Primarie Centrosinistra: la crisi italiana era prevedibile ed evitabile

Perché la classe politica ha mentito al proprio elettorato negli ultimi 15 anni? L'Opinione del Direttore di Nove da Firenze

Redazione Nove da Firenze
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11 novembre 2012 22:47
Primarie Centrosinistra: la crisi italiana era prevedibile ed evitabile

di Nicola Novelli Direttore di Nove da Firenze La più grave colpa della classe politica italiana degli ultimi 15 anni (al governo, o all'opposizione che fosse) è di non aver spiegato all'opinione pubblica le conseguenze che avrebbe comportato avviare il percorso di integrazione economica europea dalla moneta unica al pareggio di bilancio. Venendo meno a questa responsabilità, la classe dirigente ha mancato uno degli obiettivi fondanti una democrazia, saper indicare al proprio elettorato la prospettiva futura senza assecondarne istinti e paure diffuse. E' vero che l'espansione della spesa pubblica era stata il comune denominatore dei gioverni che si erano succeduti negli ultimi decenni, in una spirale perversa tra crescita del debito pubblico e inflazione.

Ma, dal momento in cui il nostro paese ha accellerato il processo di integrazione economica al resto dell'Unione europea, era chiaro che il bilancio dello Stato non avrebbe più potuto essere condizionato dalla voce “interessi sul debito”. Eppure l'adesione dell'Italia all'Unione monetaria e alla moneta unica è stata spiegata solo raccontandone i vantaggi immediati, libertà di movimento e semplificazione valutaria, senza chiarire che le implicite limitazioni al deficit e all'inflazione avrebbero richiesto cambiamenti sociali e riforme economiche per adeguare il paese agli standard continentali.

Così gran parte dell'elettorato ha ignorato per anni che, per mantenere le nostre posizioni nel nuovo mercato globale, avremmo dovuto migliorare la produttività e la qualità dei prodotti, investire nelle infrastrutture di ogni tipo, cambiare l'allocazione della spesa pubblica. Invece negli ultimi tre lustri l'Italia ha continuato ad ascoltare le sirene berlusconiane che decantavano i consumi come motore dell'economia, i sindacati che non accettavano tagli ai privilegi di categoria, la burocrazia pubblica che dietro leggi e regolamenti nascondeva corruzione e incompetenza. Con l'inversione della politica monetaria USA nel 2004 e la crisi finanziaria globale del 2007 la condizione italiana è divenuta insostenibile e il nostro debito pubblico ha avuto la peggio.

A partire dal 2011 la Commissione Europea ha raccomandato in maniera pressante al nostro governo la riduzione della spesa pubblica. Un impegno assunto finalmente dal Presidente Mario Monti, la cui compagine tuttavia non gode di un sincero sostegno politico in parlamento. L'attuale paradosso italiano consiste nel fatto che i partiti che per 15 anni non avevano realizzato riforme strutturali, da un anno a questa parte avrebbero dovuto sostenere i programma riformatore del professor Monti in materia fiscale, di liberalizzazioni economiche e del mercato del lavoro, di privatizzazioni del patrimonio pubblico, in cambio di investimenti in infrastrutture e accesso al credito per le imprese.

La spinta propulsiva del governo si è esaurita in primavera, dopo aver tamponato l'emergenza finanziaria e dopo che i partiti tradizionali avevano raccolto l'ennesima sconfitta alle consultazioni amministrative. Neanche sull'orlo del baratro la classe politica ha abbandonato il vizio di secondare i bassi istinti dell'elettorato. Ma la verità non si racconta a metà e non si guarda al futuro camminando all'indietro. Il pareggio di bilancio non è solo un obiettivo contabile, ma l'unico modo per ridurre il debito pubblico e creare margini per tornare a investire, ritrovando competitività per difendere il welfare.

Da due anni a questa parte invece i programmi dei partiti sembrano avere due interlocutori contrapposti, da una parte l'Unione Europea, dall'altra l'elettorato nazionale. Da una parte la dichiarata disponibilità a fare sacrifici e riforme, dall'altra la rassicurazione più, o meno esplicita che l'Italia va bene così com'è. Anzi, chi propone pubblicamente un programma coerente per il cambiamento, viene additato come un pericoloso eretico. Eppure spesa previdenziale, sanitaria e scolastica possono sopravvivere solo se compatibili con la competitività del nostro sistema imprenditoriale nel mercato globale.

I cittadini vanno resi consapevoli che il loro futuro sarà sempre meno fondato sul sostegno pubblico e sempre più sulle capacità individuali. Ma quanti esponenti politici hanno il coraggio di spiegare che i cambiamenti strutturali che la UE ci propone sono il costo minore da sopportate per non rinunciare alla solidarietà sociale? Al contrario in una società statica come quella italiana, le liberalizzazioni e le riforme di sistema rappresenterebbero una strategia progressista. Sia perché l'Italia ha più ampi margini di miglioramento rispetto ad altri paesi.

Sia perché il sistema fiscale è una delle componenti di maggiore iniquità del nostro paese. L'evasione contributiva va portata a livelli fisiologici, riequilibrando, a livello almeno comunitario, l'imposizione sulle transazioni finanziarie e bancarie. Solo così un governo responsabile e realmente riformatore potrà ridurre la pressione su imprese e famiglie, reintroducendo nel sistema capacità reddituale e investimenti.

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