IL DIARIO

CAPITOLO 1 - AL FRONTE
CAPITOLO 2 - LA RITIRATA
CAPITOLO 3 - EPILOGO

CAPITOLO 1 - AL FRONTE

Non mi preparo a scrivere un romanzo, ma solo a ricordare i momenti più tristi passati sul Carso.

Nel 1916 fui richiamato alle armi. Mi destinarono al Quarto Artiglieria da Campagna a Cremona. Dopo pochi giorni di addestramento al cannone da 75 millimetri di costruzione francese, chiamato Lefort, fui sorteggiato per raggiungere l'Ottava batteria del Quarantanovesimo Reggimento sul Carso, come servente al pezzo con mansione di tiratore .
Prima di partire molti miei amici di Pistoia si prestarono per farmi sostituire, per mezzo di un compaesano, il furiere Pastacaldi. Ringraziai tutti e dissi che intendevo seguire la sorte. Il destino, si vede, voleva così; e con questo non cercai rimorsi.
La sera prima di partire si fece una bella cena. Il giorno dopo, tutti equipaggiati da guerra, mi accompagnarono alla stazione. Ci scambiammo fra noi i migliori auguri: "Ciao, ciao! Arrivederci a presto!". Intanto la tradotta si mise in moto. Dopo pochi mesi avrebbero mandato al fronte pure loro e non tutti in Artiglieria, ma diversi nei Bombardieri . Seppi poi che tre dei miei camerati restarono sul campo di battaglia.
Arrivati al fronte si raggiunse un paesino che si chiamava Scodavacca. Lì si trovava il reparto Cavalli. In Fureria incontrai il Frangioni di Santomato come magazziniere. Dopo due giorni ci incamminammo per raggiungere la prima linea. Era notte. Durante la marcia si vedevano tanti lampi come saette. Sembrava un gran temporale. Quando si fu più vicini incominciammo a sentire che non erano fulmini, ma colpi di cannone.
Giunti sotto il loro tiro, non posso descrivere come sia impressionante il battesimo del fuoco. Il primo a morire fu un canino che si chiamava Frai. Lo prese una scheggia e lo portò lontano. Ci dispiacque tanto, perché eravamo tutti affezionati.
Intanto ci fecero aggiustare il tiro e incominciammo a sparare cannonate dietro gli ordini del capo pezzo. Così pure io provocai morti e feriti nelle linee del nemico e forse anche fra i nostri compagni, perché il Comando ci ordinava di sparare nelle retrovie, e molti colpi pure nella loro prima linea. Ma, dato che le prime linee erano vicine, poteva darsi che qualche colpo scoppiasse sui nostri. Io però, quando non c'era il capo pezzo, cercavo sempre di dare un piccolo giro al volantino, così che li mandavo a scoppiare più lontano. Avevo sentito parlare dai fanti che qualche colpo non era preciso, forse anche per difetto di fabbricazione.
Dopo pochi giorni rimase ferito il soldato Breschi. Fu molto affortunato: lui poteva lasciare quell'inferno. Piano, piano si fece l'abitudine alla vita di trincea. Dormire per terra quando si aveva un momento di calma. Da mangiare lo portavano la notte, se lungo la strada non venivano colpiti i muli, o i conducenti; altrimenti si saltava il pasto.
Passato un po' di tempo non si pensava più alla vita, tanto ogni momento si vedevano morti e feriti. Così pure io mi feci coraggio e pensavo: "Se arriva una scheggia, o una pallottola intelligente che non mi ferisce gravemente bene; se mi ammazza è almeno finito questo patire".
Dove eravamo non c'era mai calma. Bastava che una vedetta desse l'allarme che ci segnalavano con dei razzi di aprire il fuoco. Quanti colpi ho sparato in quei mesi? Di certo migliaia. Pure il nemico ci sparava contro e molti colpi arrivavano vicino alle nostre piazzole. Spesso qualcuno restava ferito, o moriva. I morti si sistemavano in una piccola buca con una croce, e via avanti col nostro lavoro.

* * *

Ci portavano le munizioni di notte. Ma, in maggio, per quattro notti vennero e ci portarono molte migliaia di granate. Da quel tal preparativo si capì che presto ci sarebbe stata l'offensiva. Infatti ci fecero fare tanti tiri e i capi pezzo segnavano sul taccuino i dati per battere le retrovie.
Una mattina, prima dell'alba, arrivò l'ordine di aprire il foco: che inferno! Sparavano tutti i cannoni: molte centinaia dei nostri 75, dei 105 e dei 149. Venne giorno, ma il sole non si vedeva, perché, fra i colpi in arrivo e in partenza, si erano formate per aria nubi come quando c'è la nebbia fitta.
La notte, alle tre e mezzo, ci fecero cessare il foco delle artiglierie e le bombarde incominciarono a spezzare i reticolati della prima linea. Non come al principio della guerra, che dovevano andare a tagliarli con dei forbicioni e lì molti ci lasciavano la vita. Cessarono di sparare i bombardieri e incominciarono mitragliatrici, fucileria e bombe a mano. Da questo si capì che andavano all'assalto per snidarli dalle trincee. Intanto, di dove eravamo noi, incominciarono a passare i primi feriti e molti prigionieri. Quanti morti ci furono d'ambo le parti quel giorno? Si parlava di migliaia.

* * *

Fu fatta un'avanzata di qualche chilometro. Così la notte portammo i nostri cannoni nella Dolina dei morti. La chiamavano così perché lì c'era tanta terra e si potevano sotterrare, mentre fori di lì è tutto una pietraia e i morti davano sempre cattivo odore.
Si lavorò tutta la notte per farci il rifugio vicino al pezzo. Il nostro comandante di gruppo ci promise che avrebbe dato un premio ai serventi che facevano il rifugio più resistente ai colpi del nemico. Il premio lo vinsero quelli del secondo pezzo. Sembrava una fortezza, con travetti di legno e di ferro, e tanti sacchetti di terra.
Aprimmo il foco, ma dopo poche ore molti loro colpi arrivavano vicino. Così si capì che ci avevano scoperto e ci sparavano addosso. Infatti una granata mise fuori uso il mio cannone e fortuna volle che non ci ferì nessuno. Allora ci rifugiammo in una galleria e lì eravamo al sicuro. Pure il terzo e il quarto pezzo furono messi fori combattimento, con qualche ferito. Il capitano Lauritano telefonò al comandante di gruppo, per informarlo che la batteria era stata scoperta e tre pezzi erano fuori uso. Così, non era restato che un pezzo, e non era il caso di fare resistenza contro le batterie avverse. Anche per non sacrificare dei soldati inutilmente. Ma il comandante rispose che si deve sparare pure con un solo pezzo.
Il capitano pianse dalla rabbia. Il secondo pezzo incominciò di nuovo a sparare. Dalla galleria si vedeva che l'avevano preso a bersaglio, tante maledette cannonate gli arrivavano vicino. Dopo pochi minuti giunse il colpo di grazia. Una granata di grosso calibro piombò sul rifugio, proprio quello che aveva preso il premio. Restarono morti tutti.
Passato il polverone della cannonata si corse a vedere e trovammo i sei serventi maciullati, tanto che al soldato Clerio di Reggio Emilia non si poté ritrovare una gamba. Tra i morti c'erano il sergente capo-pezzo, il marchese Cavalcabò di Cremona, e il sergente Bracco. Sette in tutto. Avevamo solo un ferito non grave, il sottotenente Giannuzzo. Ci rifugiammo tutti in una caverna e a notte inoltrata si diede sepoltura ai nostri compagni.
Nel pomeriggio del giorno di poi morì il soldato Cratti. Andammo fori della galleria per preparare una fossa, ma gli Austriaci non si erano calmati. Tirarono qualche cannonata a shrapnel . Si vide Cratti ribaltare per terra, ma, dato che era uno tanto pauroso, si pensava che gli fosse venuto male dalla paura. Visto che non riprendeva i sensi, lo spogliammo. Così si poté constatare che una pallottola di shrapnel lo aveva colpito nella schiena, dalla parte sinistra, penetrandogli nel cuore. A sera lo sotterrammo.
La mattina di poi un aspirante andò per fare un bisogno sulla buca che ci serviva come ritirata. L'avevamo scavata fonda un metro e mezzo, con una tavola sopra, come usano fare i soldati quando sono accampati fuori delle caserme. Mentre l'aspirante stava facendo, fu colpito da una scheggia e andò a finire dentro la buca. Si tirò fuori da quel posto sporco e demmo sepoltura pure a lui.

