Konchalovskij firma una deludente Bisbetica

Andrej Konchalovskij al Teatro Metastasio ha presentata la sua personalissima rilettura de La bisbetica domata

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
24 gennaio 2014 13:53
Konchalovskij firma una deludente Bisbetica

PRATO - Due facce della medaglia che dimostrano come a teatro non ci sia mai niente di scontato. Ad appena una settimana dallo splendido allestimento di Sepe che ha riletto Amleto, ieri sera è stata la volta di Andrej Konchalovskij che al Teatro Metastasio ha presentata la sua personalissima rilettura de La bisbetica domata. Ancora Shakespeare, ancora un’ambientazione negli anni Trenta del Novecento, ma con un risultato intellettualmente scarso. Dell’originale splendore elisabettiano di una commedia incentrata sul ruolo della donna del suo tempo e che analizza con grande abilità la psicologia femminile, della critica alle fredde regole sociali dei matrimoni combinati e dei conflitti interiori di una moglie domata da un matrimonio del genere, non resta niente.

Konchalovskij incentra la regia sulla comicità, inventandosi siparietti su siparietti e utilizzando un linguaggio popolaresco, lontanissimo dall’originale ricco di riferimenti letterari. L’affascinante contrasto fra le personalità di Bianca e Caterina, la fine astuzia di Petruccio che diviene egli stesso “bisbetico” riuscendo così a dominare l’irascibile moglie, il gioco degli equivoci ora drammatici, ora grotteschi, tutto si perde nel maldestro tentativo di voler rendere divertente Shakespeare.

Un grossolano errore strategico. Laddove il Grande Bardo suggerisce la risata, questa è sempre venata di amarezza per la tragica condizione dell’uomo sulla Terra, incapace di dominare i propri istinti, incapace di affetto, calcolatore e speculatore dell’essere. Nella rilettura di Konchalovskij, si assiste soltanto a un’arlecchinata da Strapaese, ambientata appunto in una rumorosa e triviale Italia, dove l’arte di arrangiarsi sostituisce la verve esistenzialista del testo originale. Lo spettacolo va avanti grazie a interminabili e ridondanti siparietti che riempiono il palcoscenico di quella vacuità da cabaret di terz’ordine di cui la televisione ha fornito tanti, troppi esempi.

Torna quasi alla memoria il deprimente Romeo e Giulietta cui assiste un impassibile Dorian Gray. Con la sola differenza che l’immaginario impresario ebreo di Wilde, investe nella prosa per pura passione. Una regia superficiale e grossolana, che si accontenta di utilizzare gli attori quasi fossero spensierate marionette capaci soltanto di pacchiane risate, come se una disordinata giovialità potesse compensare una totale mancanza d’idee. Di notevole fascino la scenografia digitale che riproduce le assolate piazze delle città dell’Italia del Nord, declinate nella metafisica di De Chirico.

Scenari splendidi, dove un vero personaggio shakespeariano avrebbe splendidamente vagato senza riuscire a incontrare sé stesso. Ma i personaggi di Konchalovskij sono tutt’altro che figure di pensiero, e si muovono sul palcoscenico come burattini da commedia dell’arte di bassa lega. Una dizione sporcata da molte esitazioni (lontana anni luce dall’impostazione scapigliata che Binasco ha saputo al suo allestimento di Shakespeare), e un confuso andare e venire che crea movimento sulla scena, senza però mascherare il vuoto concettuale della regia.

Pertanto, il decantato omaggio al teatro dialettale passa del tutto inosservato. La commedia dell’arte è il nucleo fondante del teatro italiano moderno, ma è una tradizione che mal si concilia con le atmosfere proto-esistenzialiste del poeta di Stratford; accostandole, si ottiene una pessima mésalliance che snatura entrambe. È tuttavia interessante il cambio di scena “a vista”, quasi uno spettacolo nello spettacolo. Un qualche interesse lo desta il personaggio di Petruccio, che Federico Vanni interpreta con piglio vagamente rabelaisiano, suggerendo l’idea, anche visiva, di un uomo corpulento ma fine d’ingegno, triviale e colto insieme.

La brava Mascia Musy - che la scorsa stagione spiccò nelle vesti di Donata Genzi, nel pirandelliano Trovarsi -, in un allestimento del genere non ha modo di mostrare la sua bravura sul palco, costretta com’è a perdersi nelle manie di un’isterica frustrata, fra inutili giochetti e urla fuori luogo. Alla chiusura del sipario, tiepidi, signorili applausi di circostanza da parte del pubblico più maturo, e sincere, soddisfatte risate di gradimento da parte del pubblico più giovane, addomesticato dall’imperante non-cultura televisiva.

Niccolò Lucarelli

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