Università degli Studi di Firenze
Comune di Firenze

 
GLI INSERIMENTI LAVORATIVI DEI MALATI PSICHIATRICI
NEL QUARTIERE 5 DI FIRENZE

 
Rete di Comunicazione
Nove da Firenze

 
Dedicato a Marco

17 Settembre 2000, dopo una settimana trascorsa a pensare alla stesura della ricerca, mi ritrovo qui a cercare il senso del mio lavoro, a ricostruire non solo le fasi di un progetto, ma a guardare alla mia esperienza come ad un processo interno del quale si intrecciano emozioni, immagini, stati d'animo, acquisizione di informazioni circa le contraddizioni (tante!), tra teoria e realtà concreta, desiderio di mantenere vive le motivazioni che mi hanno portato fin qui.
Un ricordo è quello di Marco, dieci anni, che non riesce a stare seduto al suo banco, mi sputa in faccia urlandomi che Dio non esiste, raccatta con una velocità impressionante i quaderni dei compagni di classe e li scaraventa in un secondo fuori dalla finestra. Mi alzo dalla cattedra cercando di avvicinarmi per tentare qualcosa, ma neanch'io so cosa. In un attimo Marco è nel corridoio, grida a scuarciagola battendo la testa nel muro.
L'episodio si conclude con "l'allontanamento temporaneo del minore dalla scuola".
Ho scoperto solo dopo alcuni giorni che Marco era sopravvissuto alla morte del fratello arso in un rogo creato dai due bambini mentre giocavano con alcool e fiammiferi, assistendo dalla cima di un albero su cui si era rifugiato, impotente dinanzi alla furia delle fiamme.
Supplente da due giorni in una scuola dell'obbligo con un incarico di sei mesi: né colleghi, né direttore didattico avevano ritenuto opportuno informarmi dell'accaduto. "Allontanalo dall'aula o mandalo dal direttore se dovesse dare fastidio alla lezione" mi avevano detto, come se Marco non esistesse, come se la sua presenza fosse solo un intralcio al "normale" andamento delle attività scolastiche.
Era il Febbraio 1995.
Per quanto tempo mi rimbalzò nella mente quella sensazione di impotenza? Non so dirlo, ma so che fu nulla rispetto alla sofferenza di quell'individuo che disperatamente urlava il suo bisogno di aiuto.
Grida Antonia Bernardini. Grida, ma le suore non si accorgono di lei. Da quattro giorni è legata stretta al suo letto, nel manicomio criminale di Pozzuoli, per sole donne.
E' legata perché soffre di "delirio di persecuzione con tendenze autolesioniste". Grida Antonia Bernardini, ma invano. Da oltre un anno sconta una detenzione preventiva per aver insultato un vigile municipale, Le suore sono abituate. Ha alle spalle molti ricoveri, ma la fedina penale pulita.
Grida come un'ossessa e nessuno fa caso alle fiamme che divorano le lenzuola, poi la federa, il suo corpo. Quando un'infermiera sente puzza di bruciato, va a vedere. Le lingue di fuoco sono ormai alte. Antonia Bernardini muore così, torcia umana dopo quattro giorni di agonia, il mattino del 2 gennaio 1975. Un'unica domanda prepotente si fa strada tra i pensieri di chi ogni giorno vive, lavora e combatte contro il disagio della malattia mentale: quanto tempo ancora servirà, quanta sofferenza, quanto spirito di sacrificio, quanti errori, quanta strada abbiamo da percorrere prima di prendere coscienza del popolo di persone che, dal ghetto in cui le abbiamo rinchiuse, chiede urlando che venga loro restituita l'identità alla pari con gli altri cittadini del mondo?
 
Dr. Miriam Curatolo

 
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