* * *

Quella notte incominciarono davvero le mie tribolazioni. Vennero coi cavalli e portarono via i cannoni sulla sinistra, a quota 208, a circa un chilometro dalla Dolina dei Morti. Il capitano mi chiamò da una parte e disse che io da quel momento non ero più al pezzo, ma portaordini.
"Il comando vuole che in ogni batteria ci sia un portaordini -mi spiegò- Tu sei calmo anche nei momenti di pericolo. Così ho pensato di fare il tuo nome, perché fra tutti gli altri non saprei chi nominare. Specie dopo la batosta che abbiamo avuto, non c'è che uno che può avere il coraggio di restare qui a badare alle munizioni rimaste. Ogni notte, tra la mezzanotte e l'una, vieni a prendere il rancio. E quanto prima, appena il fronte sarà un po' calmo, manderò i cassoni a riprendere le munizioni".
Mi salutò e mi strinse la mano. Ai miei amici, quando seppero che dovevo restare lì solo, gli dispiacque tanto. Li salutai e feci io coraggio a loro, tanto che il soldato Gori mi disse: "Tu sei l'ardito della batteria!". Questo Gori, dopo diciassette anni, lo incontrai a Genova, e mi disse: "Guarda chi rivedo, l'ardito Nerucci!". Mi volle portare a cena a casa sua. Mi fece conoscere la famiglia e raccontò come ero calmo anche di fronte alla morte.
A guardare la riserva di proiettili nella Dolina dei Morti ci restai per quindici giorni. Meditavo e recitavo qualche preghiera su quelle tombe, pensando che un giorno li avrei raggiunti, perché il pericolo non mancava. Spesso arrivava qualche colpo di cannone. Se volevo mangiare dovevo andare a prenderlo di notte a quota 208, viaggiando allo scoperto.
Se quelli che portavano il rancio erano arrivati, bene; in caso contrario la rimettevo alla notte di poi.
Quel tratto di fronte non era mai calmo. Passavo per il camminamento Padova che andava a finire a Casa Brunetti, dove arrivavano le ambulanze a prendere i feriti. Qualche notte incontravo morti, perché quel camminamento era molto transitato ed era stato preso di mira. Nei quindici giorni che passai lì non avevo altro da fare che ammazzare pidocchi. Ma non ce la facevo a liberarmi, perché nelle costure i lendini c'erano a covate.

* * *

Dopo quindici giorni di solitudine in quel luogo triste, l'ultima notte che andai a prendere il rancio ricevei l'ordine dal Capitano che mi trovassi, alle ventitré della sera di poi, nel vallone di Loberdò, sulla strada che sale a Nova Vas: "Vengono a prendere le munizioni. Così non sarai più solo come in questi ultimi giorni".
La sera dopo andai all'appuntamento all'ora stabilita. Sentii lo scarpiccio dei cavalli e il chiasso dei cerchioni di ferro dei cassoni. In testa c'era il sergente Rocchi. Scese da cavallo, mi chiamò da una parte e mi disse: "Senti, io non sono mai venuto in linea. Non ti nascondo che mi è presa una gran fifa. Mi sento morire quando, di tanto in tanto, odo un colpo di cannone. Nerucci, fammi questo piacere: io ti aspetto qui. Ti prego, sali tu sul mio cavallo. Ti metti in testa e io ordino ai conducenti di venire dietro ai tuoi passi e di restare al tuo ordine. E' inutile che venga io ad arrisicare la vita". Siccome ero io a sapere la strada e dovevo andare comunque alla Dolina dei Morti a prendere i proiettili, salii in sella al suo cavallo e via in cammino per Nova Vas.
Ma, arrivati a metà strada, si doveva lasciare la via che porta a Ossachiasella e fare un tratto nel bosco. Così appena entrati in quella strada sassosa, col chiasso delle ruote dei cassoni e lo scarpiccio dei cavalli, loro si misero in allarme. E incominciarono a sparare a shrapnel. I conducenti, a differenza degli artiglieri, poco pratici del fronte e del fuoco saltarono giù per terra. E abbandonarono i cavalli tutti terrorizzati. Fui d'accordo anch'io, per vedere se quei maledetti ci davano un po' di tregua per proseguire.
Ma visto che non cessavano dissi: "Ragazzi! Qui siamo in un posto molto battuto. E' bene pure per voialtri di sbrigarvi a mettere le munizioni nei cassoni e scappare al più presto possibile. Perché stare qui fermi senza rifugi sarebbe più pericoloso". Mi diedero retta. Con la fifa che avevano caricarono in un momento. Risalii sul cavallo e si prese la via del ritorno.
Ma appena messi in moto, i nemici erano così vicini che sentivano il chiasso. Aumentarono a sparare. Nel ritorno sentii tante pallottole ronzarmi vicino. Così pensavo: "Se mi colpisse una pallottola intelligente sarebbe la mia fortuna".
Quando si escì dal bosco e si prese la via di Nova Vas per il Vallone di Loberdò, mi sentii sfregiare la polpa di una gamba. Così pensai che fossi stato ferito. Ritrovammo il sergente. Gli dissi che ero stato colpito. Tutto contento mi tolsi il gambale che era bucato, ma con mio dispiacere constatai che appena, appena mi aveva arrossato la polpa della gamba destra. Svanì il mio sogno di andare con loro indietro, e dopo l'ospedale un po' in convalescenza da convertirsi in licenza. Non mi restò che rimettermi il gambale e salutarli tutti. Il sergente mi baciò e mi ringraziò tanto. Ripresi il cammino e raggiunsi il posto dove erano piazzati i cannoni.

* * *

Dopo pochi giorni fui mandato col sergente Zaniboni e un altro soldato. Ci presentammo a un comando nei pressi di quota 144. Ci accompagnarono al posto che si doveva occupare per la mansione del nostro servizio. In una vecchia trincea lasciarono il soldato. Dopo circa duecento metri lasciarono me. E alla mia destra restava il sergente Zaniboni. Il servizio era: posto di corrispondenza. Se il sergente mi portava un ordine, io lo portavo all'altro soldato, e viceversa, se lo portava il soldato lo portavo al sergente.
Erano le otto di mattina. Io stesi il telo da tenda. Mi allungai sopra e pensavo di dormire in pace qualche ora, perché il fronte era calmo. Avevo proprio bisogno di un po' di riposo. Ma fu di poca durata, perché alle undici incominciarono la controffensiva. Ci fu un gran bombardamento d'ambo le parti e questo inferno di fuoco continuò tutto il giorno e la notte seguente.
Io ero sempre stato calmo a ogni pericolo. Ma non posso nascondere che quel giorno, e specie la notte, quando tentarono di avanzare sulle nostre linee, non vedevo nessun movimento, perché stetti sempre per terra, allungato in una vecchia trincea. Sentivo passare sopra di me tante schegge e pallottole e uno scarpiccio vicino. Ma non potevo capire se erano i nostri, o gli Austriaci. In quella brutta notte la mia paura era di restare ferito e, lì solo, di morire dissanguato.
La mattina di poi, circa alle dieci, il fronte ritornò calmo. Allora, piano, piano, mi portai sulla destra per trovare il sergente Zaniboni. Ma trovai dei morti. Così capii che nella notte c'erano stati gli Austriaci. Erano passati pure vicino a dov'ero io, ma non mi videro. Dopo qualche mese seppi che il sergente l'avevano preso prigioniero.
Andai più avanti, a quota 144. Dietro una roccia vidi un piccolo baracchino. Mi avvicinai. Mi si fece incontro un tenente e mi chiese cosa volevo. Ma io avevo perso la voce. Dové avvicinarsi per capirmi: "Senta, io ero al posto di corrispondenza. Ma dall'altra sera non ho più visto nessuno. Così, senza bere né mangiare, ora non posso stare in piedi". Allora mi diede mezza pagnotta e telefonò al mio capitano che mi mandasse il cambio, perché non ero in condizione di restare al mio posto. La sera, appena fatto buio, venne a darmi il cambio un certo Lippi di Serravalle Pistoiese. Piano, piano mi condussi di nuovo a quota 208.

