DOSSIER

Il Petrolchimico di Brindisi (1969-1972)

di Tatiana Schirinzi

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2. L'insediamento dell'impianto di Brindisi e i suoi primi lavoratori

I lavori per la costruzione dell'area petrolchimica di Brindisi iniziarono nel marzo del 1959 e si concretizzarono con l'avviamento degli impianti nel 1962. Inizialmente il complesso faceva capo a due distinte società, seppur entrambe facenti parte del Gruppo Montecatini, ovvero la Polymer e la Montecatini: la prima possedeva gli impianti per la produzione del policloruro di vinile e la seconda quelli dell'area petrolifera. Le due società si fusero nel 1968 e l'intero complesso petrolchimico di Brindisi passò sotto la direzione della Montecatini/Edison o Montedison, con un'unica gestione: anche prima della fusione però i due stabilimenti, le cui attività erano peraltro ampiamente collegate, erano sostanzialmente viste come un'unica entità e a Brindisi ancora adesso quella mitica area, o quella mitica esperienza, si chiama solo "Montecatini".

Gli stabilimenti occupavano un'area che era, coi suoi settecento ettari, tre volte più estesa del centro abitato: il complesso sorgeva ai confini della città, oltre il cimitero, e ne occupava le spiagge e le campagne. Gigantesco e sorprendente "tanto più [...] [per] chi proven[isse] dalla città di Brindisi"10, l'impianto era suddiviso in sezioni e costituito da reparti lontanissimi tra loro, veri e propri stabilimenti a sé stanti, collegati, tra loro e con l'area portuale, con cinquantasei chilometri di strade interne e con un raccordo ferroviario di quasi trenta. Completavano il tutto due gruppi di palazzi con abitazioni per gli operai - dotati anche di alcuni servizi - e un nucleo di villette destinato ai dirigenti, costruiti tra il centro abitato e gli stabilimenti11.

Non aveva insomma l'area del petrolchimico molto di umano, ma piuttosto un che di soprannaturale, saturo com'era di "vapore e fuoco, minacce d'incendi e segnali di pericolo"12, che fecero facilmente dire agli abitanti che a Brindisi erano arrivati i marziani13.

La presenza delle imprese di costruzione - più di un centinaio tra edilizie e di impianto - creò già di per sé uno sconvolgimento nell'assetto occupazionale del territorio, andando ad impiegare, all'inizio del 1962, più di seimila lavoratori: una parte di questi finì poi per essere assunta nei due stabilimenti. I dipendenti nel 1964, a lavori completati e a due anni dell'avviamento, si assestarono sulla cifra di quattromilacinquecento14: a questi andrebbero aggiunti - non disponiamo tuttavia di dati precisi - circa tremila operai delle imprese appaltatrici che si occupavano sostanzialmente di manutenzione. I cosiddetti "centrali", ovvero i chimici, e i lavoratori "degli appalti" - e qui mi permetto di abbozzare, dal momento che le fonti tacciono quasi totalmente sui lavoratori non assunti direttamente dalla società Montecatini - non furono mai legati insieme, né nella visione dei sindacati, né nella percezione degli operai stessi: i lavoratori delle ditte appaltatrici si trovavano sempre in una situazione di maggiore precarietà, debolezza, disagio rispetto ai chimici della Montedison e le lotte degli uni e degli altri non si andarono mai a saldare.

La ricostruzione, piuttosto precisa, della fisionomia di questi primi "chimici", relativamente però al solo stabilimento Montecatini, è stata possibile grazie ad un'analisi sociologica realizzata da Franco Crespi pochi anni dopo l'apertura della fabbrica15. L'indagine compiuta dal Crespi si svolse precisamente nel 1963, in un momento in cui nello stabilimento erano impiegati quasi tremila lavoratori, di cui circa seicento impiegati: vennero raccolti i dati della quasi totalità degli operai - più di duemila - e un campione di cinquecento, tutto di provenienza locale, fu anche sottoposto ad intervista16.

