Rosso spento a Volterra

Una mostra diffusa, fino 31 dicembre 2015, affianca Rosso Fiorentino ad artisti contemporanei

24 maggio 2014 15:44
Rosso spento a Volterra

VOLTERRA (Pisa) - Un progetto ambizioso, come’è giusto che sia nei programmi di un’amministrazione che lavora per la valorizzazione del proprio territorio, ma che in questa occasione sembra puntare più sulla provocazione del sensazionale che non su reali contenuti artistici. Ideata da Alberto Bartalini e curata da Vittorio Sgarbi, più che una mostra, Rosso Fiorentino Rosso vivo. La Deposizione, la storia, il ‘900, il contemporaneo, si può definire un percorso di suggerimenti per ritrovare un possibile legame tra Rosso Fiorentino e l’arte contemporanea.

In senso assoluto, tutti gli artisti di qualsiasi epoca dialogano fra loro, nel senso che l’arte, dall’età della pietra a oggi, costituisce un lunghissimo percorso all’interno del quale l’umanità ha sempre modo di ritrovarsi, e certi atteggiamenti, sensibilità, attitudini, hanno comunque valenza universale, per cui le inconsapevoli affinità tra artisti fra loro distanti nel tempo e nello stile, sono più frequenti di quanto si pensi. A Volterra, si cerca di dimostrare l’attualità dello stile di Rosso attraverso opere di artisti a lui vicini, sembra, per senso drammatico, per il senso dell’assoluto, per la sintesi tra forma e astrazione.

Elementi, questi, che rasentano la forzatura del paragone, nel senso che sono stati frequentati a cadenze abbastanza regolari nel lungo cammino della storia dell’arte, e possono accomunare artisti fra loro diversissimi. Non dimentichiamoci come l’arte non riesca da tempo a trovare qualcosa di realmente nuovo, per cui è inevitabile che la lezione del passato ritorni con una certa frequenza. Com’è giusto, in fondo, perché certi modi di sentire ci sono propri oggi come cinque secoli fa. E nello specifico, un secolo tragico come il Novecento, porta inevitabilmente gli artisti che l’hanno vissuto, a istillare una certa atmosfera drammatica nella loro produzione, a prescindere dallo stile di Rosso Fiorentino.

Ovvio, il confronto può venire spontaneo, ma forse non coglie appieno le differenti motivazioni che muovono gli artisti.A lasciarsi trascinare dal gusto per i voli pindarici, di forzature se ne possono trovare senza difficoltà: volendo, non è arduo osservare come i volti grotteschi di George Grosz e William Hogarth ricordano da vicino certe opere di Pietro della Vecchia, pur non avendo, né Hogarth né Grosz, mai sentito nominare il pittore bolognese. Tuttavia, una semplice analogia di stile non basta a suffragare la vicinanza concettuale fra due artisti, che molto spesso convergono a uno steso risultato battendo però sentieri diametralmente opposti, o comunque molto diversi fra loro.

Se si tralascia di osservare le ragioni concettuali dell’opera di ogni singolo artista, e ci si limita ad accostarlo ora a questo, ora a quest’altro suo collega, da una parte si rischia di rendergli poca giustizia, dall’altra si priva una mostra d’arte di un filo logico ragionato.Pensando questo evento, l’architetto Alberto Bartalini ha voluto prendere le mosse dalla teatralità insita nella Deposizione, il cui impianto può essere affine, volendo continuare gli accostamenti con il Novecento, alla drammaturgia minimalista di Samuel Beckett, tragico cantore di una società sull’orlo della follia.

Spunto interessante, ma che si perde fra opere di scarsa qualità e l’eccessiva dispersione della mostra.Disgraziatamente viviamo in un’epoca in cui figure di sobria eleganza e raffinata intelligenza quali Alessandro Parronchi, Roberto Longhi, Luciano Berti, hanno lasciato luogo a tanta critica d’arte intesa come promozione di sé stessi, momento di ridicoli teatrini strapaese dove l’offesa gratuita corre con gran divertimento ruffianesco degli astanti, dove l’artista è mezzo per vantare o millantare l’acutezza del proprio occhio, e finisce per essere la vittima compiacente di un’operazione commerciale anziché, appunto, artistica.

E troppo spesso una mostra d’arte diventa pretesto per logori eventi mondani, ricerca di riflettori, di platee compiacenti, che, se garantiscono visibilità, non sempre raggiungono la desiderata credibilità artistica. Su queste premesse, la non originale mostra di Volterra, distribuita in cinque sedi - il Museo Guarnacci, la Pinacoteca, Palazzo dei Priori, il Teatro Romano, il Battistero -, potrà sicuramente contribuire a far conoscere il patrimonio monumentale cittadino. E come iniziativa del genere, è apprezzabile.

Manca però di quell’organicità e quello spessore che contraddistinguono le grandi mostre d’arte. Questa lascia l’impressione che si sia voluto creare a ogni costo un “evento”, giustificato dallo stridente contrasto fra le opere in mostra e gli ambienti che li ospitano. A colpire, molto spesso, non è l’opera in sé, quanto la stonatura che questa comporta quando inserita su uno sfondo antico. È il caso di Red Waste, di Elvira Todaro e Maurizio Giani, o del Bird of Paradise di Cesare Inzerillo.

Opere contemporanee dall’ispirazione logora, che un tripudio di colori cerca invano di mascherare, e che danno alla mostra uno sgradevole sapore di trovata commerciale.La mostra offre tuttavia qualche buon momento; oltre al capolavoro della Deposizione, anche se, va detto, il contesto storico-politico di Rosso è profondamente diverso da quello dei suoi colleghi. Suggestivi i disegni di Lorenzo Viani, direttamente ispirati a Rosso, così come affascinante è la plasticità dei corpi dipinti da Roberto Ferri ne Il sepolcro degli amanti.

Sorprende la Vergine in marmo bianco di Adolfo Wildt, vicino a Rosso per la sintesi tra forma, realismo e astrazione. Commuovono le Donne sulla scala di Pirandello, audace interprete di una Secessione che dallo studio delle forme era passato allo studio dell’Io.Troppo poco per quello che dovrebbe essere un progetto di rilancio artistico della città, e troppo poco per costituire un credibile approccio con l’arte contemporanea, la cui difficoltà nel trovare nuove idee è qui emersa con evidenza.

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