Ascanio Celestini in scena con l’acclamato “Fabbrica” a Villa Schiff-Giorgini a Montignoso (Massa Carrara) domenica 3 agosto alle ore 21.30 per Lunatica 2003

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
31 luglio 2003 14:31
Ascanio Celestini in scena con l’acclamato “Fabbrica” a Villa Schiff-Giorgini a Montignoso (Massa Carrara) domenica 3 agosto alle ore 21.30 per Lunatica 2003

A Lunatica uno degli spettacoli di punta della sezione Teatro: Ascanio Celestini, tra i più acclamati rappresentanti della nuova generazione di narratori.
Cara madre vi scrivo questa lettera che è l’ultima lettera che vi scrivo. Ve n’ho scritta una al giorno per tanti anni. Voi mi dicevate scrivi scrivi e io ho scritto per più di cinquant’anni. Una lettera al giorno per cinquant’anni. Solo una volta non vi scrissi, cara madre, e voi mi diceste perché non hai scritto? che io vi dissi che non avevo potuto scrivere per via dell’ospedale.

Ché avevo avuto la disgrazia e non ho scritto. Mi diceste prima o poi me la scrivi questa lettera? Ché mica puoi saltarmi proprio un giorno nel mentre che mi hai sempre scritto tutti i giorni. Io vi dissi che sì, che prima o poi ve la scrivevo la lettera. E mo’, adesso ve la scrivo la lettera che manca. È passato più di cinquanta anni e adesso ve la scrivo. Fate conto che oggi è il 17 di marzo di quel 1949 che non vi ho scritto la lettera di quel giorno. E io riprendo il filo dal giorno prima.

Dal 16 marzo.
Cara madre il 16 di marzo di quel ’49 è il primo giorno che entro in fabbrica.
La storia di un capoforno alla fine della seconda guerra mondiale raccontato da un operaio che viene assunto in fabbrica per sbaglio. Il capoforno parla della sua famiglia. Del padre e del nonno che hanno lavorato nella fabbrica quando il lavoro veniva raccontato all’esterno in maniera epica. Dopo un anno di laboratori in giro per l’Italia abbiamo raccolto storie isolate, frammenti di racconti che ruotano tutti attorno al vissuto fisico della fabbrica.

Chi racconta il lavoro racconta qualcosa del proprio corpo. Anche quando parla del cottimo collettivo, delle vertenze sindacali e dell’articolo 18 usa un immaginario che fa riferimento al corpo. Come se per parlare di ciò che è accaduto si dovesse tradurre in un linguaggio i cui riferimenti sono la malattia e la salute, la bellezza e la deformità, la forza e la debolezza. Per il capoforno la fabbrica ha un centro e questo centro è l’altoforno. La fabbrica lavora per il buon funzionamento dell’altoforno e i gas dell’altoforno trasformati in energia elettrica mandano avanti lo stabilimento.

L’antica fabbrica aveva bisogno di operai d’acciaio e i loro nomi erano Libero, Veraspiritanova, Guerriero. L’età di mezzo ha conosciuto l’aristocrazia operaia con gli operai anarchici e comunisti che neanche il fascismo licenziava perché essi si rendevano indispensabili alla produzione di guerra. Ma l’età contemporanea ha bisogno di una fabbrica senza operai. Una fabbrica vuota dove gli unici operai che la abitano sono quelli che la fabbrica non riesce a cacciare via. I deformi, quelli che nella fabbrica hanno trovato la disgrazia.

Quelli che hanno sposato la fabbrica lasciandole una parte del loro corpo, della loro storie e della loro identità.
La ricerca è incominciata due anni fa con la lettura di testi che raccolgono le memorie degli operai legate soprattutto alla prima metà del secolo scorso. Dopo un anno ho incominciato ad aprire il lavoro ad una serie di laboratori in giro per l’Italia. Il momento centrale di questi laboratori è stato quasi sempre l’incontro con operai che hanno lavorato in fabbrica tra gli anni ’40 e ’60 e insieme agli operai mi è capitato di ascoltare e registrare anche minatori e contadini.

Infatti all’immagine dell’operaio spesso se ne sovrapponevano altre e loro stessi parlavano di sé come di operai-partigiani, operai-contadini, operai-artigiani oppure operaie-casalinghe, operaie-madri.

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