Medici Palliativisti e giornalisti: primo corso sul “fine vita”

Fari puntati sulla legge 219 del dicembre 2017 con i chiarimenti di professionisti del settore. Organizzazione dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana

Giuseppe
Giuseppe Saponaro
17 giugno 2018 00:37
Medici Palliativisti e giornalisti:  primo corso sul “fine vita”
nella foto un momento dell'incontro

Un mondo nel quale prima di arrivare alla difficile ed estrema decisione di scegliere la morte, i pazienti dovrebbero potere accedere a tutte le cure palliative conosciute ed opportune. Un mondo nel quale, anche nell’ultimo tratto della vita, la sua qualità dovrebbe risultare la migliore possibile. Pare un mondo solo di fantasia ma è quello auspicabile in un’era in cui sembra stia sfuggendo l’essenza stessa del concetto di vita mentre, sullo sfondo, argomenti quali sofferenza, dolore e morte sono poco trattati e ritenuti inopportuni ai più disparati (e disperati) tavoli di socialità.

Per questi motivi, l'iniziativa dell’Ordine dei giornalisti della Toscana, volta ad organizzare un corso sul tema “Informazione e fine vita”, è parsa quanto mai opportuna. Una mattinata di approfondimento, quella di venerdì scorso, che ha visto al centro del dibattito le novità della legge 219 del dicembre 2017. Il fine ultimo è stato quello di far conoscere i principi ispiratori del legislatore affinché gli operatori dell’informazione possano gestire concetti così sensibili nel rispetto delle persone e del diritto-dovere di cronaca anche con l’obiettivo di adeguare linguaggio e terminologia ad una tematica così delicata.

Grazie all’intuizione di Stefano Fabbri, già caporedattore dell’Agenzia ANSA Firenze, il dottor Antonio Panti (coordinatore per l’Organismo Toscano Governo Clinico del gruppo che ha redatto il documento sulla legge 219/2007), la dottoressa Costanza Galli (coordinatore Toscana della Società Italiana cure palliative), e il dottor Piero Molino (Direttore Cure Palliative Ausl Toscana centro) si sono succeduti in una disamina dei temi trattati.

Si è capito immediatamente che i progressi della medicina e, in generale, della società hanno portato grandi “rivoluzioni” nel lavoro dei medici che si sono trovati dinnanzi a patologie, sempre più, incurabili e quindi croniche che, in determinate condizioni di sofferenza per il paziente, possono essere trattate esclusivamente con le cure palliative. Obiettivo ultimo non guarire ma vivere meglio.

Per questo motivo divengono fondamentali le DAT (disposizioni anticipate di trattamento) nelle quali, ognuno di noi, liberamente, esprime il proprio consenso al trattamento. In altre parole, il medico non può curare se il paziente non vuole che questo sia fatto (consenso informato). Principio riconosciuto anche dalla costituzione stessa. Le DAT, redatte e custodite secondo i termini di legge, divengono fondamentali dunque soprattutto nei casi in cui il soggetto si trovi nelle condizioni di non poter esprimere la propria volontà nel momento del bisogno.

Se questo è vero, considerato che anche la nutrizione e l’idratazione artificiali sono “trattamenti sanitari ”, alla luce della nuova legge, un caso come quello tristemente noto di “dj Fabo” avrebbe potuto avere un epilogo diverso visto che il paziente più volte aveva espresso la sua volontà di cessare di vivere (ricorderete il caso giudiziario e la morte giunta in Svizzera).

Ma, per fortuna, nella grande maggioranza dei casi, i pazienti hanno voglia di vivere e di farlo più a lungo possibile. Per questo motivo è essenziale il concetto di PAC (pianificazione anticipata delle cure) ovvero un percorso di comunicazione ma, soprattutto di ascolto attivo, per strutturare un piano di cure condiviso tra medico e paziente, sempre modificabile, rispettoso delle volontà e delle scelte della persona assistita. Il tutto si estrinseca in una comunicazione veritiera, franca e comprensibile che faccia scegliere al paziente come vuole vivere la fase finale della sua vita e non per ottenere una buona morte ma per vivere al meglio la fase finale del proprio percorso di vita.

Risultano illuminanti le parole del Papa espresse recentemente per far luce sulla profonda differenza che c’è tra evitare l’accanimento terapeutico e procedere all’eutanasia: «Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso equivale a evitare l’accanimento terapeutico , cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte».

E poi il Pontefice continua approfondendo il concetto: «E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura : senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte».

Infine il riferimento alla medicina palliativa che «riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine».

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