* * *

Mi fecero riposare due giorni e mi mandarono in trincea, a quota 141. Ero con la fanteria a fare le segnalazioni coi razzi luminosi per le nostre artiglierie. Nel tempo che mi trovavo a quel servizio scrissi una lettera alla famiglia. Gli dicevo che non stessero in pensiero, perché ero al sicuro (tanto per farli stare contenti) e in un punto della lettera spiegavo il servizio che facevo con le segnalazioni. Senza pensare al danno che potevo fare, mi venne detto che quando lanciavo un razzo con tre stelle verdi, le nostre artiglierie facevano fuoco. Quando la lettera passò alla censura, per la scapataggine di quella frase mi denunciarono al Tribunale di guerra.
Dopo quindici giorni lasciai la trincea, come al solito pieno di pidocchi e barba lunga, tanto che in quel momento i miei non mi avrebbero riconosciuto, così infangato di mota gialla del Carso. Il cinque giugno, dopo pochi giorni di riposo, mi comandarono di andare a un osservatorio avanzato sul Pecinca, alla sinistra di Ossacchiasella, e precisamente passata la Dolina della Vigna. Ero con un tenente del Comando del Quarto Gruppo, un certo Locatelli di Milano. Partimmo di notte, perché di giorno non si poteva, essendo vicino alle due trincee. L'osservatorio era tutto scavato sotto terra. C'erano feritoie per vedere e per sparare a un bisogno, se si fossero avvicinati per prenderci. Per il rancio partivo la notte e andavo vicino a Castagnevizza.
Un giorno venne una gran burrasca. L'osservatorio si riempì d'acqua che continuamente cresceva, tanto che ci passava le ginocchia. Fuori non si poteva uscire, perché ci avrebbero subito sparato. Allora incominciammo a gettare fuori l'acqua con l'elmetto, come se si fosse stati ai lavori forzati. Questo durò qualche ora. Poi finì di piovere e il terreno piano, piano l'assorbì.
Dopo due giorni il tenente era tutto raffreddato. Allora mi pregò di trovare un mezzo per scaldargli un po' di caffè che gli avevo portato io nella notte. Strisciai per terra dietro a un muro a secco e nel tempo che camminavo con una mano raccolsi dei fuscelli di legno. Ne feci una manciata. Misi la gavetta su due sassi e feci un fuoco. Mi venne una piccola fiammella, tanto per scaldare un mezzo bicchiere di caffè in una gavetta. Bastò solo qualche minuto: un calcio al fuoco e via carponi. Il tenente mi ringraziò tanto e disse: "Quando andiamo indietro chiedo il permesso al tuo capitano e ti porto per sei giorni alla pensione di Udine a mie spese".
Cinque minuti dopo che avevo spento il foco, i nemici fecero un bombardamento vicino, senza colpire né il nostro osservatorio, né gli altri che c'erano. Dopo poco ritornò tutto calmo. Ma la notte venne da noi un tenente del Genio e volle sapere come era andata di quel piccolo fuoco che pure lui aveva visto bene partire vicino al nostro osservatorio. Il mio tenente non lo poté negare e gli raccontò tutto: che si sentiva male e mi aveva pregato di scaldargli il caffè e del sacrificio che avevamo fatto due giorni prima per la burrasca. Ma lui non volle sapere scuse. Ci prese il nome e ci denunziò al Comando di Divisione per segnalazione al nemico.
Il venti giugno ricevei una telefonata dal Comando. Chiesero di parlare col tenente Locatelli. Glielo passai e io stavo in orecchi, perché pensai subito che si trattava di quel fuoco. Infatti il mio tenente gli raccontò com'era andata la cosa. Appena che ebbe lasciato il telefono mi disse che parlava col Generale: "... E siccome mi conosce bene, ha detto: "Non stare in pensiero, perché resta tutto qui, dato che pure io capisco che non è stato per nessuno scopo"."
In quel caso ebbi proprio fortuna. Perché, se mi fosse andato avanti anche quel rapporto, non mi sarei salvato dalla fucilazione, dato che dovevo ancora subire il processo per la scapataggine del razzo.
Dal trenta giugno al quindici luglio feci i collegamenti col 145° Fanteria, in qualità di portaordini, nelle Doline del Bano, del Falco e Ravelli, sempre in prima linea. Ero agli ordini del tenente Cobianchi, della Quinta batteria. Dal sedici luglio al ventisette ritornai tiratore al pezzo a quota 208. Dal ventotto luglio a quota 141, in prima linea, come porta-ordini e aiutante di un sergente a lanciare i razzi per segnalazioni d'artiglieria. Il nove di agosto ritornai al mio reparto e la mattina di poi venne il tenente dal mio Capitano, e, come mi aveva promesso, gli domandò il permesso di portarmi a Udine.

* * *

Ritornai da Udine il quindici agosto. Il sedici fui comandato di andare vicino a Monfalcone, col Trentacinquesimo Fanteria. Ero guida di collegamento e porta-ordini tra il Comando di battaglione, il Comando di reggimento e quello di brigata. Il giorno diciotto incominciò la nostra offensiva. Dalle prime ore del mattino tutte le batterie di ogni calibro iniziarono a sparare. Fu un rombo continuo per tutto il giorno e metà della notte. Cessati i cannoni, al solito, bombarde, mitraglie, fucileria, bombe a mano e via all'assalto. Io però restai in trincea, perché come guida di collegamento dovevo andare avanti con qualche ordine del Comando per portarlo alla Dolina del Falco, occupata dai nostri.
In quel brutto momento trovai il Santini di Striglianella . Pure lui era guida di collegamento. Gli diedero un ordine da portare indietro. Tra morti e feriti fu molto contento di scappare dal quel macello. Pure a me portarono una busta da consegnare al comando del Trentacinquesimo Fanteria alla Dolina del Falco. Mi fecero capire dov'era. Così io e il Santini ci si scambiò un bacio. Lui andò indietro e io cavalcai la trincea che da poche ore non era più la prima linea, perché era passata la battaglia, e via allo scoperto, tra morti e feriti.
Dico che pure allora ebbi molta fortuna. Perché passavo sempre di mezzo a schegge e pallottole e sentivo il sibilo ronzarmi vicino. Consegnai l'ordine e restai a disposizione di quel comando. C'era una bella galleria e così restai al sicuro. Però spesso c'era da uscire a portare ordini. Gli zappatori incominciarono a raccogliere i morti. Fori della galleria ne fecero dei monti di più di cento. Altri li portarono nella Dolina dell'Acqua. Vidi pure quelli, perché col caldo si moriva di sete. Così andai a cercare un po' d'acqua, la mattina prima dell'alba. Ma c'erano di guardia e proibivano di prenderla, per paura che il nemico l'avesse avvelenata prima di scappare. Quanta sete patii nei pochi giorni che resati in quel posto! Perché ho provato tante volte la fame, ma la sete è più brutta.

* * *

Durante le ore che non c'era da portare ordini si stava dentro la galleria. Una mattina a un soldato del Comando gli scoppiò una bomba a mano che causò la morte a lui e a un altro che gli stava vicino. Pure quella volta fui affortunato, perché una scheggia mi passò vicino alla testa.
Da quel momento il colonnello mise due carabinieri alla porta e noi soldati ci tenne tutti fuori. Così, per essere riparati da schegge e pallottole, fummo costretti a stare allungati per terra dietro quei monti di morti. Non posso descrivere come fosse triste stare dietro i morti, coperti con teli da tenda. Era il ventidue agosto. I morti erano del giorno diciotto. Da questo si può capire che cattivo odore uscisse dalle cataste, con un'invasione di moscacce verdi che si posavano sui cadaveri. Mangiare: qualche gavetta; acqua: mezza tazzina al giorno.
La sera del venticinque agosto fui comandato di portare un ordine alla Dolina Linati, al Comando di battaglione. Appena uscito dalla galleria sparavano molto; tanto che mi scoppiò una granata vicino e restai ferito da schegge di pietra a un ginocchio e alla mano sinistra. Consegnai l'ordine al Comando di brigata, mi feci firmare la busta per ricevuta e presi l'ordine di risposta. Ma dato il dolore acuto e il sangue in gran copia entrai in un posto di medicazione.
Il tenente medico mi fece le fasciature e mi chiese se potevo camminare per ritornare alla Dolina del Falco: "In caso contrario tu vai indietro e l'ordine lo porta un altro soldato". Gli dissi che, un po' zoppicando, potevo andare io. Volevo compiere per intero il mio dovere di portaordini. Ma ritornai indietro anche per riprendere la mia roba, oltre alla cassettina di un ufficiale austriaco morto. Che fra le varie cose c'era una bella rivoltella, che mi serviva per ricordo.
Zoppicando, dolorante, sotto il piombo nemico ritornai al Trentacinquesimo Fanteria. Consegnai la busta a un tenente del Comando di Divisione. Lui mi vide fasciato e mi chiese di raccontargli l'accaduto. Poi palesò tutto al signor colonnello. Fui chiamato e mi dissero: "Bravo! Hai compiuto il tuo dovere a ritornare qui in codeste condizioni. Dammi il tuo nome e la batteria di appartenenza, e io ti propongo a una medaglia al valore. Ora vai pure indietro e ritorna al tuo reparto e, se il caso lo richiede, entrerai all'ospedale". Mi trattenni lì per tutta la notte, dato che il ginocchio mi faceva dolore e il nemico non dava tregua, con mitragliatrici e raffiche d'artiglieria.
Al mattino presi la mia roba e mi misi in cammino piano, piano, e zoppicando. Ma appena fatto un trecento metri incominciarono a sparare a shrapnel. Mi trattenni quasi un'ora in un camminamento. Arrivò un altro soldato. Le pallottole fischiavano sopra le nostre teste, ma una scheggia ferì nel sedere quel soldato. Lo presi sulle spalle e si scappò più avanti. Trovammo un posto di medicazione. Lasciai lì il ferito e ripartii senza domandare il suo nome. E di questo mi dispiacque tanto, dato che era un toscano.
Con le mie ferite restai al reparto cavalli, per alcuni giorni, alla Dolina delle Botti d'acqua, nei pressi di Nova Vas. Il tenente Lauritano mi tenne a riposo. Sembrava che al ginocchio dovesse venire un versamento. Ma in poco tempo le ferite guarirono e risarcì tutto.

