Università degli Studi di Firenze
Comune di Firenze

 
GLI INSERIMENTI LAVORATIVI DEI MALATI PSICHIATRICI
NEL QUARTIERE 5 DI FIRENZE

 
Rete di Comunicazione
Nove da Firenze

 
CONCLUSIONI

Al termine di questo lavoro di ricerca durato circa un anno, è possibile fare una riflessione generale tenendo presente che in un'ottica della complessità, ogni "punto di arrivo" è da considerarsi solo lo spunto per ulteriori approfondimenti e ricerche. Il punto di vista da cui si osserva e si analizza non è l'unico, non è quello che fornisce la visuale globale di una situazione, soprattutto quando si studia un fenomeno dinamico, mutevole, multiforme, e reticolare, come il disagio psichico. Quando si tratta di definire un problema di marginalità sociale come quello della malattia mentale, ci si trova davanti una fitta terminologia che operatori e spesso anche specialisti utilizzano indistintamente.
 
"Se prendiamo in considerazione il termine "emarginazione", esso comporta un "dentro" e un "fuori", cioè sta a indicare che, in un'ipotesi di società non più a dimensione verticale (piramidale) ma orizzontale, c'è qualcuno che non ha la possibilità di accedere ai diritti di cui gode il resto della popolazione, siano essi immateriali o materiali. I termini "emarginati", "esclusi", in quanto participi passati, intendono a monte, un intervento di una parte della popolazione nei confronti di un'altra: implicano un'azione attiva su un gruppo che subisce passivamente".
 
Anche a livello istituzionale si tende ad abbandonare termini come "devianza" e si preferisce utilizzare "esclusione" per indicare la presa di coscienza di una responsabilità collettiva nei confronti di persone appartenenti a fasce deboli della popolazione. Si rende sempre più necessario che tali processi di esclusione siano controbilanciati da interventi volti a favorire l'inclusione sociale e che la progettazione e la realizzazione degli stessi sia sostenuta dalle istituzioni come dalla comunità locale, co-partecipe dei processi di emarginazione.
 
E' assolutamente limitante parlare della necessità di "gestire" l'esclusione, come se fosse un fenomeno esterno alla società. E' determinante vederlo "dentro", come risultato di dinamiche sociali, in particolare di eventi quali l'istituzionalizzazione, la rottura di legami familiari e affettivi, la violenza familiare ed extrafamiliare, i fallimenti scolastici o lavorativi, lo sradicamento culturale, la mancata condivisione del tempo e degli spazi.
 
Il senso che nella società attuale si attribuisce al lavoro sembra convalidare la tesi secondo cui il lavoro pare non esaurire più il valore che gli uomini attribuiscono alla vita: il lavoro non è più al centro ma, in una società policentrica, esso rappresenta soltanto uno dei tanti centri.
 
Colasanto, in una lettura filosofico-antropologica del lavoro in "un sistema sociale connotato da una soggettività ambigua" , mette in guardia rispetto al rischio che il lavoro si trovi dislocato e spiegato anch'esso nella categoria di un agire strumentale piuttosto che comunicativo. Esso viene valutato in quanto serve, non in quanto contribuisce a costruire la persona.
 
L'attività lavorativa resta il fattore più importante per la costruzione della "certezza sociale nella crisi dell'età moderna... Il lavoro andrebbe assumendo un ruolo centrale (accanto alla famiglia) quale spazio per la creazione dei contatti sociali significativi; anzi, vi sono solo due ambiti di vita in cui l'uomo moderno fa esperienze che gli consentono di valutare direttamente ed in prima persona i propri successi ed insuccessi e sono, ancora una volta, la famiglia ed il lavoro…Il lavoro resta l'ambito in cui l'uomo è ancora "autonomo nella sua esperienza di sé".
 
L'esperienza di questa ricerca conferma quanto il lavoro risponda ad una domanda di ruolo sociale, di richiesta di partecipazione. Le persone frammentate, con problemi mentali, spesso cercano la possibilità di ricostruirsi, di guardare "a testa alta" le altre persone: il lavoro è vissuto come affermazione di sé, recupero di dignità, come crescita personale, salto in una cittadinanza finalmente riconosciuta. Il passaggio dalla manifestazione del bisogno lavorativo, caratterizzato da un legittimo desiderio di autonomia economica, alla reale motivazione al lavoro, passa attraverso la graduale presa di coscienza del proprio valore individuale e del posto occupato nella società: lavoro come condizione capace di dare senso alla propria vita e a quella dei propri familiari, di avere una visione di sé più salda e propositiva, perché permette di relazionarsi agli altri con dignità e di proporsi come detentore legittimo di diritti.
 
L'esclusione dal mondo del lavoro e successivamente dalla relazione con gli altri, viene percepita e vissuta come stigma, genera autoisolamento, la progressiva incapacità di gestire il reinserimento lavorativo e la regressione come soggetti portatori di un bisogno. Quest'ultimo viene occultato dai soggetti stessi in quanto rivelatore di un fallimento sociale percepito come intollerabile.
 
