Cento anni fa la Grande Guerra. La Brigata Sassari, baluardo ad Asiago nel 1916

A seguito della Strafexpedition austriaca, l’Esercito Italiano rischiò l’accerchiamento e la probabile disfatta. Ma l’eroico sforzo, in particolare della Brigata Sassari, scongiurò la caduta dell’Altopiano di Asiago. Con la popolazione in fuga dai villaggi a rischio invasione, nacque una solidarietà che rafforzò l’unione fra Esercito e popolo italiano.

12 agosto 2015 10:35
Cento anni fa la Grande Guerra. La Brigata Sassari, baluardo ad Asiago nel 1916
Brigata Sassari: fanti del 151° con il Tenente Alfredo Graziani

ROMA - In quel lontano 1915, l’Unità d’Italia non era ancora pienamente compiuta, sia da un punto di vista geografico, sia da un punto di vista più strettamente sociale. La geografia nazionale mancava ancora di quelle terre irredente - il Trentino e il Friuli -, che erano state il principale argomento utilizzato dalla corrente interventista per spingere il riluttante governo di Roma a prendere parte al conflitto, dichiarando guerra all’Impero Austro-ungarico, cosa che puntualmente si concretizzò in quell’ormai storico 24 maggio di cento anni orsono.

Pur sognando la conquista dei suoi confini più settentrionali, l’Italia mancava ancora di un compiuto amalgama fra le popolazioni delle varie aree, non soltanto fra il Nord e il Sud, ma anche in riferimento alle isole. All’epoca, le comunicazioni e gli spostamenti erano molto più sporadici e difficili di quanto non lo siano con la tecnologia moderna, per questo le aree montane, e le isole, appunto, restavano zone inaccessibili, a loro modo lontane dalle vicende del resto del Paese. Se, ad esempio, un napoletano o un aquilano avevano poche possibilità di recarsi a Roma o Milano, ancora meno ne aveva un abitante della Sila, della Gallura, o anche di Palermo e Catania.

Questa difficoltà di spostamento rendeva oggettivamente difficile conoscere e capire il Paese, e familiarizzare fra italiani delle Alpi e degli Appennini, così come comprendere i rispettivi caratteri e problematiche. Si deve poi tener conto di una non compiuta inclusione delle masse contadine e operaie nella vita sociale e politica del Paese, masse dalle quali gli Alti Comandi attingevano la quasi totalità delle truppe, in particolare della Fanteria.

L’Italia che entrava in guerra nel maggio del ‘15, stentava a trovare un suo compiuto amalgama sociale, che fece sentire i suoi effetti anche al fronte. Se gli Alpini di Valstagna, di Bassano, dell’Edolo, avevano familiarità con i luoghi interessati dai combattimenti, lo stesso non si poteva dire per i Fanti calabresi, campani, sardi o siciliani, la quasi totalità dei quali vedeva quelle montagne per la prima volta nella loro vita, e stentavano a comprendere le ragioni profonde di un loro impiego proprio in quelle zone. Con questo, la truppa combatteva ugualmente con onore, andando all’assalto con un coraggio ammirato dagli stessi austriaci.

L’eccezionalità della situazione, ovvero il trovarsi esposti allo stesso pericolo, cementò l’intesa fra truppa e ufficiali, allentando in questo senso le differenze di classe; il soldato semplice, operaio o contadino che fosse, al fronte cessava di essere tale, lasciava da parte l’ideologia socialista di cui spesso era (legittimamente, del resto) imbevuto, e combatteva per la Bandiera. Si trattava però di concetti spesso astratti, accettati con l’ammirazione che si riserva a cose che non si comprendono a fondo, e che perciò conservano qualcosa di solenne e misterioso.

Contatti con la popolazione locale, i soldati ne avevano pochi, sia perché i periodi di riposo nelle retrovie non gliene lasciavano il tempo, sia perché la guerra offensiva di Cadorna presupponeva un costante impegno in territorio austriaco e sloveno. Una guerra che per tutto il 1915 non vide eclatanti successi italiani, e che l’anno successivo fu a un passo dal vederne, invece, la disfatta.

In quel maggio del 1916, la Strafexpedition (Spedizione punitiva) ideata dal Capo di Stato Maggiore austriaco Conrad von Hötzendorf, sembrò per un istante poter mettere in crisi le linee italiane sul fronte trentino, causando così l’aggiramento da nord-ovest del fronte carsico, che si sarebbe trovato fra due fuochi. E ciò avrebbe reso delicatissima la posizione dell’Italia, che si sarebbe quasi trovata costretta alla resa.

Tuttavia, nonostante un primo sfondamento, le divisioni austriache incontrarono la fierissima resistenza delle seconde linee italiane. Ma andiamo con ordine: a metà maggio la III e l’VIII Divisione Fanteria austriache attaccarono lungo una linea che andava dalla Val d’Adige alla Val d’Astico; alla sua destra, agivano le LVII e la LIX Divisione Fanteria, dirette in Val Lagarina, mentre a sinistra la XXVIII Divisione Fanteria e la XXII Schützen attendono per il successivo rinforzo.

Infine, allo scopo di sfondare più rapidamente possibile nell’Altopiano di Asiago, la XVIII Divisione e la 181esima Brigata Fanteria operavano nell’adiacente Val Sugana, che chiude a Est l’altopiano, come la Val d’Astico lo chiude a Ovest. Accompagnato da una violenza di fuoco sin qui mai conosciuta dagli italiani, l’attacco colse di sorpresa il Regio Esercito, costretto in pochi giorni a un profondo arretramento verso sud, e a cedere, fra le altre posizioni, la strategica vetta del Col Santo, il Cengio e l’Altopiano di Vezzena.

La pianura veneta sembrava ormai a un passo per le Divisioni austriache.