* * *

Mentre trascorrevo i dieci giorni di riposo che mi aveva dato il capitano medico, si istruiva il processo presso il Tribunale militare del Tredicesimo Corpo d'Armata, che si trovava a Pieris. Fui chiamato lì per via della lettera che parlava delle segnalazioni coi razzi. Il colonnello, che faceva da pubblico ministero, disse che si riteneva che la lettera l'avessi scritta senza nessun fine malevolo, ma solo per dire ai miei cari come si passava la vita al fronte: "Ma oramai il processo è istruito. Gli daremo la pena minima". E chiese un mese da scontarsi alle prigioni. La prigione non me la dettero, ma passai, per punizione, dal Quarantanovesimo all'Ottavo battaglione del Trentaduesimo reggimento.
Ritornai in linea. Appena arrivato mi mandarono a quota 100, servente al pezzo al comando del capitano Mai. Tre, o quattro giorni dopo, formarono un gruppo di portaordini con ventiquattro soldati. Ci chiamò un colonnello e spiegò com'era il nostro servizio: "Portaordini e guardafili della Fanteria al viadotto della ferrovia. Così farete a turno quindici giorni in linea e quindici a riposo in una vecchia fornace, di nuovo altri quindici in linea e, dopo, quindici di licenza premio. E al ritorno al solito servizio". Ci davano la licenza premio perché quello era un lavoro molto pericoloso.
Per aggiustare i fili del telefono e quelli del casello ferroviario, spezzati continuamente dalle cannonate che piovevano, con tanti grovigli di fili e il piccolo apparecchio da campo, si doveva stare molto allo scoperto, anche per rimettere i fili ognuno sulla linea giusta. Ma si aggiustavano volentieri, perché quando non funzionava il telefono, toccava a noi portare gli ordini ai comandi.
La sera che partii per la trincea salutai il mio compaesano Paolo Pecini. Gli dissi che, appena fatti i quindici giorni, se tutto andava bene, sarei stato di ritorno: "Così beviamo una bottiglia insieme. Se morissi, avvisa i miei".
Passai quindici giorni fra il pericolo e i pidocchi. Ci comandava il tenente Vignetti. La sera stabilita per andare a riposo diedero a tutti il cambio, meno che al sottoscritto, perché quello della batteria che doveva sostituirmi restò ferito per la strada e marcò visita. Così dovei restare lì.
Pure al tenente Vignetti diedero il cambio. Venne il tenente Carboni di Bologna. Passarono quattro giorni e il cambio non veniva. Allora parlai al tenente Carboni. Gli dissi: "Faccia un fonogramma al mio comando che io resto qui altri dieci giorni. Così avrò trenta giorni tra riposo e licenza".
Intanto l'amico Pecini, non avendomi più visto, pensava che fossi restato ferito, o morto. Una bella notte di fronte calmo venne a trovarmi per sapere che fine avevo fatto. Quando mi vide in salute gli scappò da piangere.
Lo ringraziai tanto del pensiero e lo pregai di ritornare al suo reparto, perché lì non era posto per lui. Era poco abituato alla trincea dato che era appuntato e stava sempre al reparto cavalli: "Io ormai mi sono abituato. Come vedi, passo in questo inferno trenta giorni, pieno di pidocchi, barba lunga e tutto sporco di questa mota gialla -perché quando pioveva era tutto un pantano- Paolino, se la mia fidanzata e mia madre mi vedessero in questo stato, chissà quanto piangerebbero!". Ci baciammo... "E se non mi capita niente, il diciassette notte sarò a trovarti. Molti auguri!".
Finalmente, il giorno stabilito mi diedero il cambio. Mi chiamai affortunato, perché tutti i portaordini non tornarono. Andai al reparto cavalli e la mattina al reparto dell'amico Pecini, distante quattrocento metri. Per alcuni giorni si passarono delle ore insieme. Votammo qualche bottiglia per scacciare i pensieri, parlando del nostro piccolo paese di Montale. Dopo un po' di giorni lo trovai con la febbre a trentanove: aveva preso la malaria. Perché in quella zona c'erano degli zanzaroni che non ci lasciavano in pace.

* * *

Fu proprio in quei giorni che mi decisi a smettere di fumare. Di sigarette e sigari ce ne portavano di ogni specie, quante se ne voleva. Io fumavo, ma fin da bambino mi ero giurato di non viziarmi come tanti. Mi tornava sempre alla mente dei vecchietti che avevano pochi soldi e si accontentavano di masticare una cicca.
Io dicevo a mio padre che non intendevo viziarmi. Quando fui all'età di diciotto anni incominciai a fumare qualche sigaretta, tanto per far bella figura con le ragazzine. Allora mio padre mi disse: "Vedi, non volevi prendere codesto vizio e al contrario tu hai cominciato così da giovane". "Babbo -gli rispondevo- fumo sì qualche sigaretta, ma vi ripeto che non voglio viziarmi, perché questo è un vizio che voglio comandare io, e non farmi comandare". Fu proprio allora il momento buono per cessare, e non fumai più.
In quei giorni mi chiamarono al tribunale per il processo del fuocherello. Venne il mio tenente a farmi la difesa. Gli disse che io ero il meglio soldato della batteria. Così mi diedero la minima pena che può dare un Tribunale di guerra, e cioè dieci Lire di multa e il cambio di reggimento.
Dopo pochi giorni venne l'offensiva di Caporetto. Così andò tutto a monte per la licenza promessami. Mi rimisero servente al pezzo sempre con la mansione di tiratore.

CAPITOLO 2 - LA RITIRATA

Questo è il ricordo della disastrosa ritirata di Caporetto, che sto scrivendo sotto una tenda, ad Asolo, con quindici giorni di rigore per aver mangiato una scatoletta di carne, che ora vi spiegherò la storia.

Durante la ritirata si trovarono tante casse di scatolette. Pensammo di caricarle sul carro bagagli. Così, quando si giunse ad Asolo, il capitano Mai ci consegnò quattro scatolette per ciascuno, tanto per poter alleggerire il peso del carro. Perché pure i cavalli non si reggevano più in piedi.
Venne la sera. Io e un mio compagno, Andreoli di Modena, andammo da un contadino. Aveva fatto la polenta. Ci fecero festa e noi si approfittò della loro accoglienza. Ci mettemmo a tavola e mangiammo una scatoletta per uno, sia io che il mio amico.
La sera di poi il Capitano ci mise in riga e volle vedere le scatolette che ci mancavano. A ogni soldato che gliene mancava qualcuna lo faceva registrare dal furiere. Lì per lì non ci disse niente, ma a sera ordinò di fare la tenda e passare alla prigione con quindici giorni di rigore. In tutti eravamo 46, che ci mancava qualche scatoletta.
Io e Andreoli prima che ci dicesse della prigione eravamo ritornati da quel contadino che ci aveva invitato la sera precedente. Quando il Capitano andò a fare l'appello ai prigionieri, gli si risultò mancanti. Allora il furiere mandò due soldati a cercarci. Ci trovarono e ci dissero quello che ci attendeva. Il Capitano ordinò al tenente Giannuzzo che oltre i quindici giorni di rigore ci legasse alle ruote del cannone dalle ventitré alle due, per tre sere di fila.
Il capitano non tenne conto che le scatolette le avevamo trovate noi e che, se non si fossero prese, dopo qualche ora passavano nelle mani degli Austriaci. Non tenne conto che avevamo passato tanti brutti momenti e tanta fame. Non pensò che quando ci eravamo messi in cammino per la ritirata eravamo centosessanta soldati, al completo della batteria, e al momento che ci ordinò di passare alla prigione eravamo restati solo novantasei.
In quel momento i servizi di guardia erano molti. Così si accorse che, con quarantasei sotto la tenda, non poteva completarli. Allora la mattina di poi mandò il sergente di settimana ad avvisarci che chi voleva fare servizio escisse fuori. Così poteva usufruire del rancio, se arrivava.
Io per far piacere al capitano non volli escire. Preferii mangiare pane e acqua. Mi feci portare un quaderno e una matita e lì, in quei quindici giorni, feci il mio diario della guerra. Conservo ancora quel quaderno, ma dopo più di cinquanta anni è quasi illeggibile. Così ho pensato di trascriverlo qui.

