Mostro di Firenze: magnifica la serie Netflix
FIRENZE- La nuova serie "Il Mostro", che narra il caso del Mostro di Firenze, è stata finalmente distribuita dal 22 ottobre 2025 su Netflix e sta già suscitando interesse. Quattro episodi, diretti da Stefano Sollima, ripercorrono il quindicennio in cui il famigerato serial killer ha seminato il terrore nei dintorni fiorentini. Questo misterioso dramma basato su una storia vera, probabilmente, non sarà facile da seguire per chi non abbia già una buona conoscenza della vicenda criminale, o per i tanti giovani nati dopo il 1985, che non abbiano mai approfondito il giallo nazionale attraverso i molti programmi tv dedicati.
Le circa quattro ore di fiction della serie sono realizzate con la dovuta attenzione per la crime story più iconica della scena italiana, persino delicate e toccanti. E’ da ricordare a esempio la scena in cui la deposizione di Natalino, figlio della vittima del 1968, fa commuovere gli stessi Carabinieri che lo stanno interrogando. Emozionante e divertente anche la scena girata al cimitero di Trespiano, in cui si assiste a una situazione assurda e sconvolgente, quanto autentica. Rispetto per le vittime, senza quasi mai indulgere in dettagli truculenti. Con la capacità, non comune, di raccontare multiple versioni della vicenda, che ricorda quasi il Kurosawa di Rashomon. Così da non cadere nella trappola delle tesi precostituite, che si elidono a vicenda.
La chiave narrativa che sceglie Sollima è azzeccata per la così detta “pista sarda”, quella meno conosciuta dall'opinione pubblica. Anche se, comunque pure questa serie richiede una conoscenza pregressa della storia. Chi non conosce la storia del mostro e non si prepara prima con qualche lettura (almeno online) potrebbe capirci pochino. Tuttavia la pista sarda si rivela ricca di spunti drammaturgici per Sollima e lo sceneggiatore Leonardo Fasoli, che li reinterpretano scavando la dimensione sociale dell'Italia di quegli anni, fatta ancora dalle generazioni precedenti all’obbligo scolastico e all’istruzione di massa.
Ne esce un quadro di desolazione morale, di povertà intellettuale, che risponde incidentalmente a una delle obiezioni avverse alla pista dei “compagni di merende”. A chi afferma l’impossibilità che quella banda di “deficienti” di provincia possa aver realizzato una sequenza tanto efferata di crimini, si può rispondere che anche i protagonisti sardi della crime story non erano certo intellettuali. Il nucleo di protagonisti della serie tv è l’espressione di un’epoca di privazioni materiali, controllo familiare, imposizioni sociali, e quantomeno gente talmente poco istruita da avere scarsa dimestichezza con leggere, scrivere e persino parlare in italiano. In un simile sottosviluppo ambientale la figura di Barbara Locci diviene il cuore narrativo, stagliandosi come donna-oggetto di un’arretratezza morale, che Sollima fa assurgere a metafora stessa della condizione femminile nazionale.
In questa sorta di rilettura contemporanea, la prima vittima dei duplici omicidi diventa quasi paladina di un’epoca di liberazione sessuale repressa nel sangue, che tuttavia non sembra trasparire dai verbali giudiziari, da cui emerge in realtà soltanto come il disgraziato centro di una tresca sessuale familiare. Tanto è vero che la serie Netflix è rimasta presa in contropiede dagli sviluppi recentissimi, perché quando ormai il materiale televisivo era stato montato, in estate si è scoperto che Natalino è figlio dello zio Giovanni. Dunque la madre era stata abusata da tutti i maschi di famiglia.
La serie ha il merito di andare a riscoprire meticolosamente anche figure minori, quei guardoni da cui origina la definizione “Cicci, il mostro di Scandicci”, poiché si muovevano per lo più sulle colline scandiccessi. Recupera a esempio la controversa figura del fornaio Piero Mucciarini, insomma una lista di personaggi dimenticati, o sconosciuti ai più giovani e che invece avevano animato le cronache dei primi anni '80.
Una bella realizzazione, con uno dei set principali ambientato nella piazza principale di Signa, riallestita da Sollima con attenzione ai particolari e minuzia anastatica, grazie all’appasionata disponibilità dei commercianti locali, che si sono prestati a concedere in uso le proprie vetrine, a esempio l’originale ingresso del Cinema-teatro estivo Michelacci che è tornato a vivere, solo per poche ore, esattamente come era sistemato nel 1968, dopo decenni di abbandono.
Ha fatto un bel lavoro -non c’è che dire- Stefano Sollima e, se ci sarà un seguito il prossimo anno, sarà interessante vedere come reinterpreterà la storia dei "compagni di merende". Probabilmente continuando a raccontare la sopravvivenza di un mondo rurale, pre-liberazione sessuale, che si ritrova negli anni ‘80 completamente disadattato al contesto sociale. E finisce per scontrarsi armi alla mano con questo cambiamento, la libertà dei costumi. Una reazione iper-violenta che nell’Italia gli anni ‘70 si era manifestata anche nello scontro politico.