Le difficoltà italiane derivavano dallo schieramento offensivo - non adeguato a garantire una robusta difesa come invece avrebbe richiesto l’attacco subito -, e, come detto, dalla straordinaria capacità di fuoco dell’artiglieria nemica. Eppure, nonostante la situazione disperata, la resistenza della seconda linea italiana fu fiera e accanita, essendo i nostri soldati consapevoli di essere l’ultimo baluardo prima dell’aggiramento del fronte isontino. Si combatté per ogni singolo palmo di terreno fortino e caposaldo, anche grazie ai cospicui rinforzi inviati di supporto alle brigate già presenti in Veneto. Fra queste nuove brigate, giunse il 4 giugno anche la Sassari, costituita dal 151° e 152° Reggimento Fanteria diretti sull’Altopiano di Asiago.

Accennavamo di sopra alla difficoltà - per i militari originari delle regioni lontane da fronte -, a considerare quei luoghi come veramente facenti parte della Patria, che per molti di essi coincideva con la propria regione, appunto. La cosa era quanto mai vera per gli isolani, tradizionalmente, purtroppo, lontani dalle vicende dell’entroterra. Nonostante tutto, i Fanti della Sassari avevano sin lì dimostrato uno straordinario spirito di corpo, unito a un encomiabile coraggio nei combattimenti. Ma principalmente si trattava di una questione (comprensibile, del resto), di orgoglio isolano, più che di vero e proprio sentimento patriottico.

Ma in quell’inizio di giugno del 1916, attraversando la Val Frenzela devastata dai cannoneggiamenti austriaci, cambiò la percezione della guerra dei Fanti della Sassari. Sull’Altopiano di Asiago erano cominciate le evacuazioni di civili, data la pericolosa vicinanza dell’esercito nemico, e l’incontro con quei profughi che lasciavano i loro paesi semidistrutti, non lasciò indifferente nessuno. Mano a mano che si attraversano i paesi di Foza, di Valstagna, di Carpané, la popolazione offre cibo e generi di conforto ai soldati diretti in linea, rivolge loro parole di elogio, di speranza, d’incitamento, e toccanti appelli a salvare l’Italia.

Emilio Lussu ce ne ha tramandato il ricordo, in quelle che sono fra le pagine più intense di Un anno sull’Altipiano; agli occhi dei fanti della Sassari, quei volti terrorizzati, quegli sguardi persi, quelle lacrime copiose, per la prima volta offrono un’immagine concreta della Patria, di quella Patria ferita che adesso si rivolge a loro. Non si trattò di un normale trasferimento di truppe verso la zona operazioni. In quei momenti, una vicinanza profonda si concretizzò fra l’Esercito e la popolazione; quest’ultima, comprese l’eroismo e la necessità dello sforzo compiuto dai militari, mentre i Fanti della Sassari videro con i propri occhi di cosa era fatta quella Patria che nei bollettini di Cadorna era sempre rimasta qualcosa di astratto.

Non abbiamo difficoltà a credere che a rafforzare lo spirito guerriero dei Demonios sassaresi abbiano contribuito quelle immagini, quegli sguardi, quelle richieste d’aiuto. Per la prima volta, quei Fanti compresero il significato della “guerra italiana”, e pur non dimenticando le loro origini (quella “antica zente ch’à s’innimigu frimmaiat su coro”, ovvero quell’ “antica stirpe che al nemico faceva fermare il cuore”, come recita l’inno della Brigata), sentivano familiarità e vicinanza per le popolazioni dell’Altopiano di Asiago, sconosciute fino a poco tempo prima.

Adesso invece, le loro tragedie di contadini sono fatte proprie dai Fanti sardi, e riconosciute come simili alle proprie, ovvero simili a quell’esistenza grama che molti conducevano nell’Isola.

Un episodio, questo, che ai più appare marginale, ma che in realtà da un lato segna una svolta nella percezione che molti militari avevano della guerra, e dall’altro testimonia la vicinanza morale della popolazione civile all’Esercito Italiano, la comprensione dell’importanza del suo ruolo per le sorti dell’Italia e la sicurezza dei suoi abitanti.

Lo sforzo bellico nell’Altopiano ricadde in buona parte sulle spalle della Sassari, che si batté con estremo coraggio lasciando sul terreno migliaia di effettivi, e inchiodando l’esercito austriaco sull’Altopiano - in quel fatidico 16 giugno del 1916 -, dove resterà fino al 28 gennaio del ’18, quando con la vittoriosa “Battaglia dei Tre Monti” la Sassari sfonderà la linea nemica.

Migliaia di fanti sardi caduti, consapevoli, però, di non morire soltanto in nome dell’orgoglio isolano, ma anche e soprattutto per le sorti dell’Italia. Un impegno fortemente sentito, come recita la chiusa dell’inno della Brigata: “Sa Fide nostra no la pagat dinari, aioh! Dimonios, avanti! Forza! Paris!” (“La nostra Fedeltà non la compra il denaro, andiamo! Diavoli, avanti! Forza! Insieme!”). In quei difficili giorni sull’Altopiano di Asiago, nacque nel popolo la certezza di poter contare sulla forza dell’Esercito, finalmente percepito come un elemento vitale per il Paese.

Per questo, la Prima Guerra Mondiale - pur costando il sacrifico di 650.000 Caduti e circa 2.500.000 soldati feriti -, permise di raggiungere l’Unità geografica, e aiutò anche, per le circostanze che ne derivarono, a rafforzare la solidarietà fra l’Esercito e i civili, alla base dell’unità sociale di uno Stato. Le tante infamanti vicende della seconda Guerra Mondiale, incrinarono non poco questa reciproca solidarietà, ma anche questa è un’altra storia.

Niccolò Lucarelli

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