* * *

Il ventuno ottobre mi trovavo in località Adria, nei pressi delle saline di Monfalcone come servente al pezzo dell'Ottava batteria del Secondo Gruppo, al comando del Maggiore Giovannozzi. Il nemico, il giorno ventidue, incominciò a sparare delle raffiche col piccolo e medio calibro sui nostri camminamenti. Con le artiglierie pesanti battevano le retrovie e l'abitato di Monfalcone medesima e dei paesi retrostanti. Qualche colpo veniva pure vicino alle nostre piazzole, senza però impressionarci, perché oramai eravamo tutti abituati a quelle raffiche intense, e a pericoli maggiori di quel giorno.
Nei giorni ventitré e ventiquattro e nella notte del venticinque, il nemico aumentò il tiro di distruzione e logoramento. Tanto che c'era un sibilo continuo seguito da un rullo tambureggiante di colpi di cannone di ogni calibro. Noi si rispondeva solo con qualche colpo. In lontananza sentivamo, sulla nostra sinistra, che infuriava una gran battaglia con spari di mitraglia e fucileria. Fra noi ci si domandava: "Saranno i nostri che attaccano, o sono venuti avanti gli Austriaci?". Ma chi sapeva niente? Gli ufficiali che ricevevano i fonogrammi forse erano a conoscenza, ma a noi soldati non ci dicevano nulla. Il giorno venticinque, alle undici, venne l'odine di preparaci per spostasi da quelle posizioni. Infatti alle quattordici arrivarono i cavalli con gli avantreni . Ci attaccammo i pezzi e si partì per Villa Morosini, dove c'era tutto il careggio e i cavalli. Sostammo lì per tutta la notte.
Alle sei del giorno di poi ci mettemmo in marcia, senza sapere dove di portavano, perché gli ufficiali tenevano tutto segreto. Passammo per San Valentino, Villa Vicentina, Cervignano, Torre di Zuino e tanti altri piccoli paesi che ora mi sfugge il nome. Alle tredici si giunse sotto i forti di Palmanova, dove, in quelle belle praterie, si fece sosta di un'ora. Così biada e foraggio ai cavalli, per rinfrescarli, e rancio a noi soldati.
Alle quattordici si ripartì per la via che porta a Cormons. Attraversammo tanti villaggi. A sera lasciammo la via che conduce a Cormons e ci fermammo alla sua sinistra, in un piccolo paese chiamato Quattro Vènti. Lì si restò accampati per tutta la notte. Ci diedero mezza scatoletta e pane. E poi provammo a dormire a quel sereno. La mattina di poi ci saremmo dovuti andare a mettere in posizione sulle montagne di Gorizia. Ma sui monti correva voce che fosse un uragano di ferro e fuoco. E dai feriti che venivano giù si poté capire che i nemici avevano rotto le nostre linee e stavano per giungere a gran passo nella pianura goriziana.
Il ventisette il nostro comandante credé inopportuno fare resistenza, perché eravamo minacciati di accerchiamento. Alle undici ci giunse ordine di rimetterci in marcia. Ci diedero un po' di riso cotto nell'acqua e un po' di Torigiana. Alle dodici si ripartì e ci fecero fare marcia indietro sulla via che avevamo fatto il giorno prima. Camminando fino a sera inoltrata, si passò da tanti paesi. E la folla di borghesi piangeva al nostro passaggio, perché il nemico non avrebbe tardato tanto ad arrivare alle loro case.
I signori erano già scappati quasi tutti. Ma la povera gente, senza mezzi di trasporto, doveva restare lì e aspettare la sorte che gli toccava. Erano fanciulli, donne, vecchi, costernati dal dolore per l'invasione tedesca.
Ci fermammo alle ventuno, a due chilometri circa dalla città di Udine. Durante il viaggio si era visto Cividale avvolta dalle fiamme. Perché i nostri, prima di andar via, incendiavano tutti i magazzini militari. Appena fatto alto in un bel prato, ci diedero mezza scatoletta e una galletta a testa. Nella notte il cielo si fece scuro e poco dopo la mezzanotte cominciò a piovere a dirotto. Per essere riparato dall'acqua, con quattro amici, andai sotto un ponte. Accendemmo un bel fuoco e lì pensavamo di passare la notte.
Ma la nostra triste storia non ci dava sosta. Alle due del mattino venne l'ordine di rimettersi di nuovo in marcia per andare ancora indietro e portarsi aldilà del Tagliamento. Ma soprattutto per non farsi prendere prigionieri. Partimmo sotto una fitta pioggia che in poche ore rese le nostre vesti zuppe d'acqua.
Era sabato notte. Per arrivare al ponte del Tagliamento ci saranno stati nove chilometri e io ero a cavallo. Se avessi avuto la strada libera, in un'ora avrei passato il ponte. Ma la strada era tutta piena di gente che scappava. Era una lunga, infinita processione di profughi. Soldati, carri militari e borghesi della città di Udine e dei paesi circostanti si portavano tutti aldilà del Tagliamento, per non restare nelle mani del nemico.
Anche la domenica piovve tutto il giorno. Alle venti, sempre sotto l'acqua, facemmo sosta per un'ora lungo la strada. Demmo biada e foraggio ai cavalli e si ripartì per la nostra destinazione. Non si poté passare il ponte di Codroipo, che il lunedì mattina, all'incirca alle otto. E sotto questo cielo carico di nuvoloni, di piovere non volle smettere un momento. Si sembrava pesciolini, in più senza riposo e con poco mangiare.
Dopo tante tribolazioni, in quelle notti di fame e di freddo, con le vesti mézze d'acqua, si credeva che, passato il ponte di Codroipo, ci dessero un po' di riposo. Magari fermandoci in qualche casa, per asciugarci e mangiare un poco. Al contrario arrivò l'ordine di portarci a Spilimbergo, sulla via che conduce nella Carnia. Così dei cavalli ogni tanto ne cascava uno, per non rialzarsi più. E pure noi si dové viaggiare a piedi.
A mezzogiorno del ventinove si fece sosta in un piccolo paese di cui non ricordo il nome. Intanto, dalla mattina, era venuto un po' di sole e i vestiti incominciarono ad asciugarsi addosso. Ma cambiarsi non si poteva, perché, con tutta l'acqua che era venuta, pure le valigie erano bagnate. Ci diedero del riso, tanto per riscaldarci un poco le budella. Ma noi si trovò anche della polenda e ci potemmo ristorare. Alle quattordici, dopo due ore, si ripartì. Ma non si veniva indietro, come nei giorni passati. Al contrario ci riportavano lungo il Tagliamento, per proteggere bersaglieri e fanti nella ritirata.

* * *

A sera si fece alto in un bel prato, quattro chilometri sopra Spilimbergo. Data la grande stanchezza, mi buttai sotto una pianta, giù per terra con lo zaino sotto il capo. Nella notte incominciò a piovere di nuovo, ma io non mi destai che la mattina del giorno dopo. Ero nel mezzo all'acqua. Non avevo che il capo fuori, perché in quel punto il prato faceva un avvallamento.
Per dimostrare quanto tempo ero stato nell'acqua ne faceva fede un portafogli che avevo nella tasca della sottoveste. Era di pelle nera. Piano, piano, in tutta la notte, smontò il colore e mi fece doventare tre fogli da dieci Lire tutti neri, che non potei spenderli. Così, dopo, a Campo San Piero trovai un amico, Giovanni Gori di Montale, e mi diede lui dieci Lire in prestito, perché ero in bolletta.
Nella notte avevano fatto la spesa e ammazzato una vacca. Fecero cuocere la carne e prepararono il brodo. All'una chiamarono il rancio e lo diedero a tutti. Ma io non potei prenderlo, perché, come ho detto prima, ero a dormire nell'acqua. E disgrazia volle che non mi destai che la mattina del giorno dopo. Appena alzato da quella piscina, alle sette, presi un po' di caffè e ci mettemmo in cammino. Tutti avevano mangiato e viaggiavano bene. Ma io mi sentivo così giù di forze, che mi ero accorto che non potevo andare più avanti. A rimanere lì mi dispiaceva lasciare gli amici: e poi restare nelle mani del nemico! Ma la fortuna mi volle assistere.
In quel momento così triste si avvicinò un bambino. Mi guardò e mi disse: "Vi sentite male soldato?". Io lo guardai e gli risposi: "Puteo -in dialetto- ho tanta fame". Quel bambino partì a corsa avanti a noi. Dopo trecento metri si riavvicinò e mi diede un bel pezzo di pane alla contadina. Non potei trattenere le lacrime. Lo presi in braccio, lo baciai e gli dissi: "Tu mi hai salvato la vita. Sei stato tanto bravo. Il Dio ti darà sempre fortuna!". Di tanto in tanto davo un morso a quel pane e una bevuta nelle fosse lungo la strada. L'acqua non mancava, perché pioveva a dirotto. Era gialla, ma la sete è brutta.

