Diventerà grande lo “Stabat pater” di Mario Perrotta

Ieri sera al Teatro delle Arti di Lastra a Signa il suo nuovo spettacolo, scritto con la consulenza drammaturgica di Massimo Recalcati

Nicola
Nicola Novelli
09 febbraio 2019 09:59
Diventerà grande lo “Stabat pater” di Mario Perrotta

FIRENZE- Tassello importante quello aggiunto ieri sera alla vivace stagione teatrale del Delle Arti di Lastra a Signa. “In nome del padre” è lo spettacolo scritto e diretto da Mario Perrotta che indaga l’evoluzione della figura paterna. Un testo nato grazie all’amicizia con Massimo Recalcati, conosciuto nel maggio 2011 all'Università di Bologna, dove l’artista leccese interpretava la sua Odissea in aula magna e lo psicanalista teneva una lezione proprio sull’immagine del padre.

Come ha spiegato ieri lo stesso Perrotta al termine dell’atto unico, in conversazione con il pubblico animata dal direttore artistico del teatro fiorentino, Gianfranco Pedullà: “Da quattro anni sono padre: un'esperienza che riempie la mia vita di nuove sfide e di preoccupazioni. Ho sentito il bisogno di rifletterci a fondo come so fare io, attraverso la ricerca drammaturgica, con una messa in scena che esorcizza con l’interpretazione i padri sbagliati che potrei essere, ma vorrei evitare”.

“In nome del padre” è ancora giovanissimo, un bambino nato neanche due mesi fa. E’ andato in scena la prima volta alla vigilia di Natale 2018 al Piccolo Teatro di Milano. Ed è arrivato a Lastra a Signa ancora in fase di maturazione. Ma mostra già i sentori di un grande spettacolo, una delle migliori creazioni di Mario Perrotta. L’attore e drammaturgo veste i panni di tre uomini diversi per carattere, dialetto ed estrazione sociale, tipizzazioni del padre contemporaneo nel primo capitolo di una trilogia sulle mutazioni delle famiglie millennials e su quanto resta in loro di archetipale.

Sono i tre condòmini di una società frantumata, in cerca di un ruolo familiare che nessuno ha loro insegnato. Un intellettuale stimato, ma pieno soltanto di una vuota logorrea, un operaio premuroso, ma che non ha mai imparato il discorso adulto, un commerciante affermato, con cui la figlia non vuole più parlare. Perrotta li interpreta nel consueto montaggio di inflessioni dialettali, modi di dire e tic, caratterizzandoli persino con un differente ritmo della respirazione.

E coinvolge il pubblico in un percorso scenico e interiore, in cui la narrazione accompagna i padri a riflettersi nello specchio dei figli, in cui i protagonisti finiscono per ritrovare la propria memoria infantile e riconciliarsi nel ruolo di padre. Lo spettatore vorrebbe quasi ridere di questi genitori falliti, ma Perrotta accarezza le sue creature con una tale pietosa delicatezza da lasciare il pubblico con il fiato sospeso sino all’acme drammatica, quando i protagonisti si inginocchiano in proscenio, pronti a tutto per riconquistare l’amore dei loro bambini.

E già alle prime repliche Perrotta esibisce una interpretazione matura, con un equilibrio drammaturgico che non è più quello del suo teatro di narrazione, di Italiani cìncali! (2003), o di Milite Ignoto (2015), innovativo e sperimentale per intendersi. In scena si riconosce un artista completo, un autore che partorisce un testo scritto non solo per le proprie corde attoriali e che può andare molto lontano. Per trovare un riferimento di spessore teatrale, bisogna forse tornare a Piera Degli Esposti in Stabat Mater (1994) di Antonio Tarantino, il monologo per la regia di Cherif e le scene di Arnaldo Pomodoro. Uno spettacolo, questo “In nome del padre”, che condurrà Mario Perrotta probabilmente alla sua ennesima candidatura per un Premio Ubu.

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