"Si creano "barriere d'entrata" in sistemi di cambiamento, soprattutto in quelle persone che non hanno conosciuto i meccanismi partecipativi e che, essendo in condizioni di salute ed economiche svantaggiate, non possono accedere neppure ai processi informativi e comunicativi che una socializzazione alla partecipazione (o l'appartenenza ad uno stato socio-culturale medio-alto) potrebbe consentirgli".
 
Accanto alla multiproblematicità, alla progressività dei processi di esclusione e all'autoisolamento indotto, vi è un'altra concausa dei fattori di emarginazione: lo sfilacciamento progressivo delle reti relazionali.
 
Le persone in condizione di disagio mentale e di debolezza sociale perdono senso di appartenenza a partire dalla famiglia e dal gruppo amicale, fino a perdere di vista il proprio ruolo sociale. Automaticamente, la loro distanza dalle reti formali ed informali, innesca una mancanza di riconoscimento sociale e quindi di protezione.
 
"La persona smette di riconoscersi come soggetto socialmente utile e si adatta a riconoscersi in un'identità debole ed inadeguata all'impegno che la cittadinanza sociale richiede".
 
E' pertanto esclusa dai diritti di cittadinanza ma contemporaneamente si autoesclude, perché si sente inadatta a raggiungere qualifiche sociali riconosciute. E' un circolo vizioso in cui il fattore tempo gioca un ruolo determinante: più perdura questa situazione, più aumentano le probabilità di non ritorno, come in un percorso ad imbuto.
 
"Il passaggio fuori-dentro, esclusione-inclusione, comporta un lavoro complesso che coinvolge la persona stessa ma anche l'ambiente che la circonda, nella dimensione di un cambiamento culturale in grado di convertire il binomio esclusione-autoesclusione in inclusione-autointegrazione".
 
La complessità sociale non consente di programmare percorsi lineari di inclusione sociale: è necessario agire contemporaneamente su più fronti ed a diversi livelli evitando il frazionamento dei compiti e delle responsabilità che conducono, inevitabilmente ad un ulteriore decentramento e frammentazione della persona che si trova già in una situazione di disagio. Un progetto di inclusione sociale e lavorativa si sviluppa in un'ottica globale e richiede un grosso sforzo attivo e propositivo degli attori locali coinvolti. Ciò implica una "con-versione" culturale che metta da parte gli interessi particolari, gli antagonismi storici e le staticità burocratiche, per mettere in atto dinamiche di collaborazione flessibile, globale e concreta.
Da tempo è stata avanzata una riflessione sulla valenza del concetto di territorio nella pratica psichiatrica e spesso viene sottolineato il pericolo che la psichiatria di comunità, dalla spinta propulsiva che spingeva la cura al di fuori delle strutture, rischiasse l'implosione, ricreando ciò che aveva distrutto: un manicomio fatto non più di mura ma di barriere meno visibili, dove si veniva riproponendo comunque la gestione della follia e non il suo "prendersene cura "e riconoscere, rispettando, la sua diversità: "manicomializzazione del territorio".
La deistituzionalizzazione ha avuto e ha la funzione di restituire soggettività all'individuo nel suo rapporto con le istituzioni, più precisamente la possibilità di recupero di una contrattualità, cioè del possesso di risorse per gli scambi sociali e per la conseguente cittadinanza sociale. Tale processo ha portato inevitabilmente al confronto con le dinamiche sociali che attualmente ruotano intorno al lavoro, considerato come entità strutturante, identificante di un individuo. In questa riflessione è importante differenziare il lavoro come norma , e cioè contenzione del campo esistenziale, dal lavoro come promozione di interessi , bisogni e capacità del soggetto. La questione è quanto il lavoro sia un mezzo di sostentamento e quanto un mezzo di autorealizzazione in rapporto con il senso e il valore che una società attribuisce al lavoro stesso.
Nella cultura a base capitalistica, il valore condiviso di identità personale per un individuo è la sua produttività, la sua forza lavoro. Nel processo di globalizzazione , il mercato costituisce la figura egemonica che permea tutti gli aspetti della vita umana, in ogni luogo. Si va profilando una società dal basso contenuto umano, che porta con sé problematiche fondamentali come l'aumento della povertà, l'aumento dei comportamenti cosiddetti "a rischio", l'aumento dei disturbi mentali.
Conseguentemente diminuirà il diritto di cittadinanza e la visibilità della sofferenza psichica.
In una società basata sulla competizione e sull'individualismo, occorre preservare i diritti sociali e affermare la salute come diritto universale.
Nella definizione di salute fornita dall' Organizzazione Mondiale della Sanità è compreso anche l'ambito sociale di un individuo, di conseguenza anche l'ambito lavorativo diventa uno dei settori di intervento principali di chi lavora nel sociale: sostenere il lavoro come diritto dell'individuo.
Di questo panorama complesso partecipano le persone con disturbi mentali, che devono continuamente confrontarsi con una realtà sociale in cui il lavoro è considerato elemento centrale di identità.
Nell'evoluzione storica di tale realtà, passando da un ambito lavorativo familiare ad uno di tipo industriale, si sono perdute le caratteristiche di setting di lavoro più tolleranti che fornivano nicchie adatte alle abilità di ciascuno e che richiedevano minore competenza sociale e generalizzazione delle capacità. Nell'era della globalizzazione il mercato del lavoro si gioca sempre più sugli elementi della disoccupazione e della discriminazione, i quali possono compensarsi, ma anche agire in sinergia, creando nuove barriere, nuove impossibilità.
 