* * *

Continuò a piovere per tutto il giorno, tanto che eravamo bagnati di nuovo come nei giorni precedenti. A mezzogiorno facemmo alto lungo la strada, per foraggiare i cavalli. Ci diedero anche una pagnotta e del formaggio. Così ci sfamammo dopo tanti giorni di ansia.
A sera si fece sosta a Fagagna, vicino al Tagliamento, sulla via che conduce in Carnia. Stesi una coperta che avevo salvato dall'acqua, vicino alle tende, e mi gettai sotto i cassoni che servono per portare le munizioni. Il paese era quasi tutto sgombrato dalla popolazione, stanti i colpi che vi arrivavano. I paesani erano fuggiti improvvisamente, portando seco che poca roba.
Nella casa di un fornaio trovammo dell'abbondante farina di grano e pure del lievito. Allora io e due miei amici avemmo l'ordine dal signor Capitano di fare il pane, perché ormai in quei posti non se ne trovava. C'era anche un fiasco d'olio e un sacco di fagioli bianchi. Io approfittai dell'occasione e ne misi a cuocere una marmitta in forno. E mi feci pure un bel covaccino all'olio. Così passammo la giornata del trentuno, rimettendo i conti dei giorni precedenti.
Il primo novembre ci diedero il rancio solito, con una pagnotta che avevamo fatto il giorno avanti e vino a volontà, perché in quei posti se ne trovava ancora. Il giorno due, senza pane, ci furono date solo due gallette. Il giorno tre carne e brodo: avevamo ammazzato una vacca lasciata da un contadino. Era scappato, perché lì piovevano già dei grossi marmittoni. La mattina del tre, prima del giorno, ci fecero spostare. Piazzammo i pezzi in cima a una collinetta, in un campo di granturco lungo il fiume. Ci ordinarono di aggiustare il tiro per sparare sulle strade che portano al ponte e impedire il passaggio al nemico. Siccome c'era salita, ogni pezzo fummo costretti a tirarlo su con le funi, in molti soldati. La sera, appena fu buio, si portarono tanti proiettili sul posto. Fino a dopo mezzanotte scendevamo e risalivamo con sei granate per volta, messe in una sacchetta, che quasi sembrava impossibile portarcele. Dietro le piazzole della batteria si fece un monticello di proiettili: saranno stati 1.600 colpi. All'una facemmo le tende e andammo a dormire.
Ma nella notte, alle tre circa, ci destammo. Incominciò, d'ambo le parti, un gran bombardamento, con mitragliatrici e fucileria. Avemmo l'ordine di stare ai pezzi, pronti a far fuoco, ma a noialtri non ci fecero sparare che due colpi, perché troppo in vista del nemico. Si doveva sparare appena si fossero avvicinati al ponte. Dopo un po' di calma, tanto che alle quattro eravamo tornati a dormire, la mattina alle cinque e mezzo ci fu un nuovo attacco nemico. Fummo destati dagli uomini di guardia e si corse alla batteria. Aprimmo il foco pure noi con i nostri quattro pezzi.
Ma incominciò il giorno che si poté vedere il ponte saltato sotto i colpi dei nostri cannoni e delle mine del Genio. Gli Austriaci passavano il Tagliamento lo stesso, a guado. Che fare? Sparare no, perché ormai li avevamo alla distanza di soli quattrocento metri. Se si fosse sparato, in pochi minuti, si sarebbero visti venire da noi a circondarci.
Non ci restava altro che salvare la batteria e scappare, perché si vide che si avvicinavano. Allora, per ordine del Capitano, calammo i pezzi con le corde nell'altro versante della collina. Faticammo nel massimo silenzio. Era duro tenerli per la discesa, con le ruote legate e la coda per terra. Tanto che uno non si poté più reggere e andò a ruzzoloni nella strada, dove si ruppe completamente una ruota. Ne avevamo di ricambio e si poté portare via anche quello. Ma si cercava di fare alla svelta, per scappare e non restare nelle loro mani. Con le artiglierie battevano la strada dove eravamo incolonnati. Mentre eravamo tutti pronti per partire, un colpo uccise l'attendente del Capitano e il cavallo che trainava il suo barroccio.
Il Capitano ci disse: "Ragazzi, se qualcuno di voi ha coraggio, dovreste andare a riprendere i pastrani , un po' di coperte e la vostra roba, perché non avete più niente per coprirvi". Ci guardammo in faccia io e due milanesi. Si decise di risalire sul monte noi tre. Quando fummo in cima si vide che i nostri nemici, salivano su per il monte dall'altro versante, alla distanza di trecento metri da noi. Salivano su a capo basso e non ci videro.
Allora arraffammo un po' di coperte, pronti ad alzare le braccia, se ci avessero visto. Prendemmo la nostra roba, ma poca degli altri, che avevano lasciato tutto e se l'erano data. Si fece marcia indietro, con la fronte rivolta al nemico. E, appena dietro la collina, via giù a gambe levate.
Nel tempo che si scendeva il monte, i nostri scapparono coi cavalli in trotto battuto, per non farsi prendere dagli Austriaci. E noi restammo a piedi con quella roba sulle spalle. Per fortuna non calarono giù in basso. Si fece il consiglio di famiglia: "Se ci prendono, chissà quanta strada ci fanno fare a piedi per portarci in un concentramento!". "Allora è meglio camminare verso i nostri, così si può sperare anche di ritrovarli". Si gettò via un po' di coperte. Si tenne la nostra roba e via, a passo svelto tra quei monti, per non farsi prendere. Noi eravamo proprio gli ultimi, perché anche le retroguardie le avevano prese tutte prigioniere.
Si credeva che fatti tre, o quattro chilometri ci avrebbero aspettato. Invece avevano continuato la strada senza di noi. Allora, per alleggerirci di peso e poter camminare più lesti, gettammo via proprio tutta la loro roba. Perché i nemici ci inseguivano a gran passo, tanto da non darci tempo neppure di fermarsi un momento per poter riprendere fiato. Se si fosse fatto alto anche per cinque minuti, si sarebbe restati nelle loro mani. Perché orami anche la fanteria di prima linea era stata fatta tutta prigioniera, o era già fuggita indietro come noi, che coraggiosamente ce la davamo a gambe.
Dopo aver fatto sette chilometri circa, fino alle undici, trovammo un piccolo paese. Ci si mise subito a cercare un boccone da mangiare. Ma si poté avere solo un po' di mele e di Marsala. Comprammo un chilo di mele e una bottiglia da mezzo litro e si ripartì. Dalla fame si mangiò camminando e si bevve la Marsala nella borraccia. Ci prese male di stomaco, ma si continuò il nostro cammino. Di tanto in tanto arrivavano delle cannonate anche lungo la strada. Tiravano per battere la nostra ritirata.
Dopo aver percorso altri chilometri, almeno per tre ore, si giunse in un paese dove c'era un fornaio. Ci vendé un po' di pane. Poco più avanti si trovò una fiaschetteria e bevemmo un litro di vino, mentre l'oste impaurito correva di qua e di la. Ma in quel momento tiravano molte cannonate su quel paese, tanto che i pochi borghesi rimasti non facevano che piangere, dovendo rassegnarsi ad abbandonare la propria casa.
L'oste dove eravamo noi preparò in fretta la roba che poteva portare seco e scappò. Io andai in cucina. C'era una grossa marmitta che bolliva. Approfittai dell'occasione. Presi il forchettone e tirai su due pezzi di vitellina da latte di quasi un chilo e mezzo ciascuno. Ne misi un pezzo nel tascapane, i miei due compagni presero due forme di formaggio da dieci chili e via da quella casa. Ci rimettemmo in cammino.
Appena fatto un chilometro entrammo in un bosco. Lì si mangiò la vitellina e il formaggio. Così ci potemmo levare la fame. Ma cannoni e fucilate non davano tregua. Allora via di nuovo. Si dové lasciare la strada e andare attraverso la campagna, perché la strada era troppo battuta.
Si camminò fino alle nove di sera. In un piccolo paese, distante dodici chilometri da Maniago, si fece alto, ma non c'era più nessuno. Tutte le case erano state abbandonate dai borghesi. In una di esse si trovarono due polli e due agnelli. Pensammo di cuocere i polli per meglio custodirsi dopo tanti patimenti e i due agnelli si mandarono in libertà per la campagna. Avevamo tutto l'occorrente e potemmo cucinare i polli alla cacciatora. Il vino c'era a volontà, mentre il pane andammo a prenderlo in una sussitenza lì prossima.
Quando si fu mangiato venimmo fuori della casa. Proprio in quel momento passò il nostro cuciniere. Così, da lui, si poté sapere dove si trovava il nostro careggio e com'era andata alla batteria e ai pezzi. Ci indicò la strada. Così, per ritrovare i nostri compagni, ci si mise in cammino per quattro chilometri. Si vide dove erano piazzati, ma pensammo di non farci vedere, perché avendo camminato per tutta la giornata, non potevamo riprendere il nostro servizio al pezzo. Così si pensò di stare distanti da loro. Andammo a dormire in una casa. Ci buttammo nel nostro letto giù per terra e lì dormii benissimo per tutta la notte, dopo tante notti insonni. E fu così che si ritrovarono.

* * *

Non mi destai che la mattina alle sette, perché i nostri pezzi da 75 incominciarono a sparare a non più di venti metri da quella casa. Erano tutti piazzati in mezzo a una strada. Ritornai al mio posto di tiratore. Non ci dissero niente, perché sapevano che ci avevano lasciato loro. Si sparava dei colpi accelerati nelle retrovie nemiche. Un colpo mi fece perdere l'udito e restai sordo. Allora il capitano mi fece passare forgiatore e tiratore fu un altro. Alle dieci ci diedero una mezza razione di brodo e niente pane. Si terminò appena di mangiare che i nemici presero a sparare colpi contro di noi. Arrivavano tanti colpi di medio calibro che il Capitano pensò di farci abbandonare i pezzi per mettersi al riparo. Ma dove si poteva andare, che non c'erano né trincee, né ricoveri? Di nuovo tribolazioni.
Ci gettammo tutti allungati per terra dietro il ciglio della strada, tanto per ripararsi da qualche scheggia. Intorno a mezzogiorno passarono i bersaglieri ciclisti e ci dissero di scappare perché avanzavano a gran passo. Infatti, dopo poco, si incominciò a sentire le pallottole di mitragliatrice fischiare sopra le nostre teste, perché la strada era più bassa dei campi, così passavano tutte alte. Le vedette del nostro battaglione informarono il Comando di Gruppo che il nemico ci minacciava sui fianchi, mettendoci in pericolo di accerchiamento.
I nemici comparsero alla nostra sinistra, dalla strada che viene da Spilimbergo. Si vedevano su una piccola collinetta, distante da noi un chilometro, discendere precipitosamente verso la piana. Il Maggiore Giovannozzi ci fece spostare un pezzo e facemmo fuoco lungo una strada. Venivano giù che sembravano mezzi ubriachi. Si sparava a alzo zero, perché erano molto vicini, forse duecento metri, e facemmo un macello.
Mentre si faceva fuoco, vennero con gli avantreni. Agganciammo i cannoni per scappare. Per attaccare il mio si presero le cosce del pezzo io e il soldato Pavone. Lui disavvedutamente alzò un poco la testa. Lo prese una pallottola. Lo passò da parte a parte e gli spezzo la lingua. Lo presi, mi gettai sulle cosce del pezzo e a trotto e galoppo si scappò. Dopo aver fatto circa tre chilometri si face alto. Col pacchetto di medicazione si fasciò un po' alla meglio il povero Pavone, ma non potevamo sapere quanto poteva resistere. Allora gli ufficiali consigliarono il ferito di proseguire la strada da solo, con la speranza di trovare un posto di medicazione. Di lui non ho saputo più niente.
Intanto mi era passata la sordità. Così ripresi il mio posto. Il Maggiore Giovannozzi salì su un albero e ci fece aggiustare il tiro. Poi ci disse: "Ora fate fuoco con questi dati di tiro finché avete proiettili". Fuoco accelerato e in un momento si finirono tutte le granate e i proiettili shrapnel.
Dopo ci si rimise in cammino fino alle sei di sera. Passammo il Sile. I cavalli erano come noi, poco mangiare e di viaggiare non ne potevano più. Spesso qualcuno si gettava per terra e lì restava. Per traversare l'acqua si dové scendere noi dal nostro posto sugli avantreni, o i cassoni. Io sedevo accanto alla cima del pezzo, che è il posto del tiratore. Per traversare e uscire dalla ghiaia del fiume fummo costretti a bagnarci.
Si fece alto verso le nove di sera. E, dopo aver camminato tutto il giorno, ci diedero una galletta. Ci si mise tutti per terra a riposare, ma verso mezzanotte incominciò a piovere. Così si fu costretti a rimetterci in cammino. Ma non solo per l'acqua, anche per il nemico, che ci stava sempre vicino.
Si camminò fino a giorno. Intanto era cessato un po' di piovere. Ci fecero fare alto a Pordenone. Venne un generale e ci fece l'encomio solenne per il bombardamento che ci aveva ordinato il Maggiore Giovannozzi, comandante del nostro Gruppo. Ci disse: "Non per fermarli, perché fino al Piave non c'è niente da fare. Però col fuoco che faceste voi in quel punto hanno avuto molte perdite". Perché per la strada dove si sparò venivano mezzi ubriachi a branchi. "Così sbandati, il loro arrivo al Piave è un po' ritardato. E i nostri si stanno preparando per non farli avanzare".

