Giuseppe Patroni Griffi, il teatro riscopre "Prima del silenzio", uno dei suoi testi più drammaticamente attuali. Calorosi, meritati applausi per Leo Gullotta in stato di grazia. Al Manzoni di Pistoia fino al 25 febbraio.

24 gennaio 2015 11:53
Con struggente poesia, Leo Gullotta porta in scena la magia della parola

PISTOIA - «Per favore, un po’ di silenzio». Lo invoca a nome di un’intera generazione - riecheggiando il mondano abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart (1716 - 1786) e il suo L’arte di tacere -, quel ragazzo che la fugace e ambigua amicizia con il poeta lascia preda di dubbi e frustrazioni, incapace di comprendere il valore della parola quale testimonianza di libertà individuale.

Prima del silenzio, profondo, tenero, drammatico, ironico, testo di Giuseppe Patroni Griffi, venne scritto nel 1979, ma non ha perso un grammo della sua freschezza e attualità, per quel suo indagare i difficili rapporti intergenerazionali nell’Italia di trentacinque anni fa (e che nel frattempo è andata solo peggiorando), e la difficoltà per il mondo della cultura, di farsi accettare in una società sempre più smarrita, relativista e materialista, distanze che emergeranno attraverso dialoghi che sono disperati tentativi di recuperare un qualcosa che si è spento.

La scena si apre con una gita in barca del poeta (Leo Gullotta) e del ragazzo (Eugenio Franceschini), in mare aperto (suggerito da una suggestiva scenografia digitale), un mare che è anche e soprattutto luogo di fuga mentale per il vecchio poeta - stanco di una moglie avida e di un figlio prigioniero delle convenzioni piccolo borghesi -, e luogo di scoperta per il ragazzo, dove però si avvertono le ormai insanabili distanze fra vecchia e nuova generazione. L’uomo parla al ragazzo della cultura com’era intesa ai suoi tempi, ovvero un qualcosa di profondo, che aveva a che fare con il buon gusto, la riflessione, l’eleganza, il coraggio delle proprie idee, ma sempre tenendo presente il rispetto per quelle altrui.

E cita Thomas Stearns Eliot, Dylan Thomas, Gary Cooper, Marlene Dietrich, Marion Davies, Ernst Lubistch e Josef von Sternberg, uomini e donne che hanno saputo parlare al mondo, inondandolo di gesti e parole che hanno lasciato il segno (almeno secondo il poeta). Una conversazione che regala graditi momenti di puro humour inglese (con un’atmosfera che ricorda Tre uomini in barca di Jerome Klapka Jerome), ma che il giovane apprezza soltanto a metà, imbevuto com’è di quel relativismo che dal ’68 in avanti ha minate le basi della società europea.

Una pièce sul rapporto fra generazioni che prende a modello il Fedro, il dialogo platonico sull'uso e il valore della retorica in connessione con l'educazione e la filosofia, che ha per protagonisti Socrate e, appunto, Fedro; anche nel testo di Patroni Griffi il rapporto fra l’uomo maturo e il giovane si fa di volta in volta quello di padre-figlio, maestro-discepolo, fratello maggiore-fratello minore, un’amicizia velata d’ambiguità, dove il sesso è tema ricorrente, ovviamente inteso in modo diametralmente opposto; atto personale, o atto di condivisione.

A interrompere di quando in quando il volontario “esilio” del poeta, l’apparizione (grazie ancora una volta alla scenografia digitale), della moglie, del figlio e del cameriere di casa, figure oppressive a modo loro: la moglie per il suo arrivismo, il figlio con la sua ipocrisia piccolo-borghese, il cameriere con il suo oppressivo senso dovere inteso a espiare colpe mai commesse.

Lo scontro generazionale assume un carattere quasi guareschiano, per quella contrapposizione fra “cuore” e “cervello” che così drammaticamente separa padri e figli. Nella concezione del poeta, la parola è quanto di più meraviglioso possa essere dato all’uomo per descrivere sé stesso, le sue idee, sensazioni, emozioni, comunicarle agli altri e in tal modo essere vicino agli altri; come accennavamo ieri a proposito de Il cappotto, la cultura è “questione di cuore”, nel senso che deve essere strumento di comprensione dell’altro.

Invece, la cervellotica generazione dei giovani, cresciuta sull’onda di un freddo relativismo, e dell’idea di spazzare via il passato, non riesce a ricostruire quel senso di vicinanza che stava alla base dei rapporti umani, trovandosi quindi spaesata in un mondo che d’improvviso è troppo grande, anche solo da guardare. Figuriamoci da descrivere. Il silenzio, quindi, non è più fuga onirica come ai tempi di Toussaint Dinouart, bensì l’estrema ratio di chi ha non ha punti di riferimento, e trova le parole dei padri troppo profonde, ridondanti, persino, inadatte a descrivere un mondo che ai giovani di ieri (ma anche di oggi), appare di cenere, freddo e vuoto.

Per merito di una semplice ma suggestiva scenografia, che fa largo uso del digitale, lo spettacolo si svolge per buona parte sotto una luce vagamente lunare, a suggerire l’ancestrale bisogno dell’uomo di guardarsi dentro, e insieme di aprirsi agli altri, non necessariamente visti come antagonisti o nemici. Un’idea che invece accompagna il ragazzo, ormai cresciuto in una società individualista, dove i rapporti sono soltanto occasionali, fugaci, revi incontri prima di riprendere il cammino.

E tuttavia il poeta, in un intenso finale che lo vede di nuovo solo ma non chiuso alla speranza, grida al mondo il potere della parola come strumento di sopravvivenza, libertà, e fratellanza, prima che sopraggiunga la tenebra eterna, ovvero il silenzio.

Nelle vesti del protagonista, Leo Gullotta dà vita con bravura a un personaggio complesso, dolcemente idealista e coerente nel suo pensiero. Un’interpretazione che nasce dal cuore, dalla sua intellettualità napoletana, che, riecheggiando De Crescenzo, guarda alla vita con profondo amore, e alterna toni ora spensierati ora drammatici, nel tentativo a tratti disperato di far capire al giovane amico la bellezza del suo mondo fatto di parole, che a loro volta racchiudono colori, sogni, sensazioni e gioie.

Parole che suonano false all’altrettanto bravo Eugenio Franceschini, che cresce alla distanza dopo un avvio un po’ freddo, e porta sul palcoscenico le frustrazioni degli italiani degli ultimi quaranta anni. È infatti ancora di scottante attualità il disagio delle giovani generazioni, prive di calore affettivo in famiglie sempre più allo sbando, prive di una solida educazione in scuole sempre più burocratiche, prive, insomma, di quegli strumenti utili a capire e a vivere la realtà circostante.

Completano la pièce le buone prove di Paola Gassman nel ruolo della moglie, e di Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano, rispettivamente il cameriere e il figlio.

Alla chiusura del sipario, meritati applausi per uno spettacolo profondamente attuale, che apre squarci di riflessione sull’inarrestabile deriva del Paese.

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