Valerio Binasco e quel Mercante in tono minore

Superficiale approccio del regista a una pièce che invece avrebbe molto da dire sull’Italia di oggi. Cast poco convincente, ma apprezzabile Orlando nelle vesti di Shlylock. Al Teatro della Pergola, fino al 21 dicembre.

17 dicembre 2014 11:51
Valerio Binasco e quel Mercante in tono minore

FIRENZE - Convince a metà l’allestimento di Valerio Binasco del Mercante di Venezia, fra i testi shakespeariani più interessanti e indagatori della controversa natura umana, sfortunatamente affrontato in maniera superficiale da un regista che pure, ne La tempesta, aveva data una convincente prova drammaturgica.

Nella Venezia della fine del Cinquecento, Bassanio, giovane gentiluomo veneziano, spasima per la bella e ricca Porzia. Necessitando di denaro per corteggiarla degnamente, chiede tremila ducati in prestito ad Antonio, il mercante del titolo; momentaneamente sprovvisto della somma perché in attesa di rientrare da un investimento in traffici marittimi, si offre tuttavia di garantire per lui presso l’usuraio ebreo Shylock che non vede Antonio di buon occhio, poiché presta denaro gratuitamente, facendo abbassare il tasso d'interesse nella città. Per questo motivo, in caso di mancata restituzione della somma prestata, Shylock chiede una libbra della carne di Antonio, richiesta che alla fine gli si rivolgerà contro.

Punto focale della pièce, il confronto/scontro fra i due uomini, a fianco del quale s’inseriscono le vicende sentimentali di Bassanio e Porzia, Lorenzo e Jessica, Graziano e Nerissa. Da un lato, il gruppo di amici di Bassanio, dall’altra l’universo femminile della gentildonna e della sua serva.

Interessante la scenografia che nel suo minimalismo non manca di esprimere un certo fascino: lo sfondo d’oro scrostato sospende nel tempo una Venezia che colpì Shakespeare per la sua bellezza e rievoca da un lato l’Oriente delle icone bizantine e delle cupole di San Marco, dall’altro quei trionfi barocchi sporcati d’incenso che caratterizzarono lo stile della Controriforma, la cui aura di conformismo sfiorò anche la Laguna (da notare che Shakespeare scrisse questa pièce fra il 1596 e il 1597). Ai lati, le pannellature di un intenso blu scuro evocano i caldi ed eleganti interni dei palazzi nobiliari veneziani, in particolare Palazzo Fortuny.

Nonostante queste buone premesse drammaturgiche e sceniche, l’allestimento non riesce a svilupparne il potenziale.

La regia di Binasco ha il suo abituale tocco scapigliato - con alcuni incisi forse fuori luogo (vedi il bacio fra Antonio e Bassanio) -, fortemente radicato nella contemporaneità: la Venezia di fine Cinquecento è suggerita soltanto dalla scenografia, i costumi sono quelli di una borghesia dei nostri giorni, il linguaggio stesso appartiene al Duemila, con un’operazione drammaturgica di smussamento dei passaggi più complessi e delle metafore poetiche, in favore di un linguaggio quotidiano al limite del dimesso, quasi televisivo.

Ed è questa una delle prime cadute registiche: il linguaggio di Shakespeare è fra i più belli della drammaturgia mondiale, e pur adattandolo alla sensibilità del pubblico contemporaneo, è sconsigliabile annullarlo quasi completamente, di fatto rendendo al pubblico un cattivo servizio servendogli un qualcosa di banale e impersonale. L’altro aspetto poco convincente, è l’aver impostata la pièce quasi come una sorta di rinnovata commedia dell’arte, una nota che poco è in sintonia con il Grande Bardo; il suo umorismo è macabro, o sardonico nella migliore delle ipotesi, e la leggerezza che gli si vuole attribuire, in realtà non gli appartiene.

Su queste linee, la pièce mantiene vivo il duro confronto fra Antonio e Shylock, ma approfondisce ben poco le vicende quali l’amore di Bassanio per Porzia, di Lorenzo per Jessica (figlia ribelle di Shylock), e la crisi di coscienza di quest’ultima combattuta fra l’amore per l’uomo e l’odio per il padre.

Il controverso Shylock, ben interpretato da Silvio Orlando, è prigioniero della sua avidità, e insieme vittima dell’atavico odio che i cristiani provano per gli ebrei. Ammirevole, da un lato, per la coerenza dei suoi principi, seppur non sempre condivisibili, è tuttavia oggetto di pietà per quella freddezza che lo aliena dai sentimenti. Orlando dà vita un usuraio che si esprime con un misterioso accento mitteleuropeo, e dimostra sovrumana imperturbabilità nel soppesare la solvibilità di Antonio, nell’ideare la crudele clausola contrattuale, nel motivarla. È lo specchio di un’avidità umana acuita dalle umiliazioni subite, e Orlando rende con efficacia il dramma interiore di Shylock, con una prova attoriale che unisce fiducia in sé stesso alternata a una sofferenza esistenziale.

Dall’altra parte, Antonio, all’apparenza mercante onesto, che crede nell’amicizia e presta denaro senza interesse. Eppure, è mosso da un atavico odio per Shylock, all’apparenza dovuto a questioni religiose, in realtà dovuto al denaro. È questa, suggerisce Shakespeare, la causa principale delle inimicizie umane, e nulla è cambiato fino ai nostri giorni. Se ne deduce che il bene e il male non abbiano collocazione troppo netta, e quasi mai un uomo agisce nel nome di uno soltanto di essi. Un duello, questo, particolarmente affascinante e attuale, che però Binasco non riesce a sviluppare fino in fondo, perché la regia si perde in un approccio da “favola teatrale” che poco ha a che fare con l’atmosfera originale.

Andrea di Casa è un Bassanio incolore, Fulvio Maria Pepe (Lorenzo) e Simone Luglio (Graziano) portano sul palcoscenico una poco originale goliardia, e Nicola Pannelli è un Antonio poco credibile, dalla dizione falsamente rabbiosa. Offre invece spunti interessanti Sergio Romano che dà vita al servo di Shylock, quell’ingenuo Lancillotto metafora della difficile condizione di un uomo onesto in un mondo mosso dall’avidità.

Elena Gigliotti (Jessica) e Barbara Ronchi (Porzia) si muovono con l’energico piglio delle donne contemporanee, lontane dalle dame dei tempi di Shakespeare, mentre ci sembrainutilmente barocco il gesticolare di Milvia Mariglian, nelle vesti di una Nerissa (fedele serva di Porzia) che ben presto annoia il pubblico.

A poco servono i siparietti di cui sovrabbonda il secondo atto, più adatti al varietà che alla tragedia.

Ne risulta una regia che è un’occasione mancata per assestare un affondo a una società, quella italiana, vergognosamente regolata dal personale interesse economico, a scapito dello sviluppo e della credibilità del Paese. Le recenti inchieste legate all’infiltrazione camorristica nell’Expo e allo scandalo Mafia Capitale crediamo ne siano buoni esempi.

L’impressione è che anche Binasco si stia lasciando trascinare da quell’approccio di rilettura dei classici che ha avuto ne La bisbetica domata diretta di Konchalovskij e in L’importanza di chiamarsi Ernesto diretto da Geppy Gleijeses, infelici precedenti di cadute nel comico fuori luogo, e nella banale semplificazione di testi al contrario complessi, snaturando di fatto il teatro dalla sua naturale vocazione di arena di critica e dibattito, per ridurlo a banale intrattenimento formato tabloid. Ma il pubblico applaude, forse proprio per questo.

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