* * *

La sera si partì per Sacile. Nella notte facemmo alto per qualche ora e dopo ripartimmo per Conegliano. Ci portarono dentro un recinto dell'Ospedale. Chiusero i cancelli e di lì non si poteva scappare. Ma io e il mio compagno d'avventura, Pizzamiglio di Milano, si saltò il muro e via per la cittadina, per vedere se si trovava qualcosa da mangiare.
Quando si fu nel centro di Conegliano, mi fermò un soldato di fanteria e mi disse:
"Artigliere, ne avete trovati soldati del 233 Fanteria?". Gli risposi che non ne avevo incontrati. Ma, riguardandolo bene in faccia, riconobbi che era un mio paesano, Fioravante Bardi. Mi disse che l'avevano lasciato di guardia a un carro ferroviario pieno di pagnotte. Allora andai con lui. Si presero due pagnotte per uno. E pure lui venne via, perché la sua compagnia non l'aveva più cercato. Disse: "Vado indietro per vedere se li posso ritrovare". Lo salutai. E io e Pizzamiglio si fece ritorno nello Spedale. Non c'era più nessuno. C'era solo un cavallo sellato. Saltai a cavallo e via fuori, per vedere se potevo ritrovarli. Ne domandai. Così potei sapere che erano tornati indietro a piazzare ancora i pezzi fuori di Conegliano.
Appena fui fuori di Conegliano imboccai un strada tutta diritta per più di due chilometri. Mentre avanzavo col mio cavallo, a trotto battuto, vidi, in lontananza, una colonna di soldati a cavallo che mi venivano incontro al galoppo. Mi fermai su una parte. Si avvicinarono e vidi che erano i miei compagni. Voltai il cavallo e via. Mi affiancai a loro. Potei sapere che non avevano fatto in tempo a piazzare i pezzi, perché gli Austriaci erano così vicini, che non gli era restato che darsela a gambe.
Più avanti di loro c'era l'ultima batteria del Quarantesimo. La fecero prigioniera. Così dei due reggimenti di artiglieria, il Quarantesimo e il Trentaduesimo, che avevano l'incarico di proteggere l'arme a piedi da Monfalcone fino al Piave, non era restato che la mia batteria, con pochi uomini e cavalli. Tanto che a Conegliano fecero proseguire quei pochi cavalli restati e i cannoni vennero a trainarli dei camion.
Si ripartì con grande difficoltà, perché era sempre pieno di truppa e borghesi. Passammo da Susegana sul Piave, da Arcade, Montebelluna e Asolo, dove feci la prigione e scrissi il diario. Poi, sempre coi camion, portarono i cannoni sul Piave, a Crocetta presso il Montello.

* * *

Arrivarono gli Austriaci. Non si tirarono tanti colpi perché eravamo con pochi proiettili. Ma pioveva e il Piave si gonfiò. Da quel momento fu come dice la canzone: "Si vide il Piave rigonfiar le sponde / Contro il nemico combattevan l'onde". Fu proprio così: portò via qualche piccolo ponte di barche. E quei pochi, che con grandi sacrifici, erano passati di qua, restarono nelle nostre mani.
Dopo poco tempo ci diede il cambio una batteria di Francesi. E la mia, così provata dal fuoco di tanti giorni, fu rimessa in movimento coi camion.
Si passò da Castelfranco e Campo San Piero, dove si stette fermi dieci giorni. Trovai l'amico Gori di Montale. Gli raccontai del mio lungo sonno in mezzo all'acqua. Gli feci vedere i tre fogli da dieci Lire, tutti neri. Ci provammo a spenderli, ma tutti li rifiutavano e, come ho raccontato in precedenza, il Gori mi prestò dieci Lire.
Questi sono i miei ricordi dal ventuno ottobre al diciannove novembre 1917.

CAPITOLO 3 - EPILOGO

Respinta l'offensiva di Caporetto, ci portarono a riposare a Carpi, nel mezzo della campagna. Con altri cinque soldati mi mandarono da un contadino. Dovevamo medicare e pulire sei cavalli con la rogna. Così eravamo isolati dagli altri. Si passò lì un mese.
Dal contadino si comprava il vino Lambrusco a casse. La sera si vegliava nella stalla con la famiglia e altre ragazze. Si stava lì fino a mezzanotte. In quei posti sono abituati a stare nelle stalle, perché c'è più caldo. I miei compagni ci restavano anche a dormire. Io invece preferivo salire la scala del fienile e andavo a dormire nel fieno. Faceva un freddo tremendo, da sette a dieci sotto zero. Ma il fiato delle bestie mi dava noia.
Riuscii ad avere la licenza. Così, dopo quindici mesi, potei riabbracciare i miei e la mia fidanzata, che al tempo della ritirata erano restati senza mie notizie per più di venti giorni.
Quei quindici giorni mi passarono in un volo. Alla fine non mi restò che salutare i miei e la mia fidanzata. Alla partenza cercavo di salutarli il meno che potevo. Perché nel momento che stringevo la mano, mi sentivo un nodo alla gola, pensando di ritornare alla guerra. Credevo che poteva essere, con molte probabilità, l'ultimo saluto.
Ripartii dalla stazione di Montale con il mio amico, Nello Gori. Lasciata la mia casa, io mi rifeci coraggio. Al contrario Gori, quando vide arrivare il treno, si mise a piangere come un bambino. Cercai di fargli coraggio e salì sul treno. Si vede che se lo sentiva che non sarebbe tornato. Infatti, dopo pochi mesi, morì.
Ci facevano viaggiare sui vagoni, come le bestie da macello. Sul vagone della tradotta su cui salii c'era questa scritta: "Posti per cavalli: 8. Posti per soldati: 40". Su un'altra cosa però rimuginavo, durante il viaggio: gli imboscati di guerra che avevo incontrato a Montale. E lì, in treno, mi misi a scrivere una lettera a loro indirizzata:
"Voi rimasti a casa, gente lestissima e coraggiosa, ogni mattina quando arriva il giornale, il vostro sguardo è subito rivolto al comunicato Diaz. Se non trovate in quelle poche righe la rioccupazione di Udine, di Conegliano, Cividale, Cervignano, e l'esercito austriaco messo in fuga, come prima facemmo noi, vi mettete a gridare che Diaz va coi piedi di piombo; che l'esercito italiano non va né in tinche né in ceci ; che i suoi alleati non sanno levare un ragnolo dal buco. Per Voi il Piave è una pozzanghera, il Tagliamento un rigagnolo, Udine una baracca di carta pesta, Cividale una capanna, specie sulla carta geografica, vero?
Per Voi dire milioni di combattenti sul piede di guerra è uno sport; farli andare per cento, duecento, trecento miglia un volo; approvvigionarli è come prendere la sporta e andare al mercato; uomini e cavalli hanno i piedi come Mercurio; i cannoni vanno da se, e si piantano al posto bell'e puntati; una testa di ponte, una trincera, una corrente lunga, che cosa sono per Voi, che sedete nei caffè? Ossi di formica.
In somma delle somme, Voi guerrieri delle colonne immobili siete come uno che vegli russando, o come le campane che chiamano gli altri, ma loro non entrano mai in chiesa. Ecco il tutto: Voi siete lì, col vostro comodo, a badare, o a far le viste di badare bene all'ordine del Paese, e noi, vostri paesani, vostri fratelli del settembre, siamo qua, di faccia al nemico, a stentare e a combattere. Voi vi mettete a tavola col nome di Dio, e lì, dalla minestra all'arrosto, macinate a quattro palmenti, senza nemmeno la noia di una mosca. Noi siamo invece qua, a rodere un tozzo di pane col sacco alle spalle, pronti a rompere i fasci tra boccone e boccone, per fare alle schioppettate e a cannonate, senza avere finito di mandarlo giù.
Voi, con le scarpine di pelle verniciata, girate qua e là, scansando i fossi e la mota. Noi invece facciamo miglia e miglia sui ghiareti dei fiumi e nel pantano fino al ginocchio. La sera dopo una brava bevuta, una brava fumata e una chiacchierata, andate, mugolando dal gusto, in un bravissimo letto. E noi poveretti, o ci buttiamo sopra un covone di paglia, o sulla terra nuda e al sereno.
Le gravi fatiche e i fieri travagli che vi siete presi Voi, sono montare una scala, leggere un giornale, sgolarsi a dire spropositi. E a noi toccano le marce forzate, i fossi da valicare, i severi comandi, la dura sferza del sole, della pioggia, del vento e della neve, e il fiero gusto di assoggettarsi a tutte le terribili necessità della guerra.
Intanto noi, a forza di sudore e di sangue, abbiamo respinto il nemico, superato un passo, aperta una breccia. Ci accampiamo come gente che ha compiuto un dovere, e ci prepariamo a fare altrettanto per il giorno di poi. Voi leggete quei fatti in tre dita di giornale, ne misurate il valore e il pericolo su quelle tre dita di comunicati Diaz, e con il muso lungo aspettate le altre tre dita del numero successivo. Eroi, eroi... Finisco perché mi ci viene stizza.
Il non vostro amico Elio della trincea, che sperando attende il giorno della nostra vendetta!"