Un programma di riabilitazione centrato sul lavoro dovrebbe tener conto dei contesti in cui deve nascere e svilupparsi:
 
1. Il contesto economico: lo sfruttamento, il mercato del lavoro, l'inflessibilità dell'organizzazione lavorativa;
2. Il contesto sociale: lo stigma, l'intolleranza, il grado di socializzazione, le relazioni interpersonali e le aspettative;
3. Il contesto personale: il grado di autostima e il lavoro come realizzazione personale.
 
Da questo substrato teorico è nata la forma "cooperativa", che è andata costituendosi inizialmente all'opposto della logica di sfruttamento del lavoro dipendente e come forma di solidarietà, forma collettiva dell'esercizio dell'impresa. Essa infatti si configura come luogo di promozione e di protezione dell'autonomia, al cui interno veniva incentivata la diversificazione, che dava la possibilità di generare spazi adeguati per ciascuno. Il mondo delle cooperative si è modificato col trascorrere del tempo, fino a rendere necessaria una loro definizione che connotasse l'aspetto principale dell'attività. Sono nate così le cooperative sociali che dal 1993 si differenziano in cooperative sociali di servizi (di tipo A) e cooperative sociali di lavoro (di tipo B).
Dall'esperienza delle cooperative si è venuta costituendo la pratica di "impresa sociale", che ha in sé un carattere imprenditoriale economico ma anche di imprenditorialità sociale, tendendo a promuovere nuove reti e nuovi rapporti tra soggetti sociali.
E' attorno alla frattura tra Stato e mercato, tra cultura forte del mercato e quella debole degli esclusi, che si definisce l'impresa sociale: l'ipotesi è quella di inventare, al confine tra logica del mercato e logica dei servizi, sinergie ed interessi che permettano di rendere circolare e non separato il processo di consumo e di produzione delle risorse. L'impresa sociale mira alla moltiplicazione degli scambi sociali, alla riconversione e valorizzazione delle risorse sprecate nei servizi, al riconoscimento e all'attivazione di quelle nascoste dentro e fuori dai servizi: l'impresa sociale è una strategia produttiva, il cui luogo di elezione è il sociale.
Coloro che vi lavorano sono soci attivi ed imprenditori in un processo di lavoro che prevede la contemporaneità nel momento formativo e in quello produttivo: in quest'ambito sono fortemente incentivati i processi di responsabilizzazione e di incremento delle capacità di scelta e di rischio che interessino tutti i partecipanti. Gli utili delle unità produttive sono finalizzati a creare ulteriori opportunità di intrapresa per i soci, di sviluppo delle competenze e delle capacità. Il lavoro non è quindi concepito come semplice risposta al bisogno, ma come spazio di produzione di senso, di scambio e valore soggettivi.
Il combinare risorse diverse provenienti da finanziamenti pubblici, dalla spesa sanitaria, da borse lavoro, rompe l'alternativa tra pubblico e privato. Tale dinamica ha strettamente a che fare con un dinamismo di tipo affettivo e relazionale, creando le condizioni materiali e culturali che rendono possibile correre i rischi del cambiamento. Si concede credito alle persone affinché la loro autonomia e le loro capacità possano trovare occasione di espressione e crescita, per far sì che riescano a diventare imprenditori di se stessi. Per essere protagonisti delle proprie scelte è essenziale potersi muovere in scenari di vita reali, dove si lavora e si guadagna, si scambia e si consuma.
L'ipotesi di riappropriarsi di competenze lavorative, offrire cioè un lavoro vero e proprio alle persone in condizioni di disagio psichico, diventa un naturale passaggio. I rischi con cui bisogna confrontasi sono molti, tra i quali non si possono sottovalutare:
  • L'assolutizzazione dell'obiettivo come unico e imprescindibile per tutti. Non tutte le persone realizzano parte di sè nel lavoro, neanche le persone con disturbi mentali;
  • la cristallizzazione dell'intervento.
  • Un inserimento socio-terapeutico di tipo lavorativo non può e non deve rimanere tale a vita, scivolando in una dimensione assistenziale del servizio;
  • la sopravvalutazione delle difficoltà e delle problematiche degli utenti e/o la sottovalutazione delle loro potenzialità.

Non è facile però trasformare gli inserimenti lavorativi in assunzioni vere e proprie. Attualmente la legislazione sta cercando di individuare obblighi e responsabilità, che però mal si adattano ai "pazienti psichiatrici", se vengono vissute in modo impositivo dai datori di lavoro. E' importante che il servizio si attivi nella rete a diffondere la cultura della diversità come fonte di ricchezza , che si impegni direttamente nella società, favorendo contatti con Enti, Associazioni, Imprese, Cooperative e quanti altri interessati al vivere sociale.

 
[ Riconoscimenti | Dedicato a Marco | Bibliografia ]