Enrico Baj dalla materia alla figura

Spirito incline alla sperimentazione con una grande inventiva unita a una forte carica ironica. Enrico Baj è da annoverare tra i più importanti artisti italiani contemporanei.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
11 luglio 2010 12:20
Enrico Baj dalla materia alla figura

Enrico Baj: un'esistenza all'insegna della sperimentazione. Così si potrebbe definire la vicenda artistica e umana del pittore milanese che viene adeguatamente celebrato a 7 anni dalla morte da una mostra “Enrico Baj dalla materia alla figura” in corso al Castello Pasquini di Castiglioncello sino al 26 settembre. L’esposizione, curata da Luciano Caprile e Roberta Cerini Baj, si articola in sei sezioni e raccoglie 77 opere eseguite a partire dal 1951 - anno di fondazione del Movimento Nucleare - fino agli anni ‘90, periodo in cui i concetti di “materia” e “figura”, che avevano precedentemente interessato l’elemento pittorico, danno vita a “maschere tribali” e “totem” in cui l’ “objet trouvé” partecipa a pieno al suo gioco compositivo.

Protagonista delle avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, accanto a Fontana, Jorn, Manzoni, Klein, Baj ha stretto rapporti con Max Ernst, Marcel Duchamp, E. L. T. Mesens, e altri artisti del gruppo CoBra, con il Nouveau Réalisme, il Surrealismo e la Patafisica. Nel 1951 Baj fonda a Milano, con Dangelo e Dova, il "Movimento Nucleare"; nel 1954, in opposizione alla sistematica ripetitività del formalismo stilistico, dà vita con Asgern Jorn al "Mouvement International pour une Bauhaus Imaginiste” contro la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell'arte. I collages policromatici e polimaterici costituiscono l'icona della vena satirica dell'artista milanese: intellettuale inquieto, spesso definito il “pittore dei generali”, per le sue più famose opere che vestiva di tutto punto, con damaschi e broccati, pizzi della nonna, medaglie, mostrine, cordoni d’oro e d’argento, stelle o scintillanti patacche.

Quando Baj fonda con Sergio Dangelo il Movimento Nucleare il pensiero è rivolto al De Rerum Natura di Lucrezio e soprattutto al rischio di catastrofe atomica che incombeva sul nostro pianeta appena uscito dalla guerra. Le opere di quegli anni evocano un mondo devastato dall’immane tragedia, propongono un day after che ha cancellato l’umanità o l’ha trasformata in un rinnovabile incubo. Questo clima accoglie i visitatori nelle prime due sale a partire da Due figure atomizzate, un olio e smalto su tela del 1951.

Già da questo primo lavoro emerge un inquietante processo metamorfico volto a interessare la stessa sostanza pittorica che promuove forme umanoidi o zoomorfe in un’atmosfera livida di colature e di umori. La mostruosa Zia Vania del 1955 nasce da lì e lo stesso Baj non esita a escogitare nel 1956 un Autoritratto che emerge da un impasto informale. Il passo successivo ci viene offerto dalla terza sala dove compaiono le “montagne” emerse da un magma in continuo divenire scandito da elementi vitali a mimare occhi e volti.

Poco alla volta questa trasformazione sostanziale conquista il profilo di un corpo ancora indistinto come si evince dalle opere esposte nel quarto ambiente. L’idea dei “generali” nasce da lì e da lì deriva il loro atteggiamento prevaricatore, come se il concetto di violenza e di distruzione fosse insito nel loro corredo cromosomico. A queste immagini possiamo idealmente e degnamente affiancare Zita de Bourbon-Parme, Impératrice d’Autriche, paladina di tutte le “dame” vestite di frivolezza e di vacuità.

Quindi due tipici “generali” del 1975 concludono con belluina arroganza militare la quinta stazione. La conquista della figura si associa ora al trionfo dell’ornamento che non diventa mai un elemento puramente decorativo, ma entra nel carattere degli effigiati. Qualunque oggetto può partecipare al gioco compositivo dell’artista: due quadranti di orologio (si vedano gli ultimi “generali”) forniscono la rotondità di uno sguardo. Il successivo percorso creativo di Enrico Baj ha sempre inteso coniugare il piacere ludico a una severa disamina della società che ci circonda e che sembra continuamente attirata da una masochistica vocazione per la catastrofe.

Seguendo la traccia iniziale che chiama in causa la “materia” e la “figura” si perviene all’ultima, coloratissima sala che raduna le “maschere tribali” e i “totem” in cui la pratica del “ready made” diventa l’ennesimo pretesto per una disamina dei comportamenti umani, capaci di mescolare nello stesso tempo una tecnologia sempre più sofisticata ad atteggiamenti regressivi. La mostra, particolarmente curata e accompagnata da un bel catalogo edito da Skira, riesce a offrire un coerente percorso espositivo in grado di ricostruire con una scelta di opere significative il percorso del maestro milanese. di Alessandro Lazzeri

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