* * *

Arrivato a Carpi raggiunsi quella casa colonica dove avevo lasciato i miei compagni. Ma provai un gran dispiacere, perché erano partiti di nuovo per il fronte. Il capitano mi aveva lasciato un biglietto che diceva così: "Nerucci, appena rientri dalla licenza prenderai questo mulo e, a tappe, ci raggiungerai ad Ala, nel Trentino. Ti fermerai ai comandi-tappa a Parma Mantova, Verona, Avio, per mangiare e far rifornimento al mulo".
Per arrivare ad Ala ci impiegai cinque giorni. Lì mi dissero che mi avevano passato al comando del Trentaduesimo Artiglieria, col tenente colonnello Bruno: "Si trova sul Chiezurone. Troverai un cartello". Fino ad Ala il mulo si comportò bene. Mi portava in sella come un cavallo. Ma, passato Ala, incominciò a sentire le cannonate. Allora mi faceva dietrofronte, perché chissà quante volte aveva visto morire muli e conducenti. Mi fece fare molta fatica per portarlo al posto. Dovei farla a piedi.
Finalmente arrivai al comando. Mi presentai al colonnello Bruno. Mi ricevé volentieri e mi disse: "Sono informato dal vostro capitano che siete uno di coraggio e io, appunto, ho bisogno di uomini così". Si restò in quei paraggi fin quasi a fine guerra. Lì sparavano sì, ma escire dal Carso e andare nel Trentino era come escire dall'Inferno e andare in Paradiso.

* * *

La sera del due novembre si partì a cavallo col colonnello e altri graduati. Passammo l'Adige e, il giorno di poi, entrammo a Rovereto. E la notte del tre novembre arrivammo a Trento. Finalmente, dopo tanti sacrifici riuscimmo a occupare la città. Però la mattina, quando fece giorno, di soldati italiani ce n'erano pochi e di nemici ancora molti. Ma si vedeva che erano sfiniti, e decisi a non combattere più.
Pure noi eravamo molto affamati. Ma per fortuna, nella stazione di Trento, avevano lasciato due vagoni di cavoli. Così, un po' crudi e in parte cotti nell'acqua, si poté riempire la pancia e dicevamo così: "O paglia, o fieno, basta che il corpo sia pieno!".
Verso le undici volarono sulla città due apparecchi che lanciarono manifestini. Dicevano che stavano per firmare l'armistizio. Non posso descrivere la gioia che si provò in quel momento. Circa alle sedici il colonnello si mise in testa alla colonna e via sulla strada che porta a Bolzano. Ci condusse fino a Lavis. Pure lì si provò un po' di paura, perché noi eravamo in pochi e loro molti. Anche il colonnello non era tanto tranquillo. Ci barricammo tutti in una casa. Si puntellarono le porte, pronti con le armi alla mano, se ci avessero attaccati. Ma non venne nessuno. Purtroppo qualche morto ci fu davvero anche quella notte e poco distante da noi.
La mattina incominciarono ad arrivare tanti reggimenti con le fanfare in testa. Così si fu più tranquilli. Però il Comando ci ordinò di non escire in meno di cinque, e armati, se si sortiva fuori per la città. Perché molti di loro si erano vestiti in borghese, per non farsi prendere prigionieri. E fra tanti c'erano ancora quelli decisi a combattere. Infatti qualcuno ci lasciò la pelle.
Vi voglio raccontare questo episodio. Avevo fatto amicizia con una ragazza che parlava l'Italiano. Tutti i giorni veniva a trovarmi all'accampamento. Finalmente un giorno volle che andassi fino a casa sua per farmi vedere dove stava e perché ci potessi andare la sera a veglia. Stava su per un piccolo sentiero a metà della collina. Una sera decisi di andare a trovarla. Entrai e mi presentò i suoi vecchi genitori. Mi disse che non aveva fratelli, né sorelle.
Quando furono quasi le dieci entrarono in casa tre giovani. Diedero la buonasera in Tedesco. Le domandai chi fossero e lei mi rispose che non li conosceva. Io ero armato. Ma difronte a tre colossi ci sarebbe stata da fare poca resistenza. Allora le feci capire che avevo voglia di fare un bisogno. Le dissi di far loro capire che andavo fuori, ma ritornavo subito: "Tanto lascio qui sulla sedia anche l'elmetto". Presi la porta e via giù per il sentiero. Forse non mi poteva capitare niente. Ma, al pensiero che spesso trovavano dei soldati italiani morti, io, dopo tanti sacrifici e avendo scansato tante, ma tante volte la morte, non ero certo il grullo che fa una fine così stupida.

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Dopo pochi giorni partimmo da Lavis. Si venne pochi chilometri sopra Schio. Ci colpì la Spagnola . Morirono molti ufficiali, tanto che una sera il colonnello mi mandò a Schio, nella stanza mortuaria, a portare due candele. Fra i tanti morti c'era il tenente Niccolai di Pisa, del mio reggimento. Ma ormai io avevo salvato la vita. Proprio allora mi capitò di rileggere con sollievo il testamento che avevo scritto nei duri giorni della trincea:
"Seppellitemi al cimitero sulla sera, quando il sole è appena tramontato; un solo prete per non fare fiera, veloce e senza scorta sia portato. Prima di cessare voglio dire a tutti: quando da questa vita sarò fori, vi prego di non portarmi lutti e non sciupar denari in rose e fiori. Per non tornare dopo il funerale, a dirvi molte cose son costretto, dato che non si pensa tutti eguale: ero spendereccio? Da morto sarò gretto. Non voglio uffizi dopo il funerale, perché, se da Dio fossi maledetto, se qua mi sono comportato male, è inutile bruciar cera, io l'ammetto. Quando un funerale assomiglia a una fiera penso che il fiato va tutto sprecato, perché se questa fosse cosa vera, il povero sarebbe ancor burlato. Un signore lascia denari per uffizi e canti, con tante messe e inni a perdifiato; così se è stato un peccatore avanti, potrebbe entrare in cielo anche un dannato. Io penso quel denaro sia sprecato: giustizia regna nell'Alto tribunale, non contano amicizie, né avvocato, sarà finito chi ha fatto del male. Per morte giusta il Signore ho pregato, tutto d'un colpo finisca di campare; così il dottore è bell'e dispensato e pure il prete non avrà da lavorare. Perdono tutti prima del funerale, e tu, Caronte, non ti dei crucciare, perché se ad insaputa ho fatto il male i conti col Signore devo fare."

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Nel gennaio si partì da Schio e a forza di marce si rientrò a Livorno. A tutte le tappe che si faceva alto ci avevano preparato grandi feste. Si fece tappa pure a Pistoia e Montecatini. Sulla salita della strada che porta a Collodi, ci si fermò per due ore: sigarette, da bere, paste e panini imbottiti. Vicino a Lucca balli in molte case. Poi a Livorno un gran ricevimento e banchetto.
Non pensavo mai però che finita la guerra il quattro novembre, a causa del Tribunale militare, avrei dovuto restare ancora sotto le armi fino al sedici agosto 1919. Alla fine non ho avuto né medaglia al valore, né pacco vestiario e nemmeno premi di congedo solo per aver avuto la scapataggine di scrivere quella lettera senza alcun fine di male. Spero che almeno la croce al merito mi verrà concessa.

Questo non è un romanzo, ma il racconto della vita che trascorsi dal diciassette agosto 1916 al sedici agosto 1919.

Elio Nerucci


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