Brad Mehldau trio: finale da brividi per Metastasio Jazz

Musica per intenditori, dove la bellezza formale è soltanto una prima chiave di lettura

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
04 marzo 2014 13:56
Brad Mehldau trio: finale da brividi per Metastasio Jazz

PRATO - L’America urbana contemporanea, calata in una dimensione intellettuale filtrata da un pensiero musicale diviene metafora della vita quotidiana, se non dell’esistenza in senso più ampio. Musica per intenditori, dove la bellezza formale è soltanto una prima chiave di lettura. L’edizione 2014 di Metastasio Jazz si conclude con uno dei più acclamati trii della scena mondiale: Brad Mehldau al pianoforte, Larry Grenadier al contrabbasso, e Jeff Ballard alla batteria, ovvero l’espressione più raffinatamente intellettuale della lunga storia del piano trio, nato quasi per caso nei cabaret della fine degli anni Venti.

Un jazz quasi atipico, nella raffinata, composita, quasi assoluta bellezza che evoca, apparentabile alle crepuscolari atmosfere mitteleuropee di Roman Vlad. Se la scorsa settimana il duo Salis/Portal ha esplorato l’ultimo mezzo secolo d’Europa, con le sue problematiche, i suoi sogni e le sue aspirazioni, Brad Mehldau e soci hanno estasiato il pubblico con un jazz tanto politicamente non convenzionale quanto esteticamente complesso, del quale ogni singola nota è la corrispondenza sonora delle pagine più ispirate di Norman Mailer o Gore Vidal, attenti, critici cantori della quotidianità americana più adulta, fatta di un continuo osservare - e interrogarsi su -, le relazioni interpersonali, l’amore, i compromessi con io sistema.

Ascoltando i virtuosismi pianistici di Mehldau, nella loro bellezza formale di carattere alto-borghese, è possibile leggervi fra le righe le stesse domande, riflesse da uno specchio melodico di rara perfezione estetica. Pianoforte, batteria e contrabbasso intessono una trama sonora senza soluzione di continuità, un arabesco edoardiano dalle calde atmosfere, con una tensione drammatica che tiene inchiodato il pubblico al proprio posto dalla prima all’ultima nota. Un concerto che ha i suoi momenti più introspettivi in I concentrate on you di Cole Porter, e Airegin di Sonny Rollins, per raggiungere intense riflessioni con River Man, il delicato testo di Cave sul suicidio.

In questo frangente, le note del pianoforte di Mehldau scorrono impetuose come la corrente dello Stige immaginato da Cave. Il concerto è scivolato via su un raffinato mélange di jazz, pop-rock e soft-rock d’autore, da Cole Porter a Paul McCartney, ivi comprendendo anche composizioni originali dello stesso Mehldau, fra cui Spiral e Untitled, che hanno aperta la serata. Nella sua scelta di composizioni originali, standard, e arrangiamenti jazz, Mehldau li rilegge con un’attenzione quasi maniacale, non disegnando incursioni nel blues, a metà fra innovazione e conservazione, scorrendo le dita sulla tastiera con il fuoco in una mano, nell’altra la luna, attivamente sostenuto dal dinamico contrabbasso di Grenadier e dalla posata batteria di Ballard.

Questa, merita un discorso a parte, suonata in buona parte con i mallets, le bacchette lignee avvolte nel feltro sulle punte che producono un suono caldo e ovattato. L’apparentemente rassicurante bellezza che evocano le suggestive atmosfere cameristiche del pianoforte di Mehldau, cela in realtà quell’inquietudine delle epoche di passaggio, come di fatto lo è stata la seconda metà del Novecento. Sullo sfondo di suggestive immagini urbane, quali, ad esempio, un pomeriggio d’autunno in Central Park, una passeggiata lungo l’Hudson al chiaro di luna, o ancora una discesa nella metropolitana verso TriBeCa.

Quello che si prova ascoltando il trio di Mehldau, è la sensazione di una tangibile bellezza che però non arriva mai a raggiungere una forma espressiva spensierata. Ben ancorato alla realtà, Mehldau esprime il brivido quotidiano delle città contemporanee, dove l’esistenza è comunque appesa a un filo, ma non per questo necessariamente disperata. Si tratta quindi di un jazz distante dallo spleen a volte sentimentale, di gusto europeo, cui il Romanticismo ci ha abituati, ma non per questo meno intenso.

Scroscianti applausi finali, dopo il quarto bis (chiuso da un prolungato assolo di Ballard), per l’unica data italiana del trio. La loro presenza a Prato conferma il prestigioso livello raggiunto dalla rassegna diretta da Zenni, che anche per questa edizione ha saputo offrire al pubblico una raffinata panoramica del jazz mondiale. Niccolò Lucarelli

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