Franco Brusati al Teatro Manzoni di Pistoia da venerdì 5 a domenica 7 dicembre con Elisabetta Pozzi

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
04 dicembre 2003 07:39
Franco Brusati al Teatro Manzoni di Pistoia da venerdì 5 a domenica 7 dicembre con Elisabetta Pozzi

Quando, nel 1959, il critico Roberto de Monticelli vide Il Benessere, di Franco Brusati, scrisse su “Il Giorno”: «è una commedia singolare che, e per come è condotta e per quello che vuol dire, esce con un giovanile colpo di reni dal cerchio ristretto del conformismo teatrale più aggiornato, cioè dal neo-realismo, dal teatro-cronaca, dalla più o meno larvata intenzione dei temi e delle tecniche brechtiane (…) ciò che all’autore premeva di esprimere, la scoperta della coscienza da parte di due condannati alla cecità morale, viene lividamente a galla, come il relitto di un naufragio».

Fu un successo, questa commedia: salutata con partecipe entusiasmo da numerosi critici e dal pubblico, segnò - o avrebbe potuto segnare - una nuova pagina per il teatro italiano. La regia era di Luigi Squarzina, ed era interpretata, tra gli altri, da Laura Adani (scatenata nel ruolo di Flora Mariano), da Vittorio Sanipoli (che per de Monticelli descriveva vivacemente il ruolo di Giacomino, il libertino perplesso, ombroso e disperato), dal giovane Franco Parenti, e ancora da Maria Fabbri e Renzo Palmer (suo il “cameo” nel ruolo del cameriere-omicida).

La storia che Brusati racconta ne Il Benessere è presto detta: una coppia di coniugi gioca cinicamente “alla libertà”, in una continua schermaglia verbale e fisica la coppia nasconde festosamente la disperata paura della solitudine, l’incapacità di amarsi al di là di quel modo ambiguo eppure sincero, squallido e puro. La situazione gira vorticosamente: un atelier di moda, una crociera da preparare, amanti e mariti offesi, amici di infanzia e devote collaboratrici, tutto si mescola in un turbinio scintillante, che copre con la patina dorata del benessere, quel disagio profondo e irrisolto, l’amaro sapore della incomprensione.

Il finale non può non scivolare nel tragico: si arriva ad una sorta di suicidio-sacrificio della donna che ha retto le fila del nevrotico gioco al massacro. Nell’ennesima, leggera, perdizione, la protagonista si abbandona nelle braccia nerborute di un cameriere, arrivato lì per caso. Come in un sogno, nel tentativo di ritrovare, ancora per una volta, la gratificazione assoluta della conquista Flora Mariano pronuncia (quanto inconsapevole?) la sua condanna: «Capita a volte di sentirsi sole… in un mondo stupido, o nemico… dove non c’è più alcun motivo per fare una cosa invece di un’altra.

Sembra non aver corpo, oppure solo il corpo… Ma leggero, sai, leggero. Allora si ha voglia che qualcuno ti prenda con forza. Se mi stringono - dici - vuol dire che esisto…». Da quell’abbraccio Flora non si libererà, e Giacomino, suo marito, si renderà conto troppo tardi quanto quella donna fosse fondamentale nella sua vita. Parole non dette e ansia di un “altrove” inesistente; insoddisfazioni e cecità, incomunicabilità e contraddizioni…

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