Gli operai della Montecatini provenivano per due terzi dalla provincia brindisina e per il restante terzo, salvo qualche eccezione, dalle province pugliesi limitrofe. Avevano per metà un'età compresa tra i 21 e i 30 anni e per un terzo un'età compresa tra i 31 e i 50 anni. Pochi erano i giovanissimi e ancor meno i più anziani. Il 70% degli intervistati non aveva continuato gli studi dopo le elementari e solo l'1% era in possesso di un diploma. Solo il 7% dei dipendenti era precedentemente occupato nel settore agricolo, mentre, escluso un buon 18% privo di qualifica presumibilmente per via della giovane età, gran parte degli altri proveniva dalla piccola industria o da un lavoro dipendente di varia natura. L'indagine inoltre, in merito a titoli di studio e professioni, non si limitò ad analizzare la situazione degli operai, ma si allargò a considerare i dati relativi ai padri e ai nonni di questi: ne risultò da un lato un certo progressivo aumento, seppur non del tutto lineare, del livello d'istruzione tra una generazione e l'altra e dall'altro una massiccia occupazione nei settori agricoli delle generazioni precedenti, curiosamente peraltro più tra i padri che tra i nonni17. Gli operai del petrolchimico provenivano dunque per una metà da famiglie legate all'agricoltura, ma in realtà essi stessi lavorano nei settori secondario e terziario già prima dell'atterraggio della nuova impresa. Non si era insomma certamente in un mondo rurale, ma piuttosto, accettando la categorizzazione del Crespi, in un ambiente "preindustriale urbano", ovvero in un territorio in cui una lunga tradizione di artigianato e commercio aveva reso già totalmente cittadino lo stile di vita18.

Lo studio del Crespi, finalizzato ad analizzare i processi di adattamento e integrazione all'interno di un processo di industrializzazione in una data area, ci fornisce pure altre informazioni utili sulle maestranze e sull'impatto che ebbe sulle loro vite l'incontro col gruppo Montecatini. Il personale della Montecatini era organizzato sostanzialmente secondo tre livelli principali: vi era una fascia dirigenziale superiore, costituita prevalentemente da personale non locale, con molti contatti interni e pochi con le maestranze; una fascia intermedia, costituita dai capi sezione e dai capi reparto coadiuvati dagli assistenti tecnici, di varia provenienza; infine vi erano le maestranze, suddivise a loro volta in varie categorie19.

Il primissimo periodo dell'insediamento del complesso produttivo fu caratterizzato in generale da un tentativo da parte dei lavoratori di ricondurre l'impresa - questo gigantesco vessillo della modernità atterrato in città - al proprio mondo. In primo luogo nel senso che per le maestranze locali quest'atterraggio provocò una certa tensione: da un lato questa si esplicitava in un certo scetticismo rispetto alle effettive prospettive dell'iniziativa, che andava di conseguenza a creare irrequietezza nelle fasce dirigenziali, già trapiantate a Brindisi con tutte le difficoltà del caso; dall'altro consisteva invece nella frustrazione seguita al meccanismo di illusione/disillusione generato, in parte ad hoc, dall'iniziativa, ovvero alla creazione di eccessive aspettative nei confronti di un lavoro di cui non si conosceva di fatto la consistenza concreta e alla relativa delusione. Scetticismo e sovrabbondante carico di speranze coesistettero dunque, e si mescolarono, nei primi periodi di lavoro alla fabbrica. C'è anche da notare che all'epoca il lavoro considerato di maggior prestigio era, per la maggioranza delle maestranze, quello statale - fosse pure nel ruolo di usciere - e in un primo momento si credette che il lavoro in fabbrica fosse assimilabile proprio a quest'ultimo, ma ci si rese conto poi che si trattava di qualcosa di diverso. D'altra parte, o per certi versi analogamente, il lavoro in una grandissima azienda, pur con le sue relative stabilità e possibilità di carriera, non veniva considerato troppo appetibile, ma anzi veniva considerato in qualche modo socialmente degradante, parificato com'era a quello dell'operaio edile o pure in generale per le sue caratteristiche di non libertà, di subordinazione, simboleggiate dalla tuta che infatti veniva rifiutata. Il rifiuto della non libertà significava pure il rifiuto dei turni, notturni e festivi in particolare, e si concretizzava nelle molte, moltissime "assenze ingiustificate" che caratterizzarono i primi anni, nonché nei più di trecento casi di dimissioni che si ebbero nei primi due anni e mezzo. In secondo luogo nei tentativi di ricondurre l'impresa al proprio mondo si possono annoverare anche i tentativi di fagocitare il sistema sottoponendolo a pressioni clientelari: notabilati locali, partiti, sindacati - si parla soprattutto della CISL - tentavano di controllare le assunzioni, di utilizzarle per accrescere le proprie basi, il proprio potere, allargare il proprio seguito. Questi tentativi andarono a buon fine, nel senso che da subito si elusero le norme sul collocamento e le assunzioni avvennero tramite contrattazioni informali tra la direzione e i sindacati20.

La tendenza a comportamenti clientelari tipica del territorio si sposò peraltro ottimamente con i bisogni dell'azienda, che poteva in questo modo avere lavoratori docili e divisi: ciascuno vedeva la propria assunzione, e dunque il proprio lavoro, come qualcosa di strettamente personale e, potremmo dire, ottenuto "per grazia ricevuta". Infine le maestranze, non avendo familiarità con la struttura di una grande impresa, ricorrevano di frequente al salto della gerarchia, tentando di entrare in contatto direttamente con il capo più alto di grado, cosa che peraltro credo si possa mettere in relazione anche con la natura clientelare di molte delle prime assunzioni di cui si è appena detto. Ad ogni modo le più stridenti tra queste difficoltà di adattamento vennero, secondo il Crespi, rapidamente superate: il lavoro in fabbrica con le sue caratteristiche di stabilità salì nella scala dei valori di quei lavoratori e le sue specifiche caratteristiche tecniche vennero assimilate. Inoltre, io credo, la natura clientelare delle prime assunzioni non pesò all'infinito e non impedì, come vedremo più avanti, il dispiegarsi di ampi processi di lotta.



10. F. Crespi, Adattamento e integrazione, Milano, Dott, A. Giuffrè Editore, 1964, p. 31.

11. I dati tecnici sono stati tratti essenzialmente da un opuscolo promozionale pubblicato dal gruppo Montecatini presumibilmente nel 1962: Un futuro per Brindisi. Il nuovo complesso petrolchimico Montecatini, a cura di Montecatini. Società generale per l'industria chimica e mineraria, s. d.

12. Ivi.

13. Testimonianza raccolta da un'inchiesta televisiva svolta nel 1962 dal programma Viaggio nell'Italia che cambia, cit. in F. Anania, Cinegiornali, radio, televisione, p. 526, in Storia dell'emigrazione italiana, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Roma, Donzelli, 2001. L'espressione è riportata anche in P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 313.

14. F. Crespi, Adattamento e integrazione, cit., p. 21.

15. F. Crespi, Adattamento e integrazione, cit.

16. In quello stesso anno nello stabilimento Polymer lavoravano 711 dipendenti, si veda F. Crespi, Adattamento e integrazione, cit., p. 111. Vi era grande omogeneità tra i due stabilimenti in quanto a tipo di occupazione e a molti altri aspetti, dunque i risultati dell'indagine svolta dal Crespi allo stabilimento Montecatini possono immaginarsi valevoli anche per lo stabilimento Polymer.

17. La cosa è a mio avviso da mettere in relazione con l'ampio sviluppo dell'artigianato e del commercio che Brindisi conobbe a partire dalla metà dell'Ottocento e che via via, a partire dagli anni dieci del Novecento, declinò.

18. Cfr. F. Crespi, Adattamento e integrazione, cit., cap. I.

19. Ivi, p. 53.

20. Cfr. M. Stefanelli, Settore chimico e organizzazione della classe operaia, cit., p. 112.


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