Punita perché donna: la guerra di Martina

Una toccante variazione narrativa sul tema

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
04 gennaio 2011 17:31
Punita perché donna: la guerra di Martina

Firenze, 4 gennaio 2010– “Ho deciso di destinarti ad altro incarico, per il tuo bene e per quello dell’azienda. È questione di giorni. Ho già dato mandato all’ufficio personale di formalizzare gli atti”. È con uno ‘spostamento’, più simile a una retrocessione, che inizia l’incubo della quarantenne Martina, lavoratrice capace, autonoma e rispettata che si ritrova di punto in bianco costretta nella morsa del mobbing. Nel suo romanzo Martina va alla guerra (Mauro Pagliai Editore, pp.

336, euro 15) Antonella Manzione, avvocato, impegnata da vent’anni ai vertici degli Enti locali nella difesa dell’etica e della legalità, affronta questo tema terribile e attualissimo senza paura di tratteggiarne i lati più crudi e sconvolgenti. Martina, dopo alcuni contrasti con il nuovo capo, viene rimossa dal suo incarico, spostata di ufficio, allontanata dai vecchi colleghi. Punita per aver “contrastato la politica aziendale”, o più probabilmente perché colpevole di essere donna al potere in un ambiente ancora troppo coniugato al maschile.

Presto viene esclusa dalle decisioni importanti, il suo volume di lavoro cala, le affidano soltanto incarichi di scarsa responsabilità. I colleghi non sembrano aiutarla, anzi molti la evitano. “Non ci schieriamo con i perdenti”, arriva a dire qualcuno, poi nessuno le parla più. La vita di Martina entra in una crisi che sembra irreversibile: deve sopportare l’isolamento, il discredito, la perdita di autostima. Non ha più appetito, soffre di crisi d’ansia, arriva a temere di impazzire. Ma nel momento più buio riesce a scuotersi e a intraprendere una strada di riscatto, inizia a combattere una guerra che può essere vinta grazie al sostegno degli amici, attraverso la difesa dei propri valori e la fiducia nella giustizia, non solo quella dei tribunali, ma quel concetto innato e universale che può essere ancora di salvezza.

Perché lottare per la giustizia significa “credere di essere nel giusto e non aspettare che lo affermi un giudice terreno. Devi averlo dentro, deve far parte di te, come un neo, anzi, peggio ancora, come il colore degli occhi che ti accompagna tutta la vita e non cambia mai”. Gherardo